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— In somma io non so trovare altro espediente che questo — diceva Ignazio Gesualdi alla marchesa — bisogna che vi sforziate a fare quel che io vi ho suggerito, se vorrete uscire da questo ginepraio.
— Ne convengo anch'io, ma vorrei provarmi ancora...
— Provatevi quanto vorrete, ma non s'otterrà nulla. Il male tutto sta lí, signora; io lo diceva sempre: mettetela in un convento, in un istituto, che ve la ridurranno come un terreno bene apparecchiato a seminarvi ciò che vi piacerà meglio; ve la ridurranno come tela ben mesticata ed atta a potervi dipingere a vostro gusto. Ma voleste farla educare da un uomo, il quale, non ostante che fosse prete e pareva dabbene, con quel suo continuo parlare del Vangelo, non mi piaceva né punto né poco. Costui oltre d'averle messa troppa roba nel capo, chi sa che razza di massime e di principi vi avrà innestati. Da ciò proviene la sua ostinazione; e vi so dire che finché quello sciagurato del Cavalcanti le rimarrà nel cuore, adoperate quanti rimedi saprete immaginare, vi so dire che pesterete sempre l'acqua nel mortaio.
— Ma che non s'avrebbe a trovare una via da ridurre il Cavalcanti in modo che piú non c'inquieti?
— A questo ho provveduto, e fra due o tre giorni saprete tutto. Ma ciò solo non basta; anzi è un colpo, la efficacia del quale dipende tutta dall'adoprare lo espediente che vi sto consigliando, e adoprarlo subito.
— Sia pure, a patto che se n'esca una volta per sempre.
— State tranquilla, e' non fallisce.
Cosí la marchesa e l'arcano marito chiudevano un lungo colloquio, nel quale avevano esaminati tutti i mezzi possibili ed immaginabili per indurre l'Amalia al cruento sacrificio del proprio cuore. La sventurata era rimasta parecchi giorni nella sua prigione, esposta a tutti gl'insulti del Gesualdi; e comecché il vedersi priva dell'aspetto della madre e la quasi certezza dell'odio suo, le tormentasse l'anima, nondimeno l'esser conscia della propria innocenza, la rendeva piú fidente nella giustizia divina, e sperava uscir vittoriosa da quel laberinto di sciagure.
A Beppe Arpia erano affatto ignote le luttuose vicissitudini che seguivano nel palazzo Pomposi. Ignazio Gesualdi ch'era diventato direttore spirituale, consigliere intimo, e maestro di cerimonie dello strozzino, poneva ogni studio a tenere segrete quelle scene; gli recava le nuove dell'Amalia, assicurandogli essere innamorata matta di Babbiolino, ad altro non pensare che allo sposalizio, incitare la famiglia di far presto; e se per allora la non era visibile, un leggiero incomodo di salute, dietro rigorose ingiunzioni del medico, la costringeva a stare con iscrupolosissima cautela in camera propria. Lo strozzino mattina e sera mandava a sentire le nuove della salute della nuora, e ne riceveva risposte tali da non fargli nascere in mente il piú lieve sospetto.
Ma le cose non potevano piú durare a quel modo; erano scorsi parecchi giorni, e l'Arpia cominciò ad insistere di voler vedere la fanciulla, non esservi nulla di inconvenevole, se egli che doveva esserle suocero, fosse fatto passare in camera di lei.
Fu in questi giorni d'insistenza che il Gesualdi pensò davvero ad affrettare le cose, vedendo il partito a gran repentaglio; e però provvide di avventare contemporaneamente due colpi, uno di fuori ed un altro di dentro, che provano la iniquità e la sottigliezza dell'intrigo, condotte ad un punto tale da meritare un brevetto d'invenzione, o almeno di perfezionamento.
Considerate bene le circostanze, o secondo l'odierno frasario de' ciurmadori politici, definita la posizione, conobbe che i rigori avrebbero dell'Amalia potuto fare un cadavere, non già una vittima; ed egli non aveva mestieri d'un cadavere, ma d'una vittima che si lasciasse moralmente scannare. Guardò poscia a' mezzi di conseguire lo scopo; e fra i probabili e i possibili gli parve certissimo il seguente, che, dopo d'averlo ponderato bene, palesò e fece adottare alla compiacente marchesa:
La marchesa rimarrebbe a letto qualche giorno, si fingerebbe pericolosamente inferma; cagione di tanta sciagura, secondo l'opinione di un solenne consulto medico, essere il colpo ricevuto dalla ostinazione della figlia; unico essere il rimedio a salvarle la vita, cioè la riconciliazione da operarsi per mezzo del consenso che l'Amalia darebbe a sposare Babbiolino.
Fu questo il programma politico d'Ignazio; e discusso ed approvato punto per punto, venne, senza indugio, posto in esecuzione nel modo seguente.
La marchesa Eleonora un certo giorno sentendosi male, volle rimanere a letto. Verso sera il male, ch'ella credeva cosa transitoria, le si accresce; la nuova, cosí come traversa le stanze, si altera, si gonfia, e perviene all'Amalia in questa formula: la marchesa è a letto, è minacciata da un male acuto, i servitori sono corsi in furia a chiamare i medici: la marchesa è in presentissimo pericolo di vita.
La funesta nuova fu come una punta avvelenata che trafisse a piú riprese il cuore dell'Amalia: ella che quando pativa piú crude le durezze della madre, mandava una preghiera a Dio perché non le lasciasse spengere in seno l'affetto che le portava, appena la seppe in pericolo, non vide piú nulla, non senti piú nulla, e chiese di essere condotta al letto della marchesa. E mentre stavasi a disputare con un servo, che le voleva contendere il passo, il Gesualdi fingendo di accorrere al rumore, mentre si stava lí pronto ad intervenire: — Rimanete — disse — se non volete accelerare la morte della infelice signora: se l'avete trafitta con la vostra disubbidienza, l'aspetto vostro sarebbe un secondo colpo che l'ammazzerebbe.
E furiosamente riserrò l'uscio.
L'improvviso apparire del Gesualdi ricacciò in fondo del cuore all'Amalia la piena dell'affetto che già traboccava; il sentimento della propria dignità, un certo indefinibile sentimento d'odio, ospite nuovo nell'anima di lei, troncarono in bocca alla fanciulla le fervide supplicazioni con che ella sforzavasi di commuovere il servo perché le concedesse l'uscita. La presenza del Gesualdi, la idea del quale nella mente dell'Amalia svegliava le idee concomitanti d'iniquità, di perfidia, di macchinazione, di finzione, di menzogna, e di tutto ciò che v'è di scellerato e di lordo nell'umana natura, la fece per un istante dubitare della verità della nuova: e mentre il carnefice la insultava con le surriferite parole, ella gli volse le spalle, ed appressandosi allo scrittoio, aperse la Bibbia, e lesse alcuni versetti del libro di Giobbe.
Come si sentí sola, lo sdegno a guisa di fiamma cui venga meno l'alimento, si spense; l'amore filiale tornò ad invaderla tutta. Se ponevasi a meditare, il suo concentramento finiva in singhiozzi! Se cercava leggendo sviarsi dai suoi tristi pensieri, una grossa lacrima cadeva sul libro, e il libro le cascava di mano: passeggiava inquieta, abbandonava la persona sul letto tenendosi fra le mani celato il volto; facevasi alla finestra che dava sulle stanze de' servi; tendeva le orecchie, udiva un andare e venire, un mormorio che ora pareva ingrossare, ora sedarsi; la immaginazione le si agitava convulsa, il cuore stava per iscoppiarle d'affanno. Sull'imbrunire, standosi alla finestra, le fu dato scoprire una serva, la quale per gelosia che ne sentiva la vecchia ministra della marchesa, e per avere doti d'animo che non istavano d'accordo co' requisiti degli abitatori di casa Pomposi, godeva pochissimo il favore della padrona; ed avendo osato compiangere l'Amalia della dolorosa prigionia e chiamarla innocente, l'avevano minacciata di cacciarla via come una ladra. A costei si volse l'Amalia per chiederle nuove intorno alla salute della madre, e si senti rispondere quasi piangendo: che andava assai male; che i medici erano ragunati intorno al letto dell'inferma; che tutta la casa era a soqquadro, e cose simiglianti.
Le parole di costei, ch'era la sola, di cui l'Amalia non poteva sospettare, la spinsero all'estrema disperazione; girava per la stanza a modo di forsennata, e fra i singhiozzi, e il tremito, e i singulti esclamava: — Madre mia, madre diletta, madre infelice! Se son io la cagione per cui tu soffri tanto, io son pronta a sacrificarmi; prendi la mia vita; ch'io non posso, non debbo vivere spergiura a Roberto; prendi pure la mia, vita, ma salva la tua!
Cosí gemeva la derelitta, ch'era rimasta al buio affacciandosi di continuo alla finestra per interrogare la serva la quale avevale promesso tenerla informata di tutto; ma anch'essa, tuttocché apparisse meno tigre degli altri famigliari, l'aveva abbandonata. Rientrava in fondo alla stanza, abbandonavasi come persona stanca, e pensava: i pensieri in quel povero capo urtavansi quasi onde agitate da' venti per ogni verso e con impeto.
Fu quello per l'Amalia il primo vero dolore, uno di quel dolori che in un'ora sola divorano anni di vita. Dopo lungo affannarsi giunse a farsi sentire da un vecchio servo, e lo pregò con parole che avrebbero strappate le lagrime dall'occhio spietato d'un inquisitore, perché le facesse salire su il medico cui ella bramava favellare di cose importantissime. Il servo riferì tutto al Gesualdi, per l'organo del quale, come per quello di un gran cancelliere dell'impero, passavano perfino le minimissime cose che seguivano in famiglia. Ignazio disse fra sé: «Ci siamo, o siamo presso; la cede, la fa cenni di capitolare; tra poco la fortezza è nostra». E ne portò la lieta nuova alla marchesa, avvertendola d'accogliere tutta la sua forza comica per rappresentare maestrevolmente la chiusura d'una scena, che era stata fin allora condotta sí bene, e produceva mirabile effetto.
Il sanfedista fra il numeroso ed eletto gregge dei proseliti della grande associazione religiosa, morale e politica, che in Ispagna si chiama degli Sterminatori, scelse tre medici, amicissimi suoi. Fece loro palese com'ei volesse giovarsi dell'opera e del carattere loro per domare una donzella ribelle, ch'egli aveva educata ai grandi interessi della società; ma, sviata forse per ispirazione del demonio, se si fosse lasciata trionfare in quest'atto d'insubordinazione, non sarebbe stata mai piú riducibile, con gran detrimento della società, attese le egregie doti fisiche e morali della fanciulla e la posizione sociale cui l'avrebbero di certo elevata le ricchezze ingenti, delle quali avrebbe potuto un dí disporre come padrona della immensa fortuna di Beppe Arpia. Concluse che trattavasi di curare la infermità vera della figlia, non mai la supposta della madre. I tre ciuchi — ciuchi carnefici, matricolati all'Università, e rimatricolati alla scuola dello Spedale — aderirono alla proposta, promisero di prestarsi con zelo e con amore profferendo quel «lasciate fare a noi» de' maestri dell'arte. I sanfedisti ciarlano poco, pensano molto, minano sempre e tirano diritti allo scopo con testardaggine maravigliosa.
Allorquando l'Amalia richiese il medico, Ignazio Gesualdi le menò quello che a lui parve il piú destro a sostenere la parte di catechista. Condottolo fino all'uscio, si trasse da canto rimanendo al buio come un ladro, e lasciò parlare il solo medico, standosi prontissimo a uscir fuori nel caso che la matassa si arruffasse.
Il servo, cui era affidato l'ufficio di carceriere, aperto l'uscio, disse: — Ecco il signor dottore. — E andò via.
La fanciulla era genuflessa e con le mani giunte, e pregava; appena vide il medico, si asciugò gli occhi, e gli corse incontro chiedendo: — E mia madre? Come va la mia diletta madre?...
— Come piace a Dio, signorina cara; il caso è assai grave; è inutile ch'io dissimuli; si rassegni agli imprescrutabili voleri del cielo: forse e senza forse le toccherà di sopportare una grandissima sciagura l'offra al Signore in espiazione de' suoi peccati.
— Ma dunque è vero?... O me infelice! Io mi sento morire d'angoscia...
— Si calmi, signorina, siamo nati per morire; siamo creature militanti in questa terra di traversie, e quando Dio comanda, non c'è che fare, bisogna rispondere alla chiamata: estote parati, diceva il glorioso Apostolo delle genti, bisogna star sempre apparecchiati al terribile appello; ciò che il Cielo dispone, è sempre per il nostro bene.
— Ahi! Me misera; conducetemi a lei; io voglio vederla la mia buona, la mia amorosa mamma; io voglio stringerla al seno la mia madre cara: lasciatemi andare.
— La non faccia quest'altra corbelleria; se ci rimane un'ombra di speranza a vincere la gravissima infermità, la sua presenza, irritandole la ferita, affretterebbe il doloroso momento.
— La mia presenza! E di che son rea? Che sono forse una scellerata? Cosa ho fatto?
— Signora Amalia, qui bisogna parlar chiaro; il medico è confessore. Io e i miei colleghi siamo stati unanimi a riconoscere che la infermità della marchesa è uno di quel mali acuti e perniciosi che nascono da forti dolori morali, e che spesso esplodono in colpi apoplettici o epilettici, pongono in disordine la macchina, e non v'è arte umana che vaglia a rimetterla nelle sue naturali funzioni. La marchesa nella sua stessa sciagura ha avuta la fortuna di non essere tocca d'apoplessia, sebbene di quando in quando ci sia stato qualche sintomo, il quale ha dato indizio che la voglia andare a finir là. Il medico è confessore; abbiamo chiesto tutte le piú minute informazioni, e ci hanno raccontato ogni cosa; già sappiamo ogni cosa. Ella...
— Ma qual'è la mia colpa?
— La colpa è sua e non è sua. Ch'ella ami un altro giovane, e ricusi quello che le propongono, per suo bene, i parenti, non è nulla di male: nessuno vorrebbe condannare le inclinazioni del cuore; la vocazione viene da Dio, e noi siamo cristiani cattolici. Ma quando il partito non conviene; quando invece un altro parentado può recare utile grande alla famiglia; quando la salvezza della famiglia dipende da un sacrificio della volontà nostra, dobbiamo essere pronti e lieti a sacrificare le nostre inclinazioni al bene di chi ci ha data la esistenza. E poi l'Onnipotente non sacrificò il proprio figliuolo divino per il riscatto dell'uman genere? E Cristo, che venne in terra per essere d'esempio alla condotta d'ogni uomo, non diceva sempre agli Apostoli: Discite a me, quia mitis sum et humilis corde: imparate da me che son mite ed umile di cuore? La vita nostra deve essere un continuo sacrificio; chi d'un modo, chi d'un altro. E per concludere, poiché non posso perdere piú tempo, ed un solo momento può decidere, io in coscienza — la scusi se parlo franco; si figuri che le parli il suo padre spirituale — in coscienza sono obbligato a dichiararle che la vita della marchesa, secondo i dati dell'arte medica, non può salvarsi; a meno che non segua una crisi, a produrre la quale, — non secondo il mio intendimento che è corto, ma secondo il parere de' miei colleghi, i quali hanno lunga esperienza sarebbe necessario, che ella, da quella signora ragionevole che l'è stata sempre, si presentasse all'ammalata dicendole che ella di buon cuore si arrende, ed è pronta a compiacerla in tutto. E siccome contraria contrariis curantur — qui il medico diceva un solenne sproposito, ed è possibile che non intendesse il latino maccaronico della farmacopea a uso degli speziali de' secoli andati — è probabilissimo che da quella stessa mano, da cui partì il colpo micidiale, le venga anche il rimedio. E’ questo il solo ed ultimo tentativo in cui può sperare la scienza.
L'Amalia, prima che il medico terminasse il noioso sermone, non era piú lí con la mente; era come rapita in estasi: cogli occhi lacrimosi, levati in alto ed intenti al firmamento stellato pareva conversare con un ente invisibile. In quel tempo rammentossi di avere veduta, nel Paradiso di Dante, Piccarda vergine, sopra ogni altra, bella di forme e bellissima d'anima. Era sorella a Corso Donati capo di parte guelfa. Costui che gli antichi scrittori dipingono somiglievole a Catilina, s'era messo a capo della canaglia per recarsi nelle mani il timone della repubblica, o rendersene tiranno. Un altro uomo potente, di cui Corso richiedeva l'aiuto, gli pose a condizione della lega da conchiudersi, la mano di Piccarda, ed ei giurò di dargliela. La verginetta, coperta di un saio di penitenza, erasi fino da' suoi teneri anni rinchiusa in un monastero di vergini, e sposata misticamente a Cristo, divisa dalle tristizie mondane, pregustava in terra il pane degli angioli. I sacri voti della giovinetta non furono d'ostacolo al crudo amante ed al feroce fratello, perché accompagnati da' loro sgherri, scalassero le mura inviolabili del chiostro, piombassero come uccelli carnivori sopra le religiose mentre pregavano in coro, e rapissero Piccarda. La vergine, fra gli artigli de' suoi rapitori, inalza una preghiera alla santa protettrice dell'Ordine, e il cielo con portento inaudito le manda cotale infermità che il fiero amatore non osò contaminare il giglio dell'innocenza, ch'essa recò immaculato e purissimo all'eterno suo sposo, che l'aveva resa trionfante delle insidie di Satana.
Questa commovente istoria ricorse alla mente dell'Amalia, la quale sperò, in premio d'essersi sacrificata ai voleri della madre, che Iddio nello infinito tesoro delle sue grazie la libererebbe, la giustificherebbe anche agli occhi di colui che aveva ragione di chiamarla spergiura. E tanto la sua fantasia l'aveva rapita, che parevale vedere Piccarda, che spirante celeste bontà, le diceva: «Offri o cara, in olocausto alla salute della genitrice diletta, la santità del tuo amore; tu adempi al supremo tuo debito; io pregherò il padre d'ogni misericordia che ti conceda una sorte simile alla mia, e ti mantenga intemerata e fida al tuo Roberto fino al supremo istante di tua vita».
Le pareva avere sensibilmente udite queste soavi parole, allorché il medico, dopo avere per pochi minuti aspettato in silenzio, le chiese:
— Non mi dà nessuna risposta? Le ripeto, i momenti sono preziosi; un istante perduto sarebbe forse irrimediabile; si tratta della vita della marchesa... Dunque?
— Madre mia, io farò quel che tu vuoi — esclamò l'Amalia avviandosi verso l'uscio.
— Piano, signora Amalia: o dove vorrebbe ella andare? Già lo veggo che le mie parole l'hanno persuasa, e me ne rallegro con lei: ma non è bene sorprendere l'ammalata con un colpo cosí repentino; la impressione potrebbe ucciderla. Aspetti anche un poco: reco la buona nuova, predispongo la paziente; se lo crederò convenevole, glie la comunicherò subito, e fra pochi momenti ritornerò qui, e dettole come la debba regolarsi, la condurrò io medesimo.
Il medico che usciva trionfante da quella stanza, come il pio sacerdote esce dalla prigione, lieto di avere riumiliato e indotto il condannato a patire il supplizio senza odio de' suoi carnefici, si volse al Gesualdi che egli supponeva lí tuttavia ad ascoltare, e lo chiamò per nome. Ma il tristo, appena sentí uscire dalle labbra della fanciulla il sí tanto stentato ed aspettato tanto, sdrucciolò in camera della marchesa, la quale, come seppe la nuova, provò tale contento che dimenandosi sul letto e gesticolando con le braccia, ne scompose gli addobbi.
— Non tanta furia, marchesa mia — disse Ignazio — calmatevi, non abbiamo per anche finito; non potrete pensare allo stato di convalescenza se non dopo che si sarà firmata la scritta matrimoniale. — Ed intanto rimetteva le coltri, aggiustava il parato, ed ammoniva la marchesa perché ripigliasse l'atteggiamento convenevole.
L'Amalia, mezz'ora dopo, comparve condotta dal medico che l'aveva convertita.
La marchesa Eleonora Pomposi, la gran dama dell'impero, giaceva supina: il petto alzandosi ed abbassandosi a vicenda pareva un mantice d'affanno; le braccia menava di qua e di là come smaniosa; la testa aveva coperta d'una cuffia, sulla quale era avvolta intorno una benda che le copriva la fronte fino in su gli occhi; teneva rivolto il viso dalla parte della parete. Non essendo possibile trasformare al naturale la tinta vermiglia della faccia, non che nascondere la ciccia delle gote e del mento, la malattia fu detta febbre infiammatoria.
Le cortine del letto erano di damasco purpureo ampie e lunghe, e in quell'occasione, artificiosamente sbassate; una lucerna riparata da una ventola, mandava un fioco lume che faceva appena distinguere la massa degli obietti. I medici sedevano accanto al letto, uno di faccia all'altro: erano due cosi, l'uno alto scarno e con un naso lungo e ritorto come un grifo di barbagianni; l'altro grasso, panciuto, con un capo che a guisa di popone era infitto dentro un paio di ampie spalle. Questo qui stavasi colle mani appoggiate sul grosso pomo d'argento d'una canna d'India; quello lí sedeva con una gamba sovrapposta all'altra. Erano presso a poco della medesima età, cioè in sulla cinquantina; le loro sembianze, la maniera d'atteggiarsi, la maniera di vestire erano quali si convenivano a' proseliti della setta. Sur un gran tavolino lí presso giaceva aperto un affumicato libraccio, e sarà stata un'antica edizione di Boeravio, e vi stavano disposti in artificioso disordine, bocce, boccette, fagottini, barattoli, ec.
La scena, sí per le figure principali, e sí per gli accessori, era accomodata con insuperabile magistero. Rembrandt, se l'avesse veduta, ne avrebbe fatto un quadro da valere cento mila fiorini.
Il Gesualdi non ci si fece trovare: perocché pensava che la sua presenza avrebbe potuto irritare gli spiriti alteri della fanciulla, e guastare irrimediabilmente la faccenda. Si ritirò dentro uno stanzino contiguo, donde non perdeva né anche una sillaba di quel che si sarebbe detto.
— La venga meco — disse il medico all'Amalia — abbia un po' di prudenza, non si abbandoni all'impeto del cuore; la faccia quello che le dirò io, se no, invece di far bene si farà peggio. — E la trasse accanto al letto dalla parte del muro dove la marchesa teneva rivolto il viso. Quindi pose la mano sulla fronte dell'inferma, e tentennò il capo quasi intendesse dire: — L'affare è serio. — Poi prese il polso e sentitolo alquanto, bisbigliò: — La bolle. — Indi piegatosi leggermente, chiese a voce bassa e piana: — Signora marchesa, signora Eleonora, come le pare di stare?
La marchesa scosse a stento il capo e non rispose.
E il medico: — Povera signora! Chi sa come soffre!
— E le viscere se le sente bruciare ancora?
La marchesa tornò a scuotere il capo, ed aperse la bocca come se volesse dire: — Vedete, io brucio.
— E il capo se lo sente andare in giro? Le pesa sempre?
L'ammalata mandò fuori un cupo e lungo sospiro.
— La stia di buon animo, signora; non è nulla. Le farebbe piacere di vedere la signora Amalia? La sua figliuola?
— Dov'è, dov'è, la mia cara — mormorò la marchesa tenendo tuttavia gli occhi chiusi a guisa di persona che vaneggi: — la mia bambina cara... no... ella sola è la causa... no, no...
— Ma ora l'è buona; conosce che ha sbagliato; si pente, ed è qui per consolarla. — E presa per il braccio l'Amalia, la quale si lasciava condurre come una macchina — dacché lo spettacolo della madre prostesa sul letto di morte l'aveva vinta, avvilita, annientata — le disse all'orecchio: — Faccia piano, si chini e le parli qualche parola di consolazione: ma badi bene, se non le dirà e ridirà chiaro e tondo ch'ella è pronta a fare quel che vuole l'ammalata, s'ella opponendo la minima difficoltà, producesse la minima irritazione nelle fibre cerebrali, il colpo sarà fatale, e si può correre per il prete. La badi, la vita della marchesa è nelle sue mani: le sia angiolo salvatore o le sia carnefice, faccia lei.
Alle ultime parole del medico la marchesa rispondeva: — No, non è vero... lo dite per ingannarmi... la non mi vuol bene... ho perduta la figlia... io vo' morire...
— No, madre mia, no, madre cara! — disse lacrimosa l'Amalia piegando la persona sul letto e baciando la mano della marchesa.
— È questa la mia buona Amalia?... E sarebbe vero?... Io aveva persa la speranza di riabbracciarla prima di morire... dite, dottore, non m'inganno?... Io discerno male... io veggo appena... ma no, la sento, è questa la mia buona Amalia, la mia cara bambina — mormorava la marchesa affettando il parlare rotto e balzano di chi delira, mentre tirandosi al seno la figlia, la cingeva con ambe le braccia grasse e rosse di salute.
Rimasero un pezzo a quel modo, mormorando insieme carezzevoli detti, fra i quali di quando in quando si sentiva la marchesa che interrogava e chiedeva, e la figlia che rispondeva sempre: sí.
Il medico stava impalato a vedere la scena e ricambiava coi venerati colleghi certi sguardi intelligenti che parevano telegrafi elettrici. Quando gli parve tempo, svincolò l'Amalia dal lungo amplesso materno, e rivolto all'ammalata, le disse:
— Signora marchesa, la mi lasci un po' sentire il polso.
— La mi faccia vedere la lingua; la metta un po' fuori; un altro pocolino; cosí. — Vi fissò gli occhi sopra; la vellicò leggermente col dito mignolo; poi ponendole la mano sulla fronte, e voltosi ai compagni:
— Dottore Stanislao, dottor Saverio, venite, vedete se io m'inganno.
I tre bastardi d'Esculapio circondarono il letto; e palpata e mirata per ogni verso l'inferma, guardandosi spesso senza far motto, dissero in terzetto — Non c'è dubbio. — Ed uno di loro quasi intonasse un a solo, esclamò: — Onnipotenza di Dio! La crisi principia. — E i colleghi rispondevano, l'uno dopo l'altro: — Principia. — E quasi fossero invasi di subita gioia, si dettero ad armeggiare per la stanza con le bocce, i barattoli, i bicchieri, le chicchere, i piattini, i cucchiai, i coltelli, gridando ad una voce — E' bisogna secondare la natura... — E fatta una pozione zuccherata, ne ficcarono un cucchiaio in bocca alla marchesa, la quale, dopo d'averlo mandato giú a stento e a piú riprese, sospirò: — Ah!... Mi sento meglio... dove sono?... Cos'è stato?... Cosa m'è parso di vedere?... Mi sembrava che la mia bambina mi stringesse al suo seno... oh! Mi faceva tanto bene quell'abbraccio... ma no; io ho sognato... ella è lontana da me... ella...
— È qui fra le tue braccia, mamma dell'anima mia; son qui per consolarti, per dare tutto il mio sangue, tutta la mia vita e salvare la tua. — E l'abbracciava e la baciava sulla bocca, sugli occhi, sulle gote: e con que' baci trasfondeva tutta l'anima sua in seno alla madre. E non vi furono al mondo mai carezze piú vere e preziose di quelle, e non fu mai fatto piú iniquo sciupio di tanto tesoro d'affetti. Povera colomba in mezzo a cosí crudi sparvieri!
— Dunque tu m'ami ancora? — disse languidamente la marchesa — Sei tu sempre la mia cara figliuola?
— Sempre, sempre.
— Dunque sarai obbediente?
— Io non ho piú volontà: disponi della mia vita.
— Tu mi riai da morte a vita, figlia cara; tesoro, gioia e consolazione della tua povera mamma... se piacerà al cielo di chiamarmi a sé, adesso muoio contenta.
— Ah! No, che tu vivrai mill'anni.
— Signora marchesa — disse il medico, che a preferenza de' suoi colleghi, i quali facevano da figuranti, recitava la prima parte — la si calmi, la si sforzi di tenersi un po' tranquilla: la crisi potrebbe retrocedere. E tempo ch'ella rimanga sola; le basti che la signorina, la quale perché è sua figlia non poteva non esser buona, le assicuri, le giuri che presto si faranno gli sponsali.
— Fra due giorni io voglio vedere firmata la scritta; se debbo morire, voglio almeno morire felice; mi trasporterete anche il letto in sala, ma voglio vedere.
I medici presero i cappelli in atto di partire. Uno di loro, chiamata la vecchia cameriera, le diede parecchi ordini con che governare l'ammalata per quella notte: e fra gli altri, assoluto divieto a chicchessia di farla parlare. La scena s'era molto allungata, e temevano che il minimo passo in fallo, la piú piccola nota fuori di scala potesse sciupare il felicissimo effetto della commedia, stupendamente ideata, e rappresentata con maraviglioso magistero.
L'Amalia, che avrebbe voluto rimanere tutta notte a vegliare la madre fu costretta anch'essa a partire; e riabbracciatala piú volte, malgrado le proteste importune del medico, si allontanò come briaca d'affetto, di compassione, di dolore.
Amalia voleva rimanere almeno nella stanza prossima a quella della marchesa, ma sul pretesto di lasciarla in perfetta tranquillità, conforme il medico aveva fatto comandamento, la indussero ad allontanarsi e risalire alla propria cameretta, che un'ora fa, era stata suo carcere. Quivi giunta, si abbandonò vestita sul letto; la stanchezza delle membra e piú quella dell'anima per essersi tanto dibattuta in una rete di dolori, la fece cadere in una specie di sopore affannoso che non era sonno tranquillo e benefico. Rimase sopita quasi un'ora: ed erano tante e sí varie le visioni che le travagliarono la mente, che ella credendo di avere dormito una lunga notte, alzossi e si fece alla finestra. Le stelle che tremolavano innumerevoli per i vasti campi del cielo sereno, il letale silenzio della natura, l'avvertirono che la notte era ancora profonda. Richiuse la finestra; e cadde sepolta ne' propri pensieri: i suoi sensi avevano alquanto riacquistata la calma, la sua anima non travagliava piú sotto la ebbrezza della scena poc'anzi seguita: la sua ragione era nuovamente tornata a porle in assetto le facoltà intellettive. Breve ora di meditazione fu bastevole perché l'occhio interno della sua coscienza comprendesse tuttoquanto il laberinto in cui erasi gettata. La idea della madre moribonda, la idea dell'abborrito matrimonio, la idea di Roberto abbandonato indegnamente, erano come tre nemici, i quali piombandole sull'anima, ne avevano fatto un campo di battaglia, e vi combattevano con tanto furore che avrebbero spezzato anche un cuore di ferro.
Pensando alle soavi illusioni sí breve tempo gustate e cosí improvvisamente svanite, le pareva che la fortuna inebriandola tanto per poi lanciarla in fondo alla miseria, si fosse condotta seco simile ad un macchinista che solleva in alto una creatura, e dopo di averle fatto pascere gli occhi d'un portentoso spettacolo, la precipiti giú per ridurla in frantumi.
E di tutte le gioie già pregustate ed ora spente ella rassegnata faceva olocausto, purché il suo Roberto si fosse indotto ad apprezzare la immensità del sacrificio, e la innocenza di lei. Ma in che modo, ma con che mezzi avrebbe ella potuto ciò conseguire senza una singolarissima grazia del cielo? Questo pensiero le toglieva ogni coraggio, e la prostrava avvilita agli stessi occhi suoi.
In tale terribilissima lotta di pensieri la trovò l'aurora nascente, quando ella riaperse la finestra.
Nell'ore prime mattinali ad un cuore compreso di vera religione sembra che il Creatore, come una immensa figura in fondo ai misteriosi templi cristiani, grandeggi visibile sul balzo d'oriente e stenda la mano per benedire la ridesta natura e ravvivarla versandovi sopra un oceano infinito di luce. L'Amalia dall'aura fresca e dal puro chiarore del nuovo giorno senti rianimarsi, e prostrandosi a terra, e rivolta la faccia scolorata e lacrimosa verso quella plaga del cielo che a lei pareva la porta della casa di Dio, a sfogo dell'indicibile affanno che le aveva tutta notte torturata l'anima, mosse questa breve e fervida preghiera:
— Dio, che consoli gl'infelici, accogli il sacrificio che mi appresto a farti del mio cuore: è sacrificio immenso, dammi forza che sostenga i miei passi; considera la fragilità d'una fanciulla, solinga sulla terra, ridotta a non confidare in altri che in te solo. Io non ti chieggo di rimuovere dagli occhi miei il calice del dolore, che parve anche troppo amaro al tuo celeste figlio che pure era un Dio; io tranquilla vi appresso il labbro, e lo berrò a sorsi finché tu non avrai detto: basta! Cosí a te piace, sia fatta la tua volontà. Ma a te, padre de' miseri, conforto delle anime sconsolate, una sola grazia io chiedo; e la chiedo alla tua giustizia: fa' che al cospetto di Roberto io non paia colpevole, fa' ch'egli non mi maledica; ch'egli intenda come una forza maggiore d'ogni umana volontà mi trascini. Ah! S'egli mi chiamasse spergiura, s'ei considerasse il mio sacrificio come un tradimento... Dio, Dio! Che ciò non fia mai; Fonte d'ogni misericordia, a compimento della grazia che imploro, rendi felice Roberto; e s'egli reputandomi innocente mi commiserasse, se vedendomi col perpetuo lutto nell'anima, talvolta dicesse: «Abbi pace o povera sconsolata!» quand'anche non potessi conciliarmi alla mia trista ventura, almeno non morirei disperata!
E tacque abbandonando la sua stanca persona all'angolo del letto, piegò il capo e chiuse le palpebre sí che parea dormisse il sonno degli estinti.
Dopo d'essere rimasta lung'ora in quello atteggiamento, quasi avesse ottenuta la grazia implorata, rizzossi alquanto piú calma: l'auretta mattutina che spirava impregnata del soave profumo delle piante, le rinfrescò le addolorate membra; e prostesa sul letto il sonno la coperse con le sue ale benefiche.
Mentre per l'Amalia scorrevano lente e dolorose le ore e piene di lugubri immagini, la stanza, o a dir meglio, l'antro d'Ignazio Gesualdi era teatro d'un'orgia di tripudio. A' suoi gloriosi compagni d'armi, in premio della riportata vittoria, aveva improvvisato un lauto banchetto. I quattro sanfedisti si assisero intorno alla tavola facendo man bassa sulle vivande, gareggiando ad empirsi le ventriglie ad majorem Dei gloriam. Fatto il primo brindisi a se stessi, bevevano alla salute della marchesa, alla futura felicità degli sposi, alla cuccagna che promettevano i milioni dell'Arpia: bevevano e ribevevano e divoravano a guisa d'animali immondi: quel banchetto era un osceno bagordo. Cotale talvolta tripudia il boia mentre nella stanza vicina il condannato lotta con le ore atroci che precedono il momento in cui lo sciagurato, fatto spettacolo d'infamia, verrà trascinato al patibolo; e il filosofo che mira quelle scene in contrasto si sente dentro un ospedale di matti, e la terra gli appare come una macchina in perpetua dissonanza, che, nonostante, soggiace anch'essa alle leggi dell'armonia universale, le quali volgono in giro le miriadi de' mondi per la infinità dello spazio.
Non è né anche da domandarsi se la crisi, manifestatasi la notte innanzi, sempre progredendo, mettesse al nuovo dí l'ottima marchesa in via di guarigione. Prima che l'Amalia fosse ammessa alla stanza della madre, la lieta novella, significata in questa formula: «La marchesa va meglio; va propriamente bene; gli è stato proprio un miracolo» aveva fatto piú volte il giro per tutto il palazzo, cominciando dalla tettoia fino alle cantine ed alle scuderie. La vecchia ministra della signora piangeva di tenerezza, dicendo a chi voleva o non voleva ascoltarla, che avrebbe appeso un voto ad una certa immagine miracolosa.
Nondimeno, onde rimuovere ogni piú lieve sospetto che avesse potuto nascere in mente all'Amalia circa la scena della sera precedente, la stanza fu tenuta quasi buia, per espressa prescrizione del medico, il quale, non per tanto, assicurava che fra pochi giorni l'ammalata, qualora la crisi benefica procedesse regolarmente, si sarebbe potuta alzare da letto. — Conciossiaché — concludeva — siffatte malattie o uccidono in poche ore l'infermo, o lo lasciano senza distruggere le forze fisiche, e con un poco di cautela il paziente ritorna in piú florida salute che non era innanzi, e non mostra il piú lieve segno del pericolo corso; il che non segue nelle infermità lente e lunghe.
L'Amalia rimase quasi tutto il giorno presso al letto della madre. la quale la colmava del piú tenero affetto. E sebbene il pensiero di Roberto le facesse provare nel petto le dolcezze che il cardinale Torquemada dispensava generosamente agl'infetti d'eretica pravità, sforzavasi di parer lieta per non turbare il riposo della genitrice.
Dopo di avere alle ripetute domande della madre risposto che ella era pronta a sposare l'uomo impostole, volle provarsi di chiederle una grazia; e la marchesa, non prevedendo ciò che poteva essere, promise d'acconsentire, dicendo: — Chiedi, che la tua mamma è qui per compiacerti.
— Io ho già rinunziato per sempre a Roberto — disse l'Amalia — io l'ho trattato crudelmente, egli ha ragione di abborrirmi, di chiamarmi spergiura... Madre, concedimi ch'io lo vegga una volta sola e gli favelli per convincerlo che non l'ho tradito. — Non ti turbare, madre mia — io gli dirò che sono stata troppo imprudente ad accettare il suo affetto senza l'assenso della mia genitrice, e che mio primo dovere era quello di sottopormi ciecamente ai tuoi voleri. Madre, una volta sola, un solo quarto d'ora.
— E quando?
— Quando tu vuoi; domani, anche subito.
— Che! E' sarebbe un passo imprudentissimo; potrebbe produrre un gran chiasso e rovinare gli affari nostri oramai che sono presso al loro termine. Lasciati guidare da me, vai franca. Vedi! Per mostrarti ch'io intendo compiacerti in ogni cosa, e che se ora nego, lo fo per il tuo bene e per il bene della famiglia, ti prometto che pochi giorni dopo d'esserti sposata, io ti concederò, mi adoprerò anzi, che tu favelli con Roberto; e se giungerete ad intendervi, voglio dire a rappattumarvi, potrete anche seguitare a vedervi spesso; io ci avrò gusto anch'io, poiché se come marito farebbe la tua rovina, come amico potrebbe formare la tua felicità: non si può negare che è un bel giovinotto, è un vero figurino di moda e non mi dispiace.
Le caritatevoli parole della marchesa furono come un gran masso di ghiaccio che piombò sull'anima dell'Amalia, e le diede il ribrezzo del freddo. Non pare possibile come la nobile marchesa con tanta esperienza d'uomini e di cose non si fosse mai accorta che quel tali rimedi con cui studiavasi di lenire le piaghe della figliuola, glie le squarciavano maggiormente cavandone piú vivo il sangue. Se non che essa non poteva intendere siffatte cose, non essendosi mai trovata nelle condizioni morali della figlia.
Da fanciulla era rimasta tamquam tabula rasa fino al dí della benedizione nuziale. Consumato il santo matrimonio, il commercio delle creature socievoli, alle quali immischiossi, la raffazzonò a seconda del sentire e del pensare dell'epoca, e fra le altre abitudini che domano e trasformano l'essere umano, l'assuefece a considerare le delizie dell'amore come mercanzie valutabili a prezzi di tariffa. E però nel presentare alla figlia quell'idea circonfusa di un velo cosí trasparente che ci voleva un briciolo d'esperienza di mondo a discernerla distintamente, voglio dire nel darle ad intendere che il buon Babbiolino sarebbe stato il marito, e Roberto avrebbe potuto essere l'amante, credeva di anticiparle una lezione consolatrice in modo che aspettava d'essere ringraziata del lume che porgeva alla mente della giovinetta inesperta.
Né le mie nobili e savie lettrici troveranno da riprendere la marchesa Eleonora, la quale cosí pensando e facendo si conformava alle patrie consuetudini, che in taluni paesi avevano forza di legge. Difatti, ne' primi anni del suo matrimonio col marchese Pomposi, venuta in dimestichezza con una nobilissima vecchia signora veneta, le fu da costei raccontato come nella bella città delle lagune tutte le volte che si facevano contratti matrimoniali, agli articoli, che garentivano alla donna i comodi e i privilegi di dama, aggiungevasi sempre la clausola in cui il marito prometteva di mantenere in casa propria un uomo agli esclusivi servigi della moglie. Quest'essere parassito, questo personaggio da comparsa, chiamato el benevolo, aveva agli occhi del pubblico un carattere legale, riceveva una provvisione come un impiegato ordinario, accompagnava la signora al passeggio, al teatro, alle conversazioni. S'egli arrivava a conseguire la fiducia del padrone di casa, recavasi il mestolo in mano, e si chiamava l'amigo de fameia; se poi gli veniva fatto di destare qualche tenero sentimento nell'anima o qualche prurito sui nervi della signora, assumeva il titolo di amigo del cor. Cotesta specie di pro-marito legale durò fino alla estrema decrepitezza della serenissima repubblica, la quale, quando da Napoleone Buonaparte venne proditoriamente strangolata, seppellí, cascando sotto le proprie rovine, molte costumanze di quel gaio popolo. Ma tanto in Venezia quanto in alcuni altri paesi d'Italia, dove piú dove meno, se ai tempi della marchesa Eleonora, il cavalier servente legittimo non veniva piú stipulato nelle scritte nuziali, l'uso ne fu tollerato; anzi talune dame, ordinando oggimai le proprie faccende a guisa di dicastero ministeriale, talvolta non si contentano del solo amigo del cor; ma esaminate i frequentatori de' loro salotti, e fra le brigate che li popolano vi troverete l'amante titolare, i supplenti, i soprannumeri, gli apprendisti e gli aspiranti. La marchesa quindi, supponendo che la sua diletta Amalia fosse composta di ossa, di polpe, di nervi, di sangue e di tutti gl'ingredienti necessari a formare la macchina umana, cominciando dalla principessa di sangue puro fino alla bracina; anzi reputandola bellissima tra tutte le belle giovani della città, credeva che avesse il diritto di avere con piú larga misura ciò che all'altre era concesso. Cosí la savia Eleonora pensava, in virtú d'una logica, che, sebbene fosse in perpetuo litigio con la ragione, era approvata e riconosciuta dal costume, che spesso rinchiude la morale ne' libri come in una gabbia di ferro. Povera morale quando ha da mettersi a tu per tu con cotesta razza di logica! La quale, se quella sventurata avesse la imprudenza di uscir fuori e reclamare i propri diritti, e ridomandare il posto che dalla eterna ragione le venne primitivamente assegnato nelle cose del mondo, la ricaccerebbe nel suo obliato nascondiglio, fra lo scherno universale delle genti.
O dove è stato Roberto dal tempo che l'Adelina, si allontanò da casa Pomposi in cui seguivano le vicissitudini già raccontate, o che ha egli fatto finora? Tutte le cose di cui sia capace un cuore giovanile che ami di primo amore e sia riamato, e gli tocchi non solo di stare diviso dalla sua diletta, ma non poterla né anche vedere. Assomigliando, per via d'una comparazione decrepita, l'anima di lui ad un mare turbato fin nelle viscere da tutti i venti scatenati e sbuffanti e cozzanti insieme, se ne potrebbe avere una debole idea.
L'Adelina ch'era, come sopra accennammo, campata per miracolo dalle zanne dell'inferocito sanfedista, vinta dallo amore del suo amato fratello, e mossa dalle preghiere di lui, non che bramosa anch'essa di rivedere l'Amalia, erasi rischiata di andare sovente fino al palazzo: e qualche rara volta, informatasi, senza dare sospetto di nulla, se il Gesualdi fosse fuori di casa, ardí salire le scale, e chiedendo dell'Amalia, le fu detto che la era malata in camera: insistendo di volerla vedere, le era stato sempre risposto che ciò non era possibile.
Roberto adunque da parecchi giorni non aveva nuova nessuna della sua donna: egli gemeva dolorosamente, e l'Adelina faceva anch'essa eco ai suoi gemiti; il lutto era nuovamente tornato ad intenebrare il palazzo del Cavalcanti. E che sarebbe divenuto di lui se avesse potuto squarciare il velo che gli contendeva di ravvisare la fortuna, la quale, posta nell'arco una saetta avvelenata, studiava la mira per vibrargliela nel generoso ed infelicissimo cuore?