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Fuori Porta al Prato, voltando a mancina si trovano parecchi viali ombreggiati di alberi, alti e frondosi, che prolungandosi considerevolmente lungo l'Arno, menano ad un luogo, detto le Cascine.
Cosí si chiama in Firenze il pubblico passeggio, amenissimo oltre ogni credere. Se l'occhio si volge dalla riva superiore del fiume scuopre monti e colline tutte popolate da migliaia di ville, che biancheggiano in mezzo ai giardini e staccano dalla tinta pallida degli alti monti che partono la Toscana. Dalla riva opposta sorge Bellosguardo, e piú verso oriente Poggio Imperiale e San Miniato al Monte, dove gli edifici e i gruppi degli alberi sono disposti con tanto bello artificio, che ritratti fedelmente in pittura, parrebbero vaga e felice invenzione di Gaspare Pussino. Fra queste alture giace la fertile valle, in mezzo alla quale scorre l'Arno, che in estate è povero d'acque; e come un vecchio malato di tisi si raccoglie in un angolo di un ampio letto coniugale, cosí il fiume si rannicchia in un lato, e lasciando scoperta ed asciutta la ghiaia del vasto suo alveo, se ne va con passi di tartaruga stentato e silente a gettarsi in seno al mare Tirreno. Ciò avviene ne' mesi d'estate, poiché in certi giorni di verno, a guisa di un signore, che venga pagato in una volta da' numerosi suoi creditori e spende e spande rifacendosi della parsimonia d'un anno, l'Arno accogliendo nel suo recipiente gl'innumerevoli tributi de' fiumicelli e de' rigagnoli, si gonfia e urta e rimbomba, e procedendo a modo d'ebbro, straripa ora di qua ora di là guastando e rapendo ciò che gli si para dinanzi.
In mezzo a cotesta lunga massa di alberi traversati da cento viali, dove i fagiani e le lepri ed altri animali ammessi alle mense de' gran signori, si stanno — cioè si stavano innanzi il quarantotto, poiché da quell'epoca in poi furono trasportati a colonizzare i boschi di San Rossore — si stavano con confidenza in compagnia del mansueto popolo fiorentino, il quale massime nei dí festivi, vi accorre in folla a tripudiare con la grazia e garbatezza che un tempo predistingueva il popolo d'Atene, o forse nessun popolo al mondo; in mezzo, io diceva, a questa lunga massa di alberi giace un gran piano, povero d'edifizi, privo di statue e d'altri ornamenti d'arte, ma, non ostante, bello sempre per la sua posizione. Le carrozze che vi accorrono numerose dalla città, giunte alla piazza delle Cascine, torcono a mancina, traversano un'altra piazzetta contigua al fiume, ritorcono a diritta e vanno a riescire nella medesima piazza, prendendo posto, rivolte verso levante, in mezzo alla folla ivi raccolta. Quel luogo cosí brulicante di uomini e di cavalli diventa una sala da ballo. Una turba di zerbini elegantemente vestiti, non pochi vecchi rifritti ed impiastrati vanno girando per gli spazi vuoti fra le bestie e i servitori; e chi si accosta alla carrozza per salutare la dama; chi non avendo dimestichezza con nessuna, ammicca ora da questo ora da quel lato con certi occhi pietosi, quasi dicesse: «Chi mi fa la carità, chi mi sorride?». Colà un amante, come il colpevole innanzi ad un presidente di tribunale, riceve da una fiera sposina rimproveri atroci; in quell'altra parte un fortunato mortale ascolta le istruzioni dalla sua protettrice per vedersi la sera. E soprattutti spicca, come un acuto ottavino in una orchestra ben concertata, qualche vedovella fra i venticinque e i trent'anni fresca, fiera, franca, stesa in angolo d'una vasta carrozza, col braccio appoggiato sull'orlo, col capo declinato, come donna assorta in pensieri di grave momento. Di certo essa non pensa al marito, che le ha usata la cortesia di liberarla cosí presto da un giogo sotto cui i parenti adattarono lei innocentina che si lasciava adattare senza sapere cosa facesse; al già adorato marito che ha avuta la garbatezza — o l'accortezza per non farsi maledire la memoria — di lasciarla ricca; ma rumina grandi idee nella testa; forse divide in capitoli un romanzo già ideato, forse sceneggia il disegno d'una commedia, o forse — e questo mi pare piú probabile — nel suo cuore la bella libertà vedovile si accapiglia col timido, e pure irresistibile, desio di farsi amare senza scandalo.
In somma osservando uno per uno quegli innumerevoli gruppi, lo scrittore caratterista avrebbe abbondante materia per molti volumi di osservazioni sul cuore e sul corpo umano.
Mentre un giorno la folla in carrozza ed a piedi faceva ciò che fa sempre, il sordo cicaleccio — in Napoli dove invece di parlare, si urla maledettamente per le strade, sarebbe frastuono — è repentinamente interrotto da un silenzio universale. Ottomila occhi — supponendo che in un giorno di festa la piazza delle Cascine contenga quattromila persone e che ogni persona abbia due occhi — si slanciano tutti sur un punto. Dal maggior viale era comparso un magnifico tir'a quattro con cocchiere dinanzi e staffiere di dietro in livrea gallonata. Tutti studiavansi di sapere chi fosse questo ricco forestiere; ma quando la carrozza, compito celeremente il giro consueto, andò a prender posto in mezzo alle altre e fermossi, gli animi di tutti furono invasi di maraviglia vedendo Beppe Arpia, insieme con la moglie e col figlio, in quello splendido equipaggio.
Beppe Arpia, il quale in un giorno da una carrettella tirata da un solo cavallo magro, arrembato, spelacchiato che pareva emulo del famoso Ronzinante di Don Chisciotte, era saltato a un tir'a quattro degno d'un principe, produsse una impressione straordinaria di sbalordimento; il che non sarebbe seguito se quel passaggio fosse stato fatto a poco alla volta, poiché nelle Cascine si vedono tanti col cacciatore di dietro, i quali pochi anni innanzi erano, puta, mercantucci falliti di nastri. Quattro quinti de' nobili personaggi, che in quel giorno trovavansi al pubblico passeggio, erano vittime dello strozzino; e quindi a vedere in quello apparato il loro carnefice, lo ravvisarono come lordo del sangue loro, e le ferite di ciascuno che erano richiuse, in un subito squarciaronsi e incrudelirono. Al silenzio successe un bisbiglio minaccioso, che esplose in uno scherno generale. Una mano di giovani, che trottavano a cavallo per i prati vicini, accorsero alla piazza; si fecero intorno alla carrozza di Beppe; e mentre il cocchiere, comandato dal padrone, pigliava la via di Firenze, urtò violentemente in uno di quelli, il quale tirandogli col frustino colse nella guancia l'usuraio, che cominciò a urlare, a bestemmiare, a minacciare. Tutti gli astanti levarono un grido di gioia plaudendo al cavaliere, che col volto infiammato di collera voleva rintostare; e il cocchiere dello strozzino sferzando i vigorosi cavalli inglesi, gl'irritò in guisa che pareva gli avessero rubata la mano, e fossero per andare precipitosamente ad urtare nel primo oggetto che si facesse loro incontro per la via.
Beppe Arpia giunse a casa fremente di rabbia: fin'allora aveva ricevuti insulti d'ogni ragione, e per non mettere a repentaglio le proprie faccende, con carità evangelica a chi gli aveva impresso uno schiaffo in sulla guancia diritta, gli aveva voltata la sinistra. Ma invaso dalla foia della signoria, in una carrozza che costava un tesoro, tirata da quattro cavalli che a lui parevano quattro milordi inglesi, col figlio cavaliere e sposo della piú bella e piú nobile giovane di Firenze, sentí la puntura dello insulto, e per vendicarsi avrebbe dato fondo alla sua cassa forte, mentre per lo innanzi se taluno gli avesse pagato un soldo per ogni calcio, volentieri avrebbe accettato il negozio.
Arrabbiato come un idrofobo, mandò per il suo fido Ignazio, il quale, tacciandolo d'imprudenza per essersi mostrato a quel modo alle Cascine, lo esortò a stare tranquillo, dandogli parola d'onore che tra pochi giorni lo avrebbe vendicato pienamente del temerario che lo aveva vituperato, e de' suoi prodi compagni.
Il giovane, che aveva avventato il frustino a Beppe Arpia, era Roberto Cavalcanti.