Paolo Emiliani-Giudici
Beppe Arpia

XI

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XI

 

La sera che seguí al memorabile giorno, in cui Beppe Arpia era stato pubblicamente frustato e schernito alle Cascine, a casa di Roberto accorrevano parecchi suoi antichi amici. Era stato da alcuni anni suo costume dare loro una cena alla buona, in occasione dell'anniversario della sua nascita, e quel giorno appunto lo anniversario ricorreva. Finita la cena, la quale, comecché avesse il nome di paesana, era stata lauta e squisitissima, l'allegra brigata erasi ridotta in un salotto che aveva una lunga terrazza sull'Arno. L'aria era dolce, il cielo sereno, la campagna, che faceva prospetto, illuminata d'una luna lucidissima. Era una serata, come suol dirsi, di paradiso.

Sopra una rotonda tavola di marmo, che sorgeva in mezzo alla stanza, v'erano tazze da caffè, bocce di liquori in gran profusione ed una scatola piena di stupendi sigari d'Avana. Divani, seggiole, seggioloni, ogni cosa in un certo disordine, secondo convenivasi alla vivace comitiva. I giovani bevevano, fumavano, ciarlavano; la stanza, tutta vaporosa del fumo che usciva dalle loro bocche, era un piccolo pandemonio. Il gran tema della conversazione naturalmente era l'avvenimento delle Cascine; e tutti, congratulandosi con Roberto, gl'invidiavano la fortuna che lo aveva scelto a ministro della pubblica vendetta; e taluno gli disse: — Felice te! Oramai devi esserti pienamente rifatto delle strozzature che quel cane — questo era uno de' nomi piú decenti che davano a Beppe — ti ha fatto per tanti anni patire.

Roberto sforzandosi di ridere, crollava il capo, poiché pensando agli effetti di quelle tali strozzature, il preteso compenso gli pareva inadequato.

Domattina avrai un cartello di sfidadisse un altro libando un calice spumante di liquore.

Alle parole di costui successe uno scroscio generale di risa, mentre taluno esclamava: — Un duello coll'Arpia! Ma sapete che sarebbe un avvenimento originalissimo, da fare gran chiasso in Europa e da essere trombettato da tutti i giornali. Un duello cosí grottesco! Oh! Come sarebbe bella; Roberto!

— In quanto a me — rispose il Cavalcanti — io non usurperò giammai le altrui prerogative; Beppe Arpia è d'attribuzione del boia, e cavandoglielo di mano, io commetterei un furto, né piú né meno. Se mi manda un cartello di sfida, non accetto, e lo ricambio con una litania di contumelie.

— E le prenderà in santa pace, non dubitare. Una volta un bolognese che non conosceva né anche la millesima parte de' meriti di Beppe, tenendosi offeso non so di che cosa, gli scrisse una lettera dove c'erano parole che a rammentarle è uno spavento; lo chiama ladro, spia, assassino, irco, lenone, falsario e mille altre simili qualificazioni, ciascuna delle quali avrebbe potuto fornire un motivo legittimo ad una querela criminale. O sapete cosa fece il tristo? Colui che gli consegnò la lettera nelle mani, raccontava che l'Arpia, lettala accuratamente, non si mosse, non mutò di colore, e se la ripose in portafoglio come se fosse un attestato di buona condotta.

 

— Ma sentite; prima di tutto parrebbe...

— L'ha ragione, signora; ho mancato, e me ne accorgo: ma che vuol ella? Ho tante cose per il capo! Io l'ho condotta in casa del conte Cavalcanti, la sto facendo assistere ad una conversazione di giovani, che sono, come ella li chiamerebbe, i lions della città, e non le ho detto i loro nomi. La mi perdoni, tanto piú che siamo in principio e posso di leggieri riparare al mio fallo: io glie li presenterò distintamente uno dopo l'altro tutti questi scapati; lo so che a lei preme di conoscerli; e per satisfare a questo suo secreto ed equo desiderio, mentre potrei cavarmi d'impaccio nominandoli soltanto, farò come un cicerone che l'accompagni a visitare una galleria; che anzi di ciascuno le farò uno schizzettino a penna cosí in due tratti che lo rammentino, e la lo porrà nell'Album de' suoi ricordi. Stia dunque attenta che principio.

Roberto, già la lo conosce.

Quello co' capelli biondi e radi, col naso a forma di patata, gli occhi piccini e un po' strambi, che pare in su i trent'anni, è il primogenito, o a dir meglio il solo figlio superstite del duca Nottoloni. La vegga, è vestito piú diplomaticamente degli altri, non lascia quasi mai — almeno io non l'ho mai visto — il panciotto bianco; va sempre in giubba nera, e porta sempre il nastro all'occhiello, come i brigantisuppongo che se non gli avrà visti vivi, li avrà osservati disegnati ed incisi da Pinelli, eh diamine! Sono il suo capolavoro, ed ella ha tanto gusto nelle Arti — come i briganti portano la stampina di qualche santo miracoloso, fitta sul cappello, perché li scampi dalle palle de' carabinieri: il duchino Nottoloni va in visibilio ogni qualvolta la sentinella gli presenta l'arme, e senza nastro non se ne fa nulla. Non crede punto alla naturale uguaglianza della umana famiglia, sebbene da cristiano cattolico ortodosso ne ammetta l'unità d'origine; suppone che nella massa sociale — l'avverto che fo uso de' vocaboli del duchino, il quale aveva una tintura enciclopedica che lo rendeva la maraviglia della nobilea — gl'individui sono disposti in varie gradazioni come gli strati del globo che in geologia si chiamano terreni di prima, di seconda, di terza formazione: secondo il duchino, il nobilume è la sostanza di prima formazione nel pasticcio sociale. Il suo padre è ricco, è despota della propria famiglia e gretto sì che, chi bada non all'essere ma al parere, lo reputa uno spiantato; ed al figlio una piccola provvisione mensile che non servirebbe nemmeno a uno scolare dell'Università di Pisa. Povero giovane! Si figuri che angosce egli deve patire nel vedersi tenuto a stecchetto; mentre, sentendosi la vocazione di fare il seduttore delle mogli altrui, e volendo fare il bellino spende tesori per il solo vestiario, e se la vedesse ne' libri dello strozzino la cifra de' suoi debiti, le si rizzerebbero i capelli in capo.

La gretteria inesorabile del genitore l'ha costretto a gettarsi nelle mani degli usurai; a Beppe Arpia glie ne ha pappati di molti a babbomorto, ed ora, a quel che sento dire, il duchino s'è ridotto a non aver piú credito; e la disperazione lo spinge a fare ardenti preghiere alla provvidenza perché piú non indugi a chiamare il babbo in paradiso e metterlo a sedere nel suo posto di gloria. Un giovine napolitano, con cui il duchino un spassionavasi, per tutto conforto gli ripeté un proverbio che dice: «Padre eterno, figlio crocifisso». E il povero duchino comunque senta ferventissimo affetto per il vecchio babbo, lo vedrebbe volentieri andarsene agli eterni riposi. Difatti il vecchio un fu preso da una fortissima infreddatura; il duchino la giudicò un mal di petto, che non poteva non esser fatale, e credé che la sciagura sarebbe imminente, ma per non lasciarsi vincere dall'acuto dolore, e confortato dalla massima degli stoici: de re inreparabili ne doleas, correva come forsennato per le stanze, ordinò al maestro di casa che facesse il conto delle spese del funerale che doveva essere solennissimo e degno dello splendore della famiglia, ordinò al legnaiuolo perfino la cassa funebre. Ma dopo due giorni il duca s'alza dal letto con una cera rigogliosa di salute che pareva un arnese vecchio su cui avessero stesa una mano di fortissima vernice; i disegni del malarrivato duchino si sciolsero in fumo, e mentre credeva di uscire dalla tutela degli strozzini, tornò a corteggiare il buon Sandro.

Nondimeno a forza di cabale e di imbrogli fa la sua figura in società, non perde mai il contegno. Difatti la veda come si sta in mezzo all'allegra comitiva; seduto dignitosamente con una gamba cavalcioni all'altra, stende la mano sul tavolino stringendo con due dita un calice, ed ogni tanto lo appressa al labbro per sorbirne un sorsettino; e con l'altra mano caccia via il fumo dal viso, poiché egli non fuma ma tollera con cortesia le boccate che qualche importuno glie ne manda sul muso: è uomo che sta bene con tutti; ora si accomoda cogli svagati, e fa il capo ameno, se poi si trovasse in una congrega di santocchi, torrebbe in mano il breviario e raglierebbe il salmo.

Quell'altro disteso sopra il sofà che pare un bufalo, corpacciuto, rotondo, col viso a sembianza di zucca, è Cecco Ghiottoni; la sua famiglia era nobilissima fino da' tempi della contessa Matilde; l'organo che nel suo corpo maggiormente prevale, e che lo domina imperiosamente, è l'esofago; e forse perciò nell'arme di casa sua c'è per impresa una pancia. Per lui un sontuoso banchetto è un poema epico: la natura lo creò apposta per dimenar le ganasce; difatti osservi la capacità del suo ventre: in quel vasto spazio è insaccata la terza parte delle vivande di cui abbondava la cena, data da Roberto agli amici. In tutti i pranzi della città egli è la figura indispensabile; i servitori vedendolo apparire, tremano da capo a piede, poiché — massime quando tira tramontano — v'è pericolo che i piatti tornino asciutti e puliti in cucina: è un buon omaccio, e tiene divertiti i commensali; altro non fa che ridere e mangiare.

Quel giovine snello, svelto, pallido, coi capelli bruni e crespi, elegante negli abiti, vispo negli atti, è Gigi Scapati, unico figlio di un ricco banchiere. Ha il cuore piú vasto della cupola del duomo; è prodigo, fa debiti, ma paga sempre; anch'egli è uno de' piú forti contribuenti alla finanza dello strozzino, e versa nella cassa di lui il sessanta o l'ottanta per cento di quel che riceve. Una sera trovandosi innanzi a un tavolino da giuoco, rimase lungo tempo a guardare, con l'attenzione con cui un veterano dall'alto d'un colle mirerebbe lo spettacolo d'una battaglia che si combatta nella pianura. Da quindici giorni aveva giurato di non giocare mai piú, salvo il solo caso in cui la fortuna con segni evidenti gli avesse mostrato che voleva proteggerlo: ma uno sbaglio madornale fatto da uno de' giuocatori, suscitò la sua vanità di esperto armeggiatore di carte, e dicendo fra sé: «Ecco qui come si giuoca» tira di tasca l'unico napoleone d'oro che aveva, gli si arroventa il cervello, e si pone a giuocare da disperato, e precipitevolissimevolmente perde sulla parola cinque mila lire. Fra ventiquattr'ore doveva e voleva pagare; e dandosi moto per trovare quattrini, Sandro Imbroglia che lo aveva sotto tutela, gli sussurrò all'orecchio di comprare cinque cavalli per poi rivenderli e mettere assieme la somma. L'inconsiderato giovane firmò dieci mila lire di cambiali. I cavalli, senza uscire dalla stalla, furono ricomprati da Beppe Arpia per cinque mila franchi; e Gigino tronfiando e sbuffando di vanità, corse a versare le cinque mila lire nelle mani del suo vincitore con ilare non curanza, quasi volesse dire: «Senti una presa del mio tabacco». La lo vede, pare gracile e leggiero, ciarla anche un po' troppo; ma quando dice davvero, mostra senno, coraggio, e fermezza tali, che parecchi insolenti lo sanno e non ci ridono.

E quel signorotto non è bellino, non è caro, non le sembra uno di que' cosini di porcellana da tenersi per ornamento di un boudoir da signora sotto una campana di cristallo? Culto ed ornato di elegantissimi studi, scrive teneri versi, e parla col quinci e quindi; e col frasario studiato e co' modi squisiti assalta ostinatissimo le piú avvenenti signore. Per correggere quella leggiadria da Ganimede, che potrebbe far cascare il sesso gentile in qualche sbaglio e mettere in forse il suo credito d'uomo, ei porta sul musino due gran baffi castagni attorcigliati, che congiungendosi colle due gran selve di peli che gli scendono lunghi e folti giú dalle tempie, gli danno una certa aria mascolina: non le sembra un eroe ritratto al daguerrotipo? È il marchese Spillo; la lo provi, e vedrà che egli ha la virtú d'una mignatta d'amore.

Colui che si appoggia con le spalle all'orlo del verone, e che dalla bocca manda all'aria globi di fumo come fosse un tubo di macchina a vapore, è il figlio secondogenito del conte Spaccatesta. Se la dice poco con la propria famiglia, e in ispecie dopo d'avere perduta la madre che lo amava tanto. Il padre e il fratello maggiorenato, stampato ad immagine e similitudine del babbo — sono per lui come l'avvoltoio di Prometeo; vorrebbero ritirarlo da una via che loro non garba: essi aristocratici fino alle midolle dell'ossa, invocano il ritorno de' bei tempi in cui i baroni, superiori al diritto ed alla canaglia, vivevano despoti ne' loro castelli merlati; egli con la testa piena di fumi democratici, parla di libertà, di patria, d'Italia, ed aspetta con una fede che vince in fervore quella degli antichi patriarchi, il glorioso della redenzione; difatti affrontando i fulmini aristocratici della famiglia, è stato nelle Romagne insieme con Roberto Cavalcanti. Favella poco, ha lo sguardo altero e severo, e quando lo avventa alle birbe, loro la febbre quartana; ma nel seno ha un cuore aperto alla compassione per gl'infelici. Il ceto de' nobili se non lo abborre, lo apprezza poco; le donne, nel cuore delle quali l'affetto non ha anche fatto posto all'intrigo, non si saziano d'ammirare quel pallore espressivo, quell'abbondanza di peli, que' muscoli di ferro, quella voce grave e cupa, e dicono fra sé «Quello è un uomoesclamazione eloquente, la quale esprime lo spregio in cui tengono i profumati ed insipidi micchi de' saloni, piú presto che la lode de' meriti visibili ed invisibili di Guido Spaccatesta.

Quel giovine membruto, ben formato e piacevole allo sguardo è Cincinnato Assoluti; è l'epigrammista della conversazione; quando parla, pare che giuochi di sciabola; il suo frizzo taglia e trafigge, ma essendo egli galantuomo a tutta prova, piace e non offende.

Come il provvido cuoco che serba le pietanze piú squisite per la fine del pranzo, mia bella lettrice, io le presenterò per tornagusto l'ultime due figure, che per essere originalissime, e direi quasi uniche nelle opere della natura, vanno esaminate con tutti i cinque sensi del corpo. La mi presti attenzione, e vedrà s'io esagero.

Lo vede ella quell'uomo che appoggia le spalle al marmo del camino, coi piedi incrociati, dimenando vezzosamente il busto e fumando una spagnoletta? Non le pare un giovinotto di trent'anni, ben formato, robusto, fiorente di salute, vigoroso di forze fisiche — delle morali non parlo, perché in un nobile sono escrescenze, le quali un tempo erano mostruose, ed ora appena principiano a tollerarsi — non le pare qualcosa di simile ad un bell'uomo? Bene! La venga meco che la introdurrò nella stanza della sua toilette; la non abbia paura, ella c'entra come osservatrice, nessuno potrà riprenderla. La veda, si è alzato da letto ora ch'è poco, s'è infilata una veste da camera di stoffa turca, s'è seduto innanzi allo specchio. Quello che gli sta presso è il suo parrucchiere; l'altro piú in dal lato opposto è un cameriere suo prediletto, che non ostante lo rubi peggio d'un fattore, egli conserva ed ama piú della pupilla degli occhi suoi, perocché quand'anche mettesse alla cerca dieci Diogeni, non potrebbe trovare dovecchessia un altro fido ministro che gli potesse con tanto magistero prestare i misteriosi servigi, senza i quali la parte fisica del cavaliere finisce d'esistere. Levatosi il berretto da notte, la testa gli rimane con pochi peli a somiglianza di un colle ignudo, dove qualche arbusto qua e serva ad indicare che un tempo quella superficie era coperta d'un bosco. Il parrucchiere dopo di avere con una morbida spazzola pulito quel teschio che ha la figura d'una pera spina, dopo d'averlo cosparso di polvere, e ripulito con un cencio bianchissimo, vi adatta una magnifica parrucca, nera come ala di corvo, incerottata, oliata, profumata di squisitissime essenze odorifere, in somma il bello ideale di una parrucca incarnato sulla testa dell'illustre cavaliere — mi dimenticavo dirle che il nostro personaggio chiamasi il cavaliere Gentilini, ultimo tralcio d'una famiglia venuta su dugent'anni addietro e fondata da un bottegaio che arricchí col zampone di Modena e con la mortadella di Bologna. — Il nobile cavaliere, la lo vede, ha pochi peli sparsi su per le gote e per il mento; la cosa piú spicciativa sarebbe quella di raderli e mostrare il viso netto, lucido e pulito come un cortigiano del secolo andato, poiché oggi i baffi usano anche in corte. Ma sia perché l'uomo si ostini a conseguire, volere o non volere, quelle cose che la natura o la sorte gli nega, non ci è stato mai verso di persuadere il nostro eroe a tagliarsi quel po' di pelame; e però il parrucchiere ogni mattina con una certa gomma speciale gli appiccica una barba finta, con tal arte che il mento e le gote diventano folti di peli, senza che altri, ignaro del negozio, se ne possa accorgere. Dopo due ore di lavoro il parrucchiere fa un inchino e va via. Il Gentilini s'alza dallo specchio, dopo d'essersi mirato con indicibile compiacenza, si toglie via la veste da camera, ed appare in camicia e mutande — la non abbia paura, signora, la sua modestia non sarà messa a repentaglio; non si va piú in . La guardi, nell'anca diritta ha un gran fosso che l'anca opposta gli protubera sgarbatamente; in sul braccio mancino gli manca tutta la polpa superiore dove il muscolo si distende sulla scapula, le gambe ha come stinchi, sembra il fusto d'un fantoccio simile a quelli che adopera un artista per adattarvi un panno, e studiarne le pieghe. Il cameriere ha allato una cesta di cuscinetti imitanti le forme de' muscoli, e li adatta studiosamente ne' luoghi convenevoli, fasciandoli con istrisce di tela apparecchiate all'uopo. Aspetti un istante, lo lasci coprire degli abiti; eccolo; gli è vero che ha speso quattr'ore di tempo per farsi imbottire e impellicciare, ma gli è riuscito non solo di trasfigurarsi gloriosamente, ma di scemare di venticinque la lista de' suoi anni; che si direbbe ch'egli sia un uomo come gli altri uomini. Cosí acconciato esce al passeggio, dagli occhi avventando strali e saette a tutte le finestre. Non manca mai a tutte le feste da ballo; e le signore, le quali sanno l'imbroglio dell'acconciatura, lo lusingano ironicamente per le belle sue forme, per la sua folta barba, ed egli, elegante babbuino, accoglie quelle lusinghe in conto di tributo reso al merito vero, e gongola e gonfia. Fra i giovani, in mezzo ai quali ora egli sta, si crede il piú bello, è contento di sé, si tiene sempre in sussiego, e a dispetto de' suoi cinquantaquattr'anni, si stropiccia co' galanti, anch'egli scapolo ed aspirante a un matrimonio coi fiocchi.

Accanto a lui, come un quadro di Raffaello allato ad un altro di Tiziano, sta Gennariello Maccheroncino, amico indivisibile del duchino Nottoloni. È barone, uno de' centomila baroni che brulicano sul territorio del reame di Napoli, tanto al di , quanto al di qua del Faro; i quali baroni sotto un medesimo titolo sono prodigiosamente diversi di peso e di misura, poiché alcuni possiedono cinquecento mila ducati d'entrata annua, altri hanno appena venticinque baiocchi al giorno per andare a sfamarsi al Grottone di Palazzo15: questi rispettabili titolati, raccolti in un sol luogo, formerebbero una collezione completa simile a quella, puta, d'uccelli in un gabinetto fisico, la quale comincia dallo struzzo o dall'aquila, e finisce negli uccelli-mosche.

Il barone Gennariello — la lo guardi per bene — è un accozzamento di membra senza simmetria; pare uno scarabocchio fatto da un principiante di disegno. Sopra un gran busto piantato su due gambe corte ed ossute, porta una testa con un gran naso aquilino, due occhi prominenti, una bocca spaziosa e una capellatura a ciocche come gli antichi busti marmorei: s'immagini la grossa testa d'uno de' dodici Cesari, allogata cosí a casaccio sopra un corpo da burattino. Figura originalissima, di cui ridono tutti, fuori che lui, il quale ha il coraggio di guardarsi ogni giorno per lo meno tre volte allo specchio con vera e piena soddisfazione. Certi debiti che gli portavano via il sonno mentre egli aveva gran voglia di dormire, dal frastuono di Napoli lo cacciarono alla quiete di Firenze. L'aria buffa, e la dabbenaggine graziosa del barone, lo hanno reso accetto a tutte le conversazioni. E massime quando egli entra in bestia, offre uno spettacolo unico al mondo, sembra un castello che sputi fuoco da tutte le parti: ma questo diavoleto dura tre minuti; conciossiafossecosaché non avendo mezzi d'assicurarsi il fornaio, dipende dall'altrui cortesia per non ridursi a desinare alla Crocetta16; e però s'abbonisce agevolmente, e ritorna pane e cacio con tutti.

Certo giorno una certa signora bizzarra ed arguta, congratulandosi con lui degl'ingegni peregrini che sempre ha prodotti e produce il regno di Napoli, il barone Maccheroncino le disse: — Ci sono anche le bestie, signora mia, e sono in gran numero, e adesso le spiego il perché tutti i napoletani che ella ha conosciuti, sono stati sempre personaggi distinti. Bisogna ch'ella sappia che il governo, innanzi di rilasciare un passaporto per l'estero, esamina bene se l'individuo che lo chiede potrà fare onore al paese; e quindi tutti coloro i quali viaggiano all'estero, sono uomini facoltosi e cultissimi; per le bestie, che da noi si chiamano lazzaroni, le frontiere del regno rimangono chiuse. — Dunque ella — ripigliò prontamente la signora — le ha passate di contrabbando? — Uno scoppio universale di risa di tutta la conversazione, ricacciò la risposta in gola al baroncino, il quale d'altronde non avendo capito bene il pungente epigramma, principiò a ridere anch'esso senza saperne il perché. Avendo detto alla stessa signora ch'egli si sentiva una irresistibile vocazione per la carriera diplomatica, e chiamava iniqua la fortuna e stolti i governi che lo lasciavano fuori del campo dove egli era nato per operare portenti, colei gli promise che si sarebbe valsa della buona amicizia che le mostrava il ministro Fossombroni, per farlo mandare in qualità di incaricato d'affari alla Repubblica di San Marino. — Troppo lontanodisse egli ringraziandola della gentile protezione — nonostante, per principiare m'indurrò volentieri a imprendere un tanto lungo e pericoloso viaggio di mare, e mi recherò subito in America presso il governo di quella repubblica. — E per darle ragione di questo madornale sproposito che non era il piú grosso de' tanti che in un quarto d'ora sdrucciolavano fuori dalla sua bocca, la sappia che il nostro baroncino, spinto da questa monomania diplomatica, va spiando dappertutto, e raccogliendo i minimi pettegolezzi della città, e la sera li rispiffera nelle conversazioni e tiene allegre le brigate. È capace di parlare per quattr'ore di fila senza che gli manchi una sola parola; gli uditori si sentono rapire potentemente da un uragano di strambotti di questo conio: — Carlomagno aveva ordinato per mezzo d'una circolare, firmata dal suo ministro d'istruzione pubblica, che i professori in tutte le Università del regno dovessero spiegare il catechismo del Concilio di Trento, servendosi dell'edizione fatta alla Stamperia reale. — Alcibiade era gran maestro in una loggia di Carbonari, e trovato in flagranti, si sottrasse a mala pena dalle mani di Alessandro Macedone, che voleva farlo fucilare, e si salvò in Francia; prese servizio sotto Turenna, e fu fatto contestabile. — Annibale era stato alla conquista del Santo Sepolcro con Goffredo Buglione (e il Tasso fece male a non rammentarlo, ma come poeta, va scusato); vi andò colonnello d'artiglieria e tornò Feld-Maresciallo, ed in Vienna fu decorato dell'Ordine del Toson d'Oro dalle stesse mani di Carlo V. — Queste e simiglianti bagattelle erompono dalla sua bocca a tre e quattro alla volta con l'impeto de' barberi nelle feste di San Giovanni. A siffatta razza di bombe chi potrebbe star saldo? Lo stesso Eraclito che piangeva sempre, non creperebbe dalle risa? Aggiunga anche la originalità della sua pronunzia. Sforzandosi d'imitare la dolcezza del parlar toscano, appena giunto in Firenze, gli fu fatto notare che gl'italiani dell'altre provincie spesso non fanno differenza della b o della g quando va scritta scempia da quando va scritta doppia: di modo che non facciano distinzione di pronunzia fra Luigi ed uggioso, fra plebe ed ebbe; e però Maccheroncino per abbondare in cautela, pronuncia sempre scempie quelle tali consonanti, e per giunta profferendo aspra, come fanno in certe provincie del regno, la vocale iniziale, dice ghebe e guscioso; e volendo imitare la c dolce de' toscani, a cagion d'esempio ne' vocaboli cosa e carne, li pronunzia come fossero scritti coll'h aspirata ed aspra de' tedeschi, harne, hosa. Ma quando l'impeto del discorso gli prende la mano, Gennariello non bada piú a queste dolcezze, butta via le stampelle e galoppa a gettarsi nel puro e pretto dialetto lazzarone; e i mannaggia e i chillo, e i songo, e gli aggio a dicere, e i pozz'essere acciso guizzano nell'orazione come razzi in una girandola di fuochi artificiali. Cosí il barone Gennariello Maccheroncino è il buffo dell'alta società, e siccome non c'è commedia, in cui il brillante non abbia la parte sua, cosí non v'è conversazione, non festa, cui il nobile napolitano non venga invitato e desiderato. Aspetti un poco che forse anch'egli dirà qualcosa; senta il marchese Spillo che prosegue a ciarlare.

Secondo me, l'Arpia non penserà piú alla frustata che gli hai data, o Roberto.

— Vi siete accortidisse il duca Nottoloni — come tutti gioivano dell'umiliazione di quel carnefice?

, ma domattinainterruppe Spaccatesta — il ladro avrà la soddisfazione di vedere gl'insultatori picchiare al suo uscio, ed umiliarsi per aver quattrini.

— Ah! Pur troppo! — esclamò Roberto.

— Io poi non mi umilio mai a questa canagliadisse il Nottoloniparlo con Sandro, lo pago, fo gli affari miei e vado con la testa alta: e se Beppe Arpia me n'ha pappati di molti — dico per dire, non saranno poi tanti — s'egli l'ha fatta a me; io glie ne ho fatta qualcuna anche a lui: la legge del taglionepiú né meno; la quale, sebbene non sia piú ne' moderni codici criminali, c'è in quello di Moisé che è il codice piú antico di tutti: oculum pro oculo, ec., che vuol dire: a chi ti cava un occhio, cavagliene due, a chi ti strappa un dente, dagliene una soda sul muso e faglieli cascare tutti: sono leggi eterne di giustizia commutativa; e non ho il piú lieve rimorso per averla applicata all'Arpia; cosí mi venisse fatto di ripetere il rimedio quante volte desidera il mio cuore! Allora potrei stringergli la mano dicendo: «Pace, e daccapo».

— O raccontaci un poco come hai fatto a gabbare lo strozzinoesclamarono Cincinnato Assoluti e Gigi Scapati.

— Di certo sarai tu la fenice degli strozzati: io non ho sentito ma' mai diresoggiunse Roberto — che glie ne sia andata una a male; e' si direbbe che quella gentildonna onesta della Fortuna proprio si sia incapricciata maledettamente di questa carogna.

— Ma verrà anche la sua, non dubitatedisse il Nottoloni:

 

Ai voli troppo alti e repentini

Sogliono i precipizi esser vicini.

 

Io vivo colla speranza di vederlo penzolare dalle forche come un salame dal tetto della bottega d'un pizzicagnolo.

— Ma tu favelli con tanta sicurezza; come se sapessi qualcosa; o parla un poco senza mistero, rallegrarci tutti.

Parla, raccontaci, viaesclamarono tutti ad una voce.

— E a nessuno di voi altri è mai riuscito di ficcargliela per bene? — chiese il Nottoloni.

— A me no — risposero tutti, come grido ripercosso a piú riprese dall'eco d'un monte cavernoso.

— Dunque state a sentire, e ridete un poco. Una mattina, saranno scorsi sei mesi, io mi ritrovavo in un grandissimo impaccio — non vi sto a dire tante cose, perché non la finirei piú — mi trovavo insomma in una di quelle posizioni critiche ed urgenti in cui l'uomo per un francescone venderebbe l'anima al diavolo, come volgarmente suol dirsi. Non riescí di veder Sandro che era andato a Pistoia, e per tre giorni non sarebbe ritornato: — cosí almeno mi fu detto, ma sarà stata una delle solite bugie. — Armatomi di coraggio e di santa pazienza, volli andare da me al banco dell'Arpia. Mi ricevé con un contegno da gran Visire; io duca ed egli sgozzino: mi sentii smuovere tutta la bile, volevo vituperarlo, schiaffarlo, ma il bisogno, l'estremo bisogno mi persuase a fare uno sforzo eroico di prudenza; gli dissi che mi occorrevano da dieci in quindici mila lire, ma col suo comodo, poiché non ne avevo premura. Il furbo mi lesse nell'anima; ed assicuratevi ch'io non diedi segno della gran furia che avevo di concludere subito l'affare, mostrai una indifferenza, una dissimulazione, che mi avrebbe detto: «Bravo!» anche Talleyrand, di cui si racconta che la finzione o la freddezza del sangue era spinta a tal punto, che se mentre egli parlava con voi, qualcuno gli avesse dato un calcio nel sedere, seguitava il discorso con tutti i punti e le virgole senza farvene accorgere minimamente. Si vede che lo strozzino con l'arte di scorticare ha acquistata anche quella di frugare e leggere chiaro in fondo de' cuori. La birba mi rispose, che si sarebbe fatto un onore di servirmi, ma che oltre di non avere pronte delle somme da disporre, egli non faceva affari da sé, e mi rimandava a Sandro per istabilire i patti. — Ma Sandro non c'è — gli diss'io. — E' tornerà fra pochi giorni — mi rispose; — tanto ella non ha premura, e fra pochi giorni avrò riscosso tante somme da poterla servire. — Io insistendo gli feci osservare, che in ogni modo volevo uscire d'impaccio, e che messami in capo una cosa, per finirla presto avrei fatto qualche sacrificio, non avrei guardato a lira piú o a lira meno. Ed egli col bisogna aspettar Sandro; ed io col vorrei finir tutto su due piedi. Finalmente quando mi ebbe ridotto a mettere giú la maschera e mostrargli la sete che mi tormentava di avere il danaro richiesto, egli con mille proteste d'amicizia, e di particolare simpatia verso di me, mi disse che per servirmi si sarebbe contentato di mandare gambe all'aria un affare che era quasi concluso, si sarebbe contentato perdere purché io comprendessi la grandezza del servigio ch'egli mi rendeva. Io lo assicurai della mia gratitudine; certo d'avere ottenuto quel che volevo, mostrai sul viso la ilarità dell'animo, e lo strozzino che specula su tutto, mostrandosi lieto e vispo anch'esso, non arrossí dal propormi che mi avrebbe dato diecimila lire in contanti subito, a patto ch'io firmassi cambiali per quindici mila alla scadenza d'un anno. All'oscena proposta stavo per tirargli addosso una seggiola, ma come vi dissi, la mia posizione era cosí critica, ch'io avrei dato mezzo il mio patrimonio per diecimila lire; vi rammentate di quel re inglese in un dramma di Shakespeare, che, mortogli il cavallo sotto, andava gridando in mezzo alla furia d'una battaglia: — Un cavallo, chi mi un cavallo? Il mio regno per un cavallo17 —? La mia posizione era esattamente identica, si trattava di riputazione compromessa innanzi agli occhi d'una dama, che alla prima festa di corte, mi avrebbe messo in berlina. Feci pro formula due o tre difficoltà, ch'erano senza gambe e perciò non si reggevano. L'affare fu concluso.

Lo strozzino stese la cambiale, e mi disse: che avessi la compiacenza di firmarla. Egli mi stava ritto di contro; io prendo la penna, e invece d'intingerla nel calamaio, la tuffo a caso in un vasetto d'acqua sudicia, dove si sogliono tenere le penne; scrivo e mi accorgo dello sbaglio; in quel mezzo minuto, quasi mi scendesse un raggio nell'intelletto confuso, mi nacque improvviso il gigantesco pensiero di gabbare lo strozzino, tanto piú che, accagionando una naturalissima distrazione, avrei potuto, in caso di scoperta, salvare completamente l'onore. Torno a tuffare la penna nell'acqua sudicia, appongo la firma alla cambiale, vi verso su un poco di polverino, il quale, attaccatosi alle lettere segnate coll'acqua, per essere bruno produsse l'illusione dell'inchiostro — lo strozzino la prende, un'occhiata appena, poiché mi aveva veduto cogli occhi suoi stessi fare la firma, ripiega la cambiale, la pone nel portafoglio e corre subito a contarmi la somma, che consegna ad un facchino di banco perché mi segua; mi s'inchina, io lo saluto cortesemente, e giunto all'uscio dove mi aspettava la carrozza, tolgo di mano al facchino il sacco de' danari, gli do uno scudo, ed ordino al cocchiere che sferzi i cavalli, e via, come un fulmine, a casa a riporre la preda. Non vi so dire il contento che provai d'essermi resa giustizia da me: se qualcuno me lo avesse proposto come progetto, a negozio finito, avrei dato il mio titolo di duca, pur di gabbare l'Arpia.

— O bella davvero!

Bravo! Il duchino.

Furbo! Permio.

— O sentiamo come l'andò a finire, poiché suppongo che lo sgozzino avrà fatte cose d'inferno dopo d'essersi accorto della frittata.

— Il doporiprese il Nottoloni, gonfio degli elogi degli amici — eccoti Sandro Imbroglia a casa mia: gli fo fare due orette d'anticamera. Mi presenta la cambiale facendomi osservare che per uno sbaglio naturalissimo, e che potrebbe accadere a tutti, invece di scrivere il mio nome con l'inchiostro, lo avevo scritto con l'acqua, e che quindi asciugato, e cascato il polverino, la firma era scomparsa, e che io gli facessi il favore di rifarla. Sarebbe impossibile descrivervi la furia che m'infiammò anima e corpo alle parole di Sandro; avrei dato un occhio per potere avere al mio comando l'iperbolico frasario del barone Gennariello; gli avrei detto, com'egli dice spesso: ti magno lo fegato. Agli urli accorsero due miei amici, che avevo lasciati nella stanza contigua; e dopo d'essermi un altro poco sfogato che il misero Sandro pareva annientato: — Vedete signoriesclamai — costoro, questi briganti di borse, mi vengono dinanzi con la piú strana storiella che sia stata mai inventata dal piú ladro della loro classe; siatemi testimoni, io protesto che se girerà una cambiale di diecimila lire con la mia firma, la firma è falsa; e giuro al cielo, senza misericordia manderò il falsario in galera a vita, o non sarò piú il duca Nottoloni. — Sandro era esterrefatto, e appena ebbe fiato di dirmi: — Ma io non ci ho che vedere, Eccellenza, io non c'ero; è affare del mio principale, lo mandi pure in galera lui, se lo merita, ma io... — Non parlo di te; di te non ho nulla da diredissi io. Sandro andò via che gli tremavano le gambe. Seppi poi che lo strozzino quel stesso fu preso da una febbre infiammatoria, ed appena poté liberarsene a forza di tartaro emetico, di salassi e di mignatte. Ma bisognò ingozzarla in santa pace.

Evviva Nottoloni! — esclamarono tutti — Beviamo alla salute del bravo duchino. — E bevvero, toccando in giro i bicchieri, e ridendo a piú non posso,

... ma... — mormorò Cincinnato Assoluti.

— Ma, che? — disse Nottoloni interrompendo la impertinente particella dubitativa di Cincinnato.

— Che mi parrebbe che per un duca d'onore... in fine se l'Arpia è un ladro, un duca non ha il diritto di levargli di tasca la roba rubata.

Consulta un teologorispose Nottoloni — e saprai che quando non v'è modo d'ottenere giustizia per le vie regolari, quando uno, che in coscienza si senta aggravato, ha esauriti tutti i mezzi d'ottenere riparazione de' danni sofferti, e gli viene proprio a taglio, non solo può, ma deve ripigliare il suo, null'altro che il suo; unicuique suum è il principio fondamentale d'ogni giustizia.

Escobar, Suarez, Tamburinodisse Spaccatesta cantarellando — gl'inventori della morale elastica.

Scoppio generale e prolungato di risa, cui fu costretto di fare eco il Nottoloni, non ostante che si sentisse trafiggere dai tranquilli sarcasmi di Guido, col quale d'altronde non voleva attaccarla, attesoché — diceva il duchino — gli occhi torvi, la barba nera, le braccia nerborute di Spaccatesta, erano incidenti che potevano tornare pericolosi in caso che la disputa venisse a riscaldarsi; e quindi per non lasciar correre senza risposta l'ultimo sarcasmo dell'opponente, si contentò di schiacciarlo con una flaccida osservazione: — Già si sa che tu la pretendi a cavaliere errante in ogni cosa, anche nella morale e nel diritto.

Spaccatesta riaccese il sigaro che s'era spento:

— Se la parola d'un gentiluomo è un contratto, la sua firma è un sacramentorispose gettando una boccata di fumo sul muso a Nottoloni.

— Ne convengo anch'io — gridò da un angolo Gigi Scapati — io non credo che tra voi tutti ci sia un solo che, come me, siasi fatto assassinare dagli strozzini, e con l'intero uso di tutte le facoltà dell'anima, memoria, intelletto e volontà: ma quando ho firmato, ho pagato sempre; ed ho credito, e me ne vanto; e se non avessi il vizio di ridurmi sempre all'ultimo momento, se possedessi un po' di quell'aplomb diplomatico del duca, o dell'amabile Gentilini, troverei quattrini quanti ne volessi pagando una miscea di sconto.

— Già!  esclamò ironicamente Cincinnato AssolutiIperboli, caro Gigi, smargiassate, rodomontate! Io non credo che in Firenze ci sia giovane che sia stato, al pari di te, vittima sciagurata degli usurai. Guarda: vedendoti galoppare a rottadicollo per la via delle cambiali a babbomorto, io tremo per te, perché ti voglio un ben dell'anima; sei giovanino, sei caro, sei buono, e ti vorrei con due once piú di giudizio.

— O chi ti ha dato l'incarico di farmi il predicatore? — disse Gigi Scapati — D'onde ti viene questa partita di moralità a mio beneficio? V'è pericolo che tu sia d'accordo con la mia famiglia? Ora intendo il vero significato di quella che a me pareva una celia. Udite, signori, quel che mi ha fatto questo corbellone. Nella state scorsa s'era tutti e due in Livorno per la bagnatura: egli tornò a Firenze pochi giorni innanzi di me. Giungo in piazza e il primo amico che m'incontra, mi fissa gli occhi sul viso esaminandomi con tanta attenzione che mi pareva un impiegato di polizia che raffrontasse i connotati del passaporto; e mi chiede: — Come stai? — Benone. — rispondo io. — Me ne rallegro, proprio me ne rallegro; riguardati, sai; abbiti cura, non fare spropositi. — Tiro innanzi e dopo pochi passi eccoti un altro, che a un di presso mi canta la medesima storia. Finalmente entro all'Elvetichino,18 e trovo un subisso d'amici che mi circondano, mi fanno tali interrogazioni, mi colmano di tanti mirallegro, come se fossi campato da una caduta, da un duello, da un naufragio. Uscito fuori e preso a braccetto un amico: — Mi faresti il piacere — gli chiedo — di dirmi cosa significano coteste accoglienze affettuose fattemi ora al caffè, e che poco prima mi erano state anticipate da altri in istrada? — Come! — disse l'altro — Non sei stato per morire? — Io? O chi l'ha detto? — Cincinnato Assoluti recò la dolorosa nuova che tu eri andato in tisico, ch'eri all'ultimo stadio della infermità, e che i medici ti avevano spacciato; e ne è piena tutta Firenze.

Cincinnato rideva come un matto, e gli altri lo secondavano.

Ridi? Ma sai tu, satanasso, quanto male la tua celia mi ha recato? Il giorno dopo mi facevano comodo poche centinaia di lire; al solito, feci un fogliolino a babbomorto: gli strozzini s'erano data la voce; non mi volevano fidare né anche un soldo lucchese, supponendo che non sarei arrivato alla cascata delle foglie.

— E non fo chiasso!

Senti, Cincinnato, non ridere — io te lo dico di buzzo buonoscherza come tu vuoi, ma non mi toccare il credito; perché non so fin dove la disperazione mi potrebbe spingere: ci guasteremmo davvero.

— Non ti confonderedisse il marchese Spillo ponendogli una mano sopra la spalla — il credito a te non mancherà mai; hai due grandi requisiti, che con tutte le scimunitaggini che tu possa fare, te lo faranno sempre rinascere: sei figlio unico, e tuo padre è milionario ed avaro. Un padre avaro, se per qualche anno è d'un po' di molestia all'indole generosa del figlio, in fine è un vero tesoro; l'avarizia del padre è una credenziale illimitata; quand'anche egli non possedesse nemmeno la decima parte delle ricchezze che gli vengono dalla voce pubblica attribuite, la fama della sua gretteria centuplicherebbe i quattrini, come un cristallo faccettato moltiplica gli oggetti. Sta' zitto, lascia parlare me che ne avrei ben ragione: mio padre, malgrado che sia vecchio, seguita a bazzicare con gli sgozzini: quand'era giovane, passi; ma co' capelli bianchi! E vi assicuro, che proprio mi ha concio bene. Sono ridotto a tale che se a quel furfante di Sandro chiedo una ventina di scudi, sapete cosa mi risponde? — Oh! Ella è un galantuomo, e se stesse a me, le darei il mio sangue: ma il mio principale ha il castelletto pieno, e non vi metterebbe su nemmeno una lira: s'ella avesse qualche oggetto di valore, si potrebbe vedere. — In somma sono ridotto ad andare col pegno in mano come un ciabattino.

Cosí ti prenderà poco di scontodisse Roberto.

— Poco! Sentite e tremate. Io aveva urgenza di un migliaio di lire: disperando d'ogni altro espediente, offersi a Sandro un anello di brillanti che costava due mila lire, e che mi era stato lasciato in ricordo della mia buona madre. Beppe Arpia acconsente, ma vuole il tre per cento.

— Il tre per cento! Non parrebbe veroesclamarono ad una voce due della conversazione.

— O che vi par poco col pegno in mano il tre per cento al mese?

— Al mese? Accidenti! Io credevo all'anno.

— Si vede che sei ammattito. — Seguitando il discorso. — Tempo un anno per ritirare l'anello e restituire la somma. Dopo undici mesi e ventinove giorni mi vedo ricapitare un fogliolino, col quale sono invitato a ritirare il pegno e rendere le mille lire. Corro da Beppe Arpia; gli confesso candidamente che mi era impossibile restituire la somma, lo prego mi facesse la gentilezza di riavvallare la cambiale per qualche altro mese, ferme stanti le medesime condizioni, cioè il tre per cento di sconto. Si mostrò duro come una statua di bronzo; finalmente mi promise che si sarebbe ingegnato di discorrerne con un altro negoziante, che in questo affare era suo sociodiceva lui il furfante; ma son le solite fandonie che tengono pronte a migliaia e se ne servono quando vogliono mostrare difficoltà in qualche negozio. Sapete, in brevi parole, come andò a finire la faccenda? La cambiale non fu rifatta; io non potei rendere il danaro; l'anello fu venduto — mi disse lo strozzino — per un prezzo minore delle mille lire; e per avere seicento quaranta lire ebbi a perdere una gioia, che costava due mila.

— Ma questi sono affari in piccolo, nel genere delle grandi strozzature son veri gingilli, e ve ne sarebbe da raccogliere una filastrocca lunga un terzo di migliodisse Cincinnato Assoluti. — Quando mi presento alla fantasia il numero delle vittime di Beppe, mi sembra di riguardare un vasto campo, dove siasi combattuta la battaglia piú barbara e micidiale de' tempi moderni. Il conte A, il duca B, il cavaliere C, il dottore D, il marchese E, il negoziante F, la baronessa G, la vedova H, il generale I, i signori K, L, M, N, O, P, Q, R eccetera, chi prima chi poi, chi d'un modo chi d'un altro, chi piú chi meno sono stati sgozzati dall'insaziabile Arpia, il quale si è impinguato del sangue di que' miseri; cui altro non è rimasto che la sterile soddisfazione di maledire il loro carnefice; ma egli come la Fortuna di Dante, è beato e ciò non ode; anzi crede fermamente che, ove potessero tornare all'essere primitivo, correrebbero a porgere il collo al laccio strozzatore, come nulla fosse stato. Ah! L'uomo, l'uomo, cari amici, è un animalaccio; si vanta d'essere il piú ragionevole di tutti, ma bisogna convenire che è il piú inconcludente; la voce pubblica in Firenze pone gli strozzini nella lista della febbre gialla, della peste, del tifo, del colera; il codice criminale minaccia pene severissime ad estinguerli, ma essi non solo non iscemano, ma moltiplicano ogni giorno; ed oggi che in Francia prevale la massima: il faut se faire une position sociale, vale a dire che a procurarsi uno stato tutti i mezzi son buoni, e quelli sono migliori, che conducono piú celermente a questo supremo scopo della vita, la fama di strozzino fortunato è l'aureola piú sostanziale e positiva di gloria che possa circondare la testa d'un cittadino.

Qualche ora innanzi, e segnatamente allorquando si aperse la discussione intorno alle inclite imprese di Beppe Arpia, il barone Gennariello Maccheroncino, sia che sentisse vergogna di non potere anch'esso contare la sua, come quello che non era strozzabile; sia che altra ragione lo chiamasse altrove, era scomparso dalla stanza della conversazione. Ma mentre che Cincinnato, dopo di aver fatta l'epica narrazione delle grandi conquiste dello strozzino, seguitava a dedurne ammonimenti e considerazioni morali ad ammaestramento de' suoi colleghi, eccoti improvvisamente ricomparire Gennariello in sembianza d'attonito, senza cavarsi il cappello, con le braccia aperte, tenendo in pugno un bastoncino. — Non sapete che è seguito? Non sapete la nuova? Il figlio di Beppe Arpia, il signor Babbiolino Arpia, sposa la figliuola della marchesa Pomposi.

Con un «oh!» lungo e generale di maraviglia fu accolto l'annunzio recato dal barone. — Gli è impossibile.

— È una celia.

, non ti confondere; e' sarà anche vero, se ne sono veduti tanti esempi.

— Ma la superbia, l'orgoglio, l'albagia della marchesa?

Davvero. A vederla gonfia, tronfia, e pettoruta, par che la si creda una Cleopatra. — L'imperatrice di tutte le Russie.

— La regina Saba.

— È una santocchia.

— È trista piú del demonio.

Appartiene alla setta, e tanto basta.

— È furba piú di quel che non credete; la ci trova il suo conto.

— È però non bada punto ai fumi, e si appiglia al positivo. In quanto a me, non vedo nulla, nulla di strano in ciò che ha detto il barone.

Gua', potrebb'essere.

— E' sarà.

— Ma giurabbacco! Mi viene la rabbiaurlò Nottoloni — voi la pigliate in burletta, ma io non ci posso ridere. E poi ci lamentiamo che la plebe ogni giorno ci leva il rispetto; di chi è la colpa? La colpa è di noi nobili che sporchiamo l'onore del ceto: parlo degli altri che hanno perduto il senso della loro dignità, non parlo di me che quand'anche un colpo impreveduto di fortuna mi gettasse in fondo all'indigenza, creperei piuttosto, mi ammazzerei...

— Cioè t'immortaleresti con una morte tragicadisse Cincinnato con un certo sorriso che arroventò la collera del Nottoloni.

— Ma che vi par piccina? — seguitò il duca — Che vi par piccina? Diobaccone! Il nobile sangue de' Pomposi mischiarsi col turpe e fangoso sangue dell'Arpia? Fareste meglio a non ridere, ed imitarmi facendovi tante trombe della pubblica indignazione.

— In quanto al sangue, lasciamo andare: io ho le mie ragioni, e non importa dirle perché vedo che il mio caro duchino... basta, non aver paura, Nottoloncino, noi ci conosciamo, libertà d'opinioni, ed amici per tutta la vita; io non mi inquieto di questo. Ma che una giovine bella come la figliuola della Pomposi abbia a cascare nelle mani di quel babbuino, o Babbiolino, come lo chiamano, oh! Questa l'è pillola che non posso ingozzare.

— Che ci volete fare? — esclamò il baroneMargaritas ante porcos, diceva Virgilio, e non è questa la prima volta.

— Che bel bocconcino da principe! — disse Gentilini attorcigliando le punte de' suoi baffi finti.

Povera figliuola! Chi sa con che cuore lo sposa.

— Non dubitare; avrà anch'ella i suoi piani.

Meglio! Una provincia nuova esposta all'ambizione de' conquistatori: ci proveremodisse il marchese Spillo strofinando le mani e scotendosi.

Tant'è, per moglie non ha i requisiti indispensabili; non ha un quattrin di dote.

— Ma io non mi darò mai pacegridò Nottoloni — finché ci sarò io, questi sposi novelli non entreranno al Casino, e ne farò anche cacciare la vecchia strega della madre.

! Ma tu mediti una vendetta micidialedisse Guido Spaccatesta — o dimmi un poco, v'è paura che... ma no, non può essere; le manca, come diceva poc'anzi Gigino Scapati, il principale requisito; una Venere senza mezzo milione di dote — per lo meno — non fa razza co' Nottoloni.

Tali a un dipresso erano le chiacchiere che nacquero in quella amena comitiva alla nuova recata da Maccheroncino. Roberto quasi fosse colpito di stupidità, rimaneva appoggiato al divano in fondo alla stanza, col braccio steso tenendo fra le dita un sigaro spento: ascoltava senza osare profferire una parola temendo di rivelare l'arcano ch'egli gelosamente finallora aveva custodito nel cuore, senza palesarlo né anche a Guido Spaccatesta ed a Cincinnato Assoluti, amici suoi veri; ed esporlo cosí ai sarcasmi, alle ciarle maligne di quel matti sarebbe stato lo stesso che gettare una fanciulla in mezzo ad una caserma di soldati. La nuova gli pareva una celia, ostinavasi a crederla tale; ma questo pensiero era poco efficace a non fargli provare un amaro senso di disgusto. Malediceva in cuor suo il nunzio importuno, lo avrebbe anche cacciato a schiaffi fuori di casa, ma si frenò; ed una massa d'ombra che muoveva da un corpo posto fra lui e la lucerna non faceva scorgere la espressione del suo volto che non poteva essere quella della indifferenza, e che congiunta col silenzio in un solo costrutto, avrebbe forse fatto indovinare, o almeno sospettare l'arcano.

— Ma chi te lo ha detto? — disse Guido Spaccatesta — Sarà uno de' tuoi tanti spropositi.

— E male trovato, perché tocca la riputazione d'una fanciulla, la quale, se ha la sventura di esser figlia di una madre trista, e riprovevole, è fiore di bellezza, di purità, di senno. Maccheroncino, Maccheroncino! Bada alla lingua.

— Chi me l'ha detto? Ma voi giudicate senza cognizione di causa. Aggio capito... siete tutti una massa...

Maccheroncino! Barone! Gennariello caro! La lingua, la lingua. Basta; senza piú ciarle, di' come l'hai saputo.

Andato a casa per una faccenda, mentre ritornava qui, trovo per istrada il conte Santocchi insieme col dottore Gialappa, ambidue, come sapete, famigliarissimi di casa Pomposi. Costoro mi dissero che andavano a visitare la marchesa, e mi raccontarono come ier sera si facessero gli sponsali, si leggesse la scritta innanzi ad una quarantina di amici; mi dissero che il figlio dell'Arpia ha una dote immensa, ed ha fatto un assegnamento da principessa alla sposa, e tante altre cose. La festa fu quasi segreta a cagione della convalescenza della marchesa Eleonora, la quale naturalmente sarà stata ammalata. Fra tre giorni gli sposi anderanno a farsi benedire in chiesa, et erunt duo in carne una, come dice Cicerone.

L'ultimo sproposito di Gennariello che rubava a Moisè le parole per darle a Cicerone, come dianzi aveva levate le altre ad un evangelista per attribuirle a Virgilio, non produsse quel fracasso di risa che avrebbe destato in altra occasione: ed era segno evidente che la nuova non piaceva a nessuno. Successe un secondo ricambiarsi di domande e risposte, di riflessioni, di esclamazioni, ma con ispirito ben diverso da quello che animava le ciarle, scoppiate al primo ed improvviso annunzio di Maccheroncino.

Roberto, come conobbe quali erano le fonti d'onde il barone aveva tratta la nuova, non seppe piú illudersi, senti mancarsi la forza dell'animo, che gli aveva finallora data l'apparenza d'impassibile. Come folla di gente che ad un tratto si slanci verso una porta, pigiandosi, urtandosi che l'uscio si sfasci, cosí i pensieri diversi, scomposti si affollavano nel cervello di Roberto, che, preso il braccio di Guido che a caso gli stava accanto, lo trascinò seco facendo uno sforzo estremo per affettare disinvoltura.

Appena furono usciti dalla stanza, Guido gli chiese: — O che ti è egli seguito, Roberto?

— Nulla; il fumo... vedi, il troppo fumo... mi gira il capo... una certa nausea... accompagnami fino in camera.

Traversarono tre o quattro stanze.

Grazie: lasciami qui solo — disse Roberto cascando col tonfo d'un cadavere, sopra un sofà.

Zanobi, Zanobi!... — gridò Spaccatesta, temendo non fosse accaduto a Roberto qualcosa di serio.

— No, Guido, non far motto, non alitare, per carità! Non ho bisogno di nessuno; voglio star solo. — E postagli la mano sul braccio, seguitò: — Dirai agli amici che mi scusino: stiano quanto tempo pur vogliano; farai tu le mie veci... di' ch'io sto poco bene; ma che non è nulla... in somma mi fido di te, caro Guido, vedi in che stato io mi trovo! — e dicendo l'ultime parole gli compresse il braccio.

Guido intese confusamente, ma intese: lottava fra il sospetto e la certezza. Ritornato nella stanza degli amici, i quali non s'erano accorti della sparizione di lui e di Roberto, e ciarlavano ancora, tutti addosso al Nottoloni che seguitava ad arringare sul sangue puro, sulla stratificazione naturale e necessaria delle classi nella massa sociale; ed affettando ilarità, disse agli amici: — Roberto sta poco bene, il fumo, il troppo fumo gli ha prodotta una certa nausea che lo costringe a ritirarsi in camera. Egli ci prega di star qui quanto ci parrà meglio, anche fino all'alba.

Dopo le frasi di costume, i me ne rincresce, i me ne duole e simili, i giovani seguitarono a bere, a fumare, a ciarlare.

Un'ora dopo la conversazione si sciolse. Da Lungarno, traversando gli Uffizi, andarono tutti insieme fino in Piazza. Quivi si dissero addio. Nottoloni si diresse verso Via Larga; Spaccatesta in Portarossa; Assoluti in Via del Cocomero; Scapati in Via del Giglio; Spillo in piazza San Firenze; Gennariello al Trotto dell'Asino; Ghiottoni in Mercato. Sono tutti a casa, l'orologio di Palazzo Vecchio suona le due dopo mezzanotte: buon riposo a tutti loro.





p. -
15 Osteria popolare conosciutissima nella città di Napoli.



16 Luogo in Firenze, dove un tempo si distribuiva la minestra ai poveri. La espressione è rimasta proverbiale nella bocca del popolo.



17 Il luogo cui allude il duca Nottoloni è nel Riccardo III, uno de' piú bei drammi del sommo poeta inglese; e il verso è il seguente: «A horse, a horse; my kingdom for a horse».



18 Caffè in piazza del Duomo.



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