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Tre giorni dopo la notte funesta, in cui co' diabolici artifici, di sopra raccontati, fu proditoriamente strappato all'Amalia il consenso di sposare il figlio di Beppe Arpia, le sale del palazzo Pomposi erano illuminate a mezza festa. L'orgoglio d'Eleonora non che la goffa vanità dello strozzino avrebbero desiderato che la cerimonia della scritta si fosse fatta con solennità principesca; ma a cagione della convalescenza della marchesa, l'invito si restrinse alle persone confidentissime della famiglia. Beppe Arpia non invitò nessuno, avvegnaché, secondo l'albero genealogico formato testé dal dottore Lumaca, egli fosse l'ultimo ed unico rampollo del suo nobilissimo sangue; oltrediché amici non aveva sulla faccia della terra, come quello che per le sue infinite scelleraggini era segno all'odio pubblico.
La vasta sala conteneva una cinquantina di persone, galantuomini tutti e donne oneste di ventiquattro carati — figure caratteristiche che anderebbero fatte conoscere una per una ai miei lettori; ma premendoci di andare innanzi celeremente per arrivare a cose di maggiore momento, ci fermeremo solo un tantino per notarne qualcuna, che ci servirà come di saggio, o se voglia dirsi, di campione a conoscere gli altri rispettabili individui di cotesta eletta brigata.
Siccome — e se non isbaglio parmi averlo accennato — la brama di concludere cotesto nobile parentado aveva invaso d'un entusiasmo, che si sarebbe scambiato col delirio, l'animo di Beppe, ad Ignazio fu agevole ottenere da lui una somma non piccola di danari allegando un pretesto, che in circostanze ordinarie sarebbe rimasto senza effetto nessuno. Il Gesualdi quindi poté rimpannucciare le sale già sdrucite e seminude del palazzo, e chiamarvi, come era suo intendimento, il pristino splendore. Le marce anticaglie che lo ingombravano, erano già quasi tutte sparite, ed avevano fatto posto ad arredi di nuova fattura e di recentissimo gusto, che mercè le indorature e le inargentature false, davano una magnifica apparenza di ricchezza che, se fosse stata vera e sostanziale, si sarebbe giudicata un tesoro: miracoli dell'odierna industria oltramontana, la quale servendo al frenetico muoversi della moda che — come allunga ed accorcia la giubba tante volte l'anno, cosí altrettante vorrebbe fare e disfare gli arredi di casa, che i nostri vecchi un tempo legavano ai nipoti e bisnipoti, di guisa che talvolta una antica seggiola era una pagina muta d'una cronaca di famiglia — aspira a ridurre ogni cosa a cartapesta e vernice; e se la maravigliosa, multiforme, e quasi universale attitudine della gutta percha seguiterà a coronare gli audaci esperimenti de' chimici e de' manifattori, forse a noi uomini di questo secolo di fisici portenti, sarà serbata la sorte di vedere una fabbrica d'uomini di gutta percha. In somma di questi appariscenti cosi, a disegno gotico e a rococò, v'era grandissima profusione nelle sale di casa Pomposi; grandissima profusione di lumi, che, come direbbe un romanziere, vincevano la luce del sole: profusione grande di fiori; profusione non piccola anche di servitori incoltronati di certe ampie e gravi livree ch'erano un piacere a vedere. E perché io non vi faccia un inventario di tutti gli obietti grandi e piccini che vi si trovavano, richiamatevi al pensiero il fondo d'uno de' vasti quadri di Paolo Veronese, che con tanta felicità riproduceva nelle sue magiche tele la ricca e bizzarra magnificenza della Venezia del cinquecento.
Datovi una idea del fondo della pittura, ecco in brevi parole in che modo erano disposte le figure. Nel centro un gruppo di dame vecchie, sdraiate in ampie poltrone, coperte qual di velluto, quale di damasco; fra esse naturalmente primeggiava la padrona di casa: qua e là qualche dama giovane, o d'una certa età — che, come sapete, è la cosa piú incerta del mondo — circondata da parecchi signori venerabili, o da qualche individuo giovane d'anni, ma canuto di senno e di malizia. E tutte formavano una massa bene aggruppata, misurata nello stare, garbata nel muoversi. Una mente assuefatta a stimare il valore spirituale, piú che il corporeo negli uomini, al primo colpo d'occhio, mirando quella nobile comitiva, avrebbe detto fra sé: «È tutta roba scelta». Esaminando poi gli articoli distintamente, avrebbe in fronte a ciascuno letto un catalogo di meriti insigni. La tale, per esempio aveva tolte dal baratro della perdizione, dove erano cascate, non so quante ragazze, ed assegnando a ciascuna di loro una dote su per giù di una sessantina di lire, le aveva appioppate con legittimo matrimonio a questo o a quel povero diavolo, che dopo un mese l'avevano lasciate per disperati. La tal altra, a proprie spese, aveva regalato un campanone ad un convento annettendovi l'obbligo di sonare tante ore ogni giorno in guisa che tutto il vicinato mandava peste e saette alla campana, al campanaio, al campanile, ai frati ed alla benefattrice. Quella figura lí lunga e magra, cogli occhi infossati e contornati d'una tinta media tra il giallo e il verde, con un naso magistrale che le proietta in forma di proboscide, col labbro superiore irto di peli, è una vedova ricca sfondata, che a marcio dispetto di Leopoldo I rigeneratore — come lo chiama la pubblica gratitudine — della Toscana; a marcio dispetto dell'opinione unanime d'un milione e mezzo d'abitante, mossa a compassione de' traviamenti del secolo, aveva ordito intrighi incredibili per far venire quaggiù certe pie sorelle onde ministrassero alle giovanette tenerine la morale pura, non a dosi omeopatiche, ma ad once e libbre con abbondanza allopatica. Questa tale poi era altamente benemerita della gran società, negli annali della quale il suo nome occuperà una delle pagine piú splendide, decorata d'apposita vignetta. Sedeva a manritta della padrona di casa, sepolta con confidenza in un immenso seggiolone, slanciando le gambe cui faceva sostegno un ricco sgabello. Stavasi in continuo colloquio con la marchesa Eleonora, la quale quella sera, come convalescente, non girellava fra i suoi illustri ospiti, ma rimaneva assisa, sempre sopra pensiero per non tradirsi e non isbagliare d'una sola nota la parte finta che le toccava di recitare. Ella con un viso pieno, colorito, lucente sí che pareva una pollastrona ingrassata apposta col riso, quella sera doveva essere indebolita, le doveva girare un po' il capo, doveva avere la vista un pocolino appannata, la voce alquanto languida, la lingua piú blesa del solito, e tante altre cosucce simili, indicanti lo stato di convalescenza d'una gran signora.
Queste ed altre due o tre del medesimo calibro e della medesima età — pezzi formidabili da sessanta — componevano lo stato maggiore femmineo, cui facevano da aiutanti di campo un'altra mezza dozzina di spose ch'erano piú giovani; e quindi piú atte a dimenarsi; e se quelle lavoravano col consiglio, queste servivano la società con l'azione ed in ispecie nel grande esercito militante della grande associazione erano come quel soldati romani che andando al conquisto delle Gallie, usavano certe reti — e perciò erano detti reziarii — per chiappare i Galli, gli eredi de' quali oggidí, alla lor volta, con le loro ciurmerie chiappano e tradiscono i loro antichi padroni.
Due di queste aiutanti di campo eransi messe attorno alla povera Amalia, e la marchesa le aveva pregate perché presso alla vittima facessero l'ufficio de' chirurghi di reggimento, i quali stanno al fianco di qualche povero soldato che deve subire la condanna del bastone, e di quando in quando tastano il polso per vedere se il knut debba continuarsi o cessare.
Una di esse era viscontessa francese, legittimista senza macchia, la perla de' saloni del Borgo San Germano, la quale nelle famose giornate di luglio nel milleottocentotrenta, ebbe a scappare da Parigi; e riparata in Firenze, diceva corna contro il nuovo re de' Francesi, ch'ella chiamava sempre con insultante dispregio Monsieur Philippe, ed aveva giurato di farlo saltare dal trono come un tappo d'una bottiglia di Sciampagna — lo diceva ella, ve'. — Costei s'era messa accanto all'Amalia e voleva avvolgerla come un serpente boa fra le sue spire micidiali.
La povera Amalia pareva una cosa istupidita: i suoi sguardi erano languidi e senza vita, la freschezza maravigliosa della sua pelle era scomparsa dalle leggiadre sue forme, i movimenti del suo corpo parevano di persona lassa o malaticcia, quel suo nobile aspetto, sul quale l'altezza e la grazia armonizzavano a maravigliare gli occhi ed ammaliare i cuori altrui, era come un cristallo appannato: l'Amalia sembrava moralmente spenta. Era coperta d'una veste bianca; sul capo, agli orecchi, sopra il seno le splendevano gioie, che oltre allo inestimabile pregio che avevano, erano una curiosità storica, poiché si diceva che un tempo fossero appartenute alla Madonna di Loreto. E se taluno sentisse desiderio di sapere in che modo le offerte fatte da' fedeli alla madre di Dio, fossero cascate nelle mani di Beppe Arpia, lasciamo lí per un poco il nobile drappello nuziale, e tiriamoci in fondo d'un angolo della sala, ed io narrerò brevemente questo tratto di storia italiana: chi mi vorrà ascoltare, si avvicini senza paura, ch'io parlerò piano, onde i soffioni non intendano, e in cinque minuti mi sbrigo.
Un vecchio ufficiale che vive tuttora decrepito, monco di un braccio e senza pensione, e che a quel tempi era aiutante di campo del generale Buonaparte, raccontava, onde porger lume sopra una notizia che davano i giornali dell'inverno passato, ed in ispecie una lettera scritta da Roma dal Povero Eremita della corte papale, conforme lo scrittore si firmava, lettera che taluni dissero apocrifa, altri genuina13 — raccontava come il prefato Buonaparte, sconfitte nel 1797, presso Faenza le truppe pontificie comandate da Colli generale austriaco, irrompesse trionfante sopra Roma. Pio VI, impaurito davvero, gli mandò incontro il cardinale Busca non per iscomunicarlo, ma per negoziare una pace, una sottomissione, un accordo, un patto qualunque purché i francesi non profanassero la Sedia di San Pietro. Il reverendo prelato trovò il generale della repubblica francese in Tolentino, dove seguí quel trattato che dal nome della città rimase famoso fra gli atti della moderna diplomazia. L'Europa sa quali furono i patti imposti da Buonaparte per fermare il movimento del suo esercito: non è quindi mestieri il ridirli. E poiché tutti i generali hanno sempre cura d'alimentare con le borse de' popoli la cassa militare, siano amici o nemici i paesi dove passano, Buonaparte chiese al venerabile cardinale six millions. Il Cardinale — o che inorridisse davvero, o che fingesse, e volesse fare come si usa in Italia in tutte le botteghe, dove se il mercante vi chiede dieci, bisogna rispondere sei, di guisa che il venditore abbassando e il compratore alzando, il prezzo si riduca a otto — implorò una diminuzione di un milione; ed al soldato che diceva — C'est impossible — rispondeva: — E dove vuole ella, che la santa Sede trovi sei milioni di scudi? — Uno scroscio di risa stava per iscoppiare a guisa di bomba dalla bocca di Buonaparte quando si fu accorto del granchio a secco che aveva preso il cardinale, dacché il soldato intendeva sei milioni di franchi, e l'eminentissimo aveva capito sei milioni di scudi, e quindi reputavasi fortunato di poterli avere scemati di un milione. Ma siccome Buonaparte era tristo fin dall'uovo, e mal si potrebbe dire se fosse piú astuto diplomatico, o piú valoroso capitano, represse con grande sforzo quel riso; guardò in viso il prelato; e dicendo fra sé: «Un prete che si lasci abbindolare a questo modo, e in fatto di quattrini! Pare impossibile» e crollando il capo, e sforzandosi di dare certa mite severità ai suoi sembianti, come persona che s'induca per soprabbondanza di spiriti benigni a fare un sacrificio, disse — Hé bien; le drapeau de la république c'est la générosité. J'espère que mon gouvernement approuvera ce que je fais: j'accepte cinq millions d'écus.
Il prelato dopo di avergli parlato col labbro melliflue parole, mentre col cuore lo malediceva mandandolo al gran diavolo, tornò gongolante di gioia a Roma come colui che aveva concluso un affarone. Dovendosi pagare lí per lí dopo pochi giorni, come si fa egli a trovare quattrini? In tempi di politici commovimenti le casse dello stato sempre si trovano vuote, e siccome c'è il pericolo che il cassiere sloggi dall'uffizio, per eccesso di gentilezza è suo pensiero ai spazzarle e consegnarle pulite al suo successore. Allora ricorsero al tesoro della Santa Casa di Loreto; e perché la pecoraggine del governo andasse di pari passo con la pecoraggine del Busca, presero le migliori gioie, e fattine tanti fagotti, senza computare — per esempio ne' brillanti — la diversità della dimensione che forma una enorme differenza, le pesarono tutte insieme, e deputarono un banchiere perché le permutasse in danari contanti e mettesse assieme sei milioni. Naturalmente il banchiere che sul cranio aveva pronunziatissimo l'organo della professione, come ne fece poscia testimonio la immensa fortuna che lasciò ai suoi figli, rese al governo il conto del ricavato di tanti carati di gioie; ed operò da savio uomo serbando le piú preziose per sé o vendendole a conto proprio. Fra i compratori ci fu Beppe Arpia; ed in tal modo le gioie della Santissima Vergine di Loreto erano diventate finimento nuziale, regalato da Babbiolino alla sua nobile sposa.
Babbiolino si stava accanto alla sposa ritto, impalato con le braccia pendenti come un burattino del Nocchi.14 Era press'a poco vestito degli abiti medesimi che aveva addosso allorquando fu primamente messo in mostra in casa Pomposi. Se non che anch'egli, in grazia della solennità, era sovraccarico d'oro e di gioie, le quali alla sua figura davano un valore che suppliva alla cruda avarizia con che era stato trattato dalla madre natura. Povero cosino! Fra un ligustro d'innocenza, e le vecchie dame che non potevano saziarsi di rimirarlo, si rivolgevano alla marchesa, e stringendole la mano le susurravano: — Felice voi, mia buona amica! Che fortuna che ha avuta, la vostra figliuola! — E qualcuna di loro, che si degnava d'appressarsi alla moglie dello strozzino, la quale pareva una ricca fattoressa in un dí di processione, le diceva con nobile contegno — Che tesoro di sposa che ha trovato il suo figlio!
Tutte le signore circuivano l'Amalia per vagheggiare il suo ricco finimento. Alle molte dimande che le venivano fatte ella rispondeva parole quasi vuote di senso, senza grazia e senza colore come le fossero state imbeccate. Alle congratulazioni con cui la importunavano, sforzavasi di rispondere con un riso asciutto che le dardeggiava come baleno sulle labbra, e ratto spariva rendendo piú evidente la tristezza, come appunto fa il baleno che guizza e rende piú visibili e fitte le tenebre.
Di fronte al trono della marchesa stavasi il notaio innanzi un gran tavolino, coperto di un ricco panno cremisi: gli facevano ala di qua e di là tanti rispettabili gentiluomini neri come corvi, e incravattati di bianco. Il notaio aveva la scritta spiegata sul tavolo; cogli occhiali cavalcioni sul naso riesaminava il contratto, e spesso piegava la persona verso lo strozzino quasi a chiedergli schiarimenti. Del quale strozzino, dopo d'avere dette tante cose, rammentandomi di non aver fatto il ritratto, colgo questa solenne occasione per esporlo agli occhi di coloro che hanno avuta la pazienza o la cortesia di aspettare fin qui senza muovere lamento di tanta omissione.
Beppe Arpia era un uomo di giusta statura, rosso o rossiccio di pelo, accesa la faccia, ruvida la pelle; e quasi trasudasse sangue da' pori, puzzava come un cane. Era grassoccio, il naso un po' adunco, folto il labbro superiore di un paio di baffi rossastri, gli occhi traditori; la voce somigliava al suono che renderebbe una canna fessa. Aveva un modo di camminare tutto suo, ed al ferraiuolo che gli copriva le spalle, al corpo piegato da un lato come zoppicasse, alla mazza che ci si strascicava indietro, volgendo lo sguardo ora a diritta ora a sinistra sempre fitto in basso, come uomo che abbia paura o che la terra gli si spalanchi sotto i piedi, o che da ogni uscio scappi fuori qualcuno per assassinarlo; allo atteggiamento, infine, che gli dava la coscienza delle sue ruberie, sospettoso e ognora tremante come quello di Caino primissimo stipite di lui e de' suoi colleghi, la gente lo riconosceva a mezzo miglio di distanza. Tutto il tesoro della sua birbonaggine interna traspariva chiaro e lampante come se il suo corpo fosse di sostanza diafana.
La sera della scritta anch'egli era vestito in gran gala; ma come se que' panni nuovi, quel panciotto strinto, quel cravattone alto e teso gli dassero noia, pareva impacciato a guisa d'un micco cui per la prima volta si metta addosso una gualdrappa. Ma tanta era la gioia che gli briacava il cuore, che quella sera pareva arzillo e gaio come il Don Florindo della commedia: il tripudio che gli animava la faccia vinceva il ribrezzo che spirava dalla sua presenza, e piú d'uno che altrove l'avrebbe sfuggito come si fugge dalla vista d'un orso, o d'un coccodrillo, gli si accostava masticandogli qualche parola di complimento.
Dopo ch'egli ed Ignazio ebbero finite la discussioni col notaio, dopo che tutti e tre dissero: — Sta bene — Beppe Arpia si appressò con un goffo inchino alla marchesa chiedendole se fosse in comodo e se le piacesse di ascoltare la lettura della scritta.
Il notaio con tutta solennità legge fra le orecchie spalancate e gl'inarcamenti di ciglia che facevano gli astanti nello ascoltare quel prezioso documento, dove si parlava di somme affatto inusitate ai giorni nostri nei contratti matrimoniali. Lo strozzino, per dir tutto in poche parole, si spogliava d'ogni suo avere a favore del figlio, e faceva alla sposa un pingue assegnamento convenevole ad una principessa reale.
Finita la lettura, Babbiolino fu dall'amoroso genitore condotto innanzi al notaio; e, grazie ad una lezione ripetuta per parecchi giorni, gli riescí di apporre la firma al documento. Le due dame guidatrici della sposa, le dissero ad una voce: — Andiamo; coraggio!
L'Amalia, sorretta da quelle per ambe le braccia, si lasciò trascinare, e condotta innanzi al tavolino, mentre il notaio le porgeva la penna, si volse ad una delle signore dicendo: — Cosa devo fare?
— Scrivere il vostro nome, scriverlo qui dopo quello dello sposo.
La giovinetta non poteva profferire un accento; le sue fauci erano aride. Postale la penna in mano, non la poté stringere, quasi le sue dita fossero intirizzite dal freddo; e la lasciò cadere. Le dame si avvidero dell'agitazione che le turbava l'animo, ed insistevano una in toscano, l'altra in francese: — Coraggio, coraggio, Amalia mia! Non è nulla, cara; un momento solo di sforzo; scrivete, scrivete. — Signez, signez, mademoiselle, mon Dieu! Ne craignez pas, ma chère, un peu de présence d'esprit, mon enfant.
La misera le guardava intenta; e gli occhi suoi ne' quali come goccia di rugiada, scintillava una lacrima, parevano dire: «O voi, se provaste mai dolori al mondo, guardatemi nell'anima e vedete se ci fu mai tormento pari al mio!».
E poiché rimaneva tuttavia immobile e tacita, le due volpi la scuotevano; ed una di loro riponendole la penna in mano, le sussurrava ad un orecchio: — Tutti guardano voi, per carità! Non indugiate un momento, scrivete. — E l'altra all'altro orecchio — Mais il pourrait bien en naître un scandale; mademoiselle!
La infelice scrisse: Amalia Pomposi. E la sua mano tremante segnò caratteri tali che in una causa di divorzio si sarebbero potuti allegare come la prova piú convincente a contestare che il consenso le era stato strappato con tutto l'uso del libero arbitrio come la tortura ne' felicissimi tempi de' nostri bisnonni strappava spontaneamente la confessione d'una colpa immaginaria dalle labbra degl'innocenti martoriati; o per recare un esempio celeberrimo, come indusse Galileo a pronunziare: — La terra non gira. —— La quale terra, come vedete, a dispetto di chi vorrebbe tenerla ferma e pulita come un oggetto fisico sotto una campana di cristallo perché l'aria non la maculi, ha girato, e gira, o girerà fino a quando piacerà al supremo motore.
Appena la mano dell'Amalia ebbe scritto, le forze le vennero meno, e sentendo fuggirsi il sentimento, abbandonò il capo su la spalla d'una delle assistenti, la quale essendo apparecchiata a siffatto evento, secondata dalla compagna, la trasse, quasi senza essere osservata o almeno senza chiasso, nella stanza vicina.
La marchesa non davasi il minimo pensiero sapendo a quali mani maestre era affidata la figlia; come vide i nomi degli sposi segnati sul foglio, gettò un sospiro di contento quasi si fosse sgravata da un gran peso che le schiacciava il cuore. La violenta commozione dell'Amalia fu giudicata per quell'ineffabile sentimento che prova una fanciulla ben nata e bene educata la quale intenda davvero il terribile passo che fa nella vita. La marchesa quindi da tutti gli astanti ricevé le piú fervide congratulazioni per avere saputo serbare candida ed innocente la figlia fra la corruzione de' tempi. Le dame, tutrici della vittima, tornarono in sala annunziando che la leggiera commozione sarebbe presto svanita: e mentivano.
Intanto da un grand'uscio che improvvisamente si spalanca sbuca uno sciame di servitori, portanti immensi vassoi pieni di paste, di chicche, di dolci d'ogni genere, di liquori squisiti e di sorbetti di tutti i colori e di tutte le denominazioni. Ad ognuno della nobile comitiva fu data, come usa in simili solennità per tutta l'Italia, una libbra di confetti posti dentro un cartoccio di carta porcellana bizzarramente frastagliata, che aveva da un lato stampata l'arme vecchia de' Pomposi, e dall'altro l'arme nuova e freschissima dell'Arpia.
Dopo breve ora, col pretesto che la marchesa era convalescente e quel tafferuglio di feste le poteva recar nocumento, la ragunanza si sciolse fra le ripetute congratulazioni ai parenti degli sposi.
Amalia rimaneva sempre come istupidita sul luogo dove l'avevano adagiata; forse fino a quello istante la speranza le aveva ravvivata l'anima di qualche debole raggio; ma appena ella scrisse la firma fatale, quel raggio si estinse, e la meschina si sentí come precipitare dentro a un abisso di tenebre, e sperava ed invocava la morte.
Lo strozzino salito in carrozza con la moglie, si strinse al seno il sor cavaliere dello Spron d'Oro, il fortunato sposo della nobile marchesina; povero babbo! Non si ritrovava piú ne' suoi panni. Fu quella forse la prima volta che gli seguisse di violare l'articolo decimo dello statuto della sua professione, quello, cioè, che prescrive di non lasciarsi mai riscaldare la testa dalla prospera o dall'avversa ventura; quella sera egli l'aveva come una fornace accesa: sera fatale in cui la fortuna che lo aveva fatto salire tant'alto, per un accesso subitaneo di capriccio, stava raccogliendo tutte le forze onde avventargli un calcio e trabalzarlo, con tutti i suoi milioni e il suo albero genealogico, in fondo al nulla primiero. Ombre implacate delle vittime di Beppe Arpia, consolatevi, la cieca guidatrice delle cose umane sta per vendicarvi.