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Le due o tre ore di tempo che Roberto rimase insieme con gli amici intento alle sue indagini, allorquando uscirono di casa, furono bastevoli a fargli scoprire, com'egli illudevasi, intera la verità del caso, ed a persuaderlo che oramai gli era forza non pensare piú all'Amalia, e porre ogni studio a liberarsi dal pondo che l'opprimeva. Scoperse, io dicevo, la verità, tranne la sola parte la quale gli avrebbe fatto mutare pensiero: egli non seppe nulla de' tormenti sofferti dalla sua diletta, della prigionia, della simulata infermità della marchesa, della tortura morale, insomma, con cui le avevano strappata la firma della scritta nuziale. E però da quel tanto di vero che aveva potuto raccogliere, formava il seguente ragionamento, che concordava col consiglio datogli da Guido. L'Amalia s'induce a sposare il figlio dello strozzino; sarà stata costretta, non l'amerà forse, ma avendo assentito, è una donna volgare: dunque non è positivamente grave la perdita, comunque sia dolorosa. Argomento che pareva nascere, secondo che diceva Cincinnato Assoluti, da una evidenza matematica.
Nonostante, sentiva tutta l'acerbità del colpo, pensava che la ferita fosse profonda e incurabile, e che oramai la sorgente della sua vita fosse avvelenata. Aveva mestieri di un rimedio vigoroso e prontissimo: dopo di averne pensati tanti, e ponderatili studiosamente, appigliossi a quello suggeritogli dagli amici. Pensò di allontanarsi dalla patria, andarsene senza saper dove, andare in Ispagna forse, gettarsi nella rivoluzione, rigenerarsi ne' travagli della guerra, o fare la morte del prode.
Ma come quegli che era gelosissimo del proprio onore, e la sua improvvisa e misteriosa sparizione poteva dipingerlo agli occhi del mondo come uomo che fugga cacciato dalle strettezze domestiche, o dalle molestie de' creditori, voleva, innanzi di partire, porre in assetto le proprie faccende. Essendo l'ultimo della propria famiglia, e ravvisando l'avvenire chiuso e irreparabilmente intenebrato, concepí un disegno che in altri tempi l'avrebbe fatto tremare, l'avrebbe agghiacciato di rimorso, il disegno di disfarsi delle cose, le quali oltre ad essere, di per sé, preziosissime, erano una specie di fedecommesso, legato di generazione in generazione, dagli antichissimi suoi progenitori ai posteri loro, e da tutti con sentimento di religione domestica custodito.
Quando Firenze godeva di tutte quelle libertà pubbliche di cui fruisse mai governo democratico nei tempi antichi o ne' moderni; quando gli animi de' cittadini, vivificati dal fecondo raggio del vivere libero, mentre moltissima parte d'Europa giaceva oppressa dal servaggio feudale, levaronsi a tanta eccellenza in ogni ragione di cultura, che Bonifacio VIII, il quale fu cotanto funesto alla repubblica, ebbe a dire i fiorentini essere il quinto elemento dell'universo, la civiltà con esempio forse non visto mai altrove, dal palazzo dell'opulenza si diffuse fino nel tugurio dell'artigiano e nella capanna del contadino. E sí profonde furono le radici che mise questa squisita cultura in tutte le classi del popolo, che trecento e piú anni di schiavitú soporifera, sebbene lo corrompessero, lo sfiacchissero, ne trasformassero l'indole, non valsero a farne sparire gli splendidi vestigi. Lo straniero che dalle immense metropoli dell'Inghilterra e della Francia si reca in Firenze, rimane attonito alla cultura del popolo, allorquando vede i contadini con le mogli e i figliuoli ne' giorni di mercato, spicciate le faccende, andar visitando i monumenti che sorgono numerosi in ogni angolo della città, e insegnano il nome d'un grand'uomo, o narrano un tratto di storia patria; andare per le gallerie ad ammirarvi con soddisfazione i miracoli delle arti italiane; partirsi a piedi da colli e villaggi lontani ed affollarsi all'annua esposizione degli artisti. Ma cresce la sua maraviglia allorché osserva un altro fenomeno, ed è questo. In tutti i paesi del mondo vecchio e del nuovo il teatro è ricreazione riservata ai cittadini culti ed agiati, mentre nella sola Firenze è accessibile a tutti, è un bisogno universale, di guisa che in una città popolata di cento e poche migliaia di anime, nove teatri aperti tutti in un tempo, si vedono affollati di spettatori; in nessun paese de' tempi moderni con sei soldi l'uomo del popolo può godere tre o quattro ore di spettacolo19. E però si dice che non v'è luogo nel mondo, dove i divertimenti costino sí poco quanto in Firenze, della qual cosa è unica e precipua cagione il bisogno di quelli universalizzato in tutti gli stadi della società.
Questi che poco innanzi abbiamo chiamato vestigi di cultura, ci conducono col pensiero ai tempi in cui Firenze era la piú ricca ed insieme la piú culta città del mondo moderno. L'amore del sapere ingigantendosi e diffondendosi cosí come si venivano disseppellendo dalle rovine de' tempi barbari le reliquie venerabili dell'antica civiltà, fra gli altri benefici effetti, produsse quello dell'universale protezione accordata agli ingegni non solo dallo stato, ma da tutti i cittadini. E siccome in quel periodo di patria grandezza, cioè da Dante fino a Machiavelli, da Giotto fino a Michelangiolo, gli uomini insigni in Firenze si mostrarono a schiere come in propria stagione, di guisa che ci richiamino alla fantasia le farfalle di primavera, o le miriadi di stelle splendenti a gruppi in un lembo di cielo, può dirsi che non v'era cittadino che non sentisse la nobile ambizione di possedere una squisita opera d'arte da tramandare ai propri figli. E spesso avveniva che il modesto abituro dell'artigiano si vedesse decorato di una tavola, di un marmo che oggi sarebbero gioielli ne' musei di Londra o di Parigi; mentre i ricchi cittadini sentivano la brama, o dirò meglio, la necessità di adornare le pareti delle loro abitazioni con le preziose opere di Masaccio, di Ghirlandaio, di Andrea Del Sarto, di Donatello, di Luca della Robbia e di mille altri incliti ingegni. Non v'era casa, insomma, di ricco cittadino che non avesse una galleria di quadri, una biblioteca di famiglia, una raccolta di manoscritti: ricchezza imprezzabile, la cui vastità potrebbe argomentarsi da questo, che da tanti e tanti anni l'Italia e massime Firenze, è come una miniera dalla quale si traggono opere d'arte per formare i musei e le gallerie pubbliche e private d'Europa; miniera, che dopo di avere versato sí gran copia di tesori, rimane inesauribile.
Oggimai il popolo marcio e corrotto, e tanto piú schiavo de' vizi sordidi del secolo, quanto trovasi piú sfiacchito ed agevole a lasciarsi trascinare, adora l'idolo d'oro, e per ardergli incensi, si spoglia delle memorie piú sacre, in cui vive il nome degli avi gloriosi, i quali, se potessero dalle loro sepolture levare le teste venerande, nel mirare i tralignati nepoti, mettendo un doloroso gemito stenderebbero le mani scarne a maledirli come figli prodighi disperditori delle opere bagnate dal sudore di tante fronti, sulle quali stava l'impronta del genio segnata dal dito di Dio. Amarissima verità, che mosse il severo labbro di Vittorio Alfieri a dire ad un fiorentino che portava un casato celeberrimo: — In Firenze non vi è casa dove un tempo non abbia abitato un grand'uomo, e dove ora non picchio e non mi risponda un corbello.
I Cavalcanti che fino dalla istituzione della repubblica erano annoverati in Firenze fra le piú cospicue famiglie, eransi di padre in figlio tramandati la nobile ambizione di predistinguersi nella cultura d'ogni arte gentile. Nel secolo decimoterzo Cavalcante, capo della famiglia, da Dante, dal Boccaccio, dal Villani e da tutti i commentatori della Divina Commedia viene rammentato come audacissimo speculatore nelle cose filosofiche. Guido, suo figlio, che aveva rapita la gloria della lingua a Guido Guinicelli bolognese, ebbe fama di primo fra' poeti de' tempi suoi. I suoi posteri furono poscia solleciti di arricchire le loro sale di opere d'arte, e conservandole ed accrescendone sempre il numero per tante generazioni, avevano legato a Roberto una splendida collezione di pitture e di disegni originali, e una splendidissima raccolta di codici rari e di manoscritti insigni. Vi si vedevano scritture antichissime di tutti gli uomini illustri de' secoli decimoquinto e decimosesto, di poeti, di storici, di filosofi, di principi, di capitani famosi; testi a penna consultati da' cultori della italica favella; edizioni peregrine postillate da uomini dotti: raccolta degna piú presto di un principe che di un privato cittadino. Roberto pregiava que' tesori per culto tradizionale domestico, ma non ne conosceva lo inestimabile valore, sí per la vita sventata, che, morta la madre, egli aveva sempre menata, e sí perché dopo il tirocinio consueto degli studi ne' primi suoi anni, indulgendo alle costumanze de' suoi pari, aveva fatto pieno divorzio dai libri. Dagli amici che lo spingevano allo scialacquo del patrimonio, ed in ispecie da un nobile italiano — a dipingere il quale basti il fatto che una volta interrogato da un baronetto inglese chi fosse l'autore di un vaghissimo quadro che adorno d'una preziosa cornice decorava il suo salotto, rispose di non saperlo, ma per appagare la curiosità del baronetto, andato dal maestro di casa e fattosi dire l'artefice della pittura, tornò dicendo essere opera di un certo signor Guido; la qual cosa all'intelligente straniero suonò come se un suo concittadino avesse detto un certo Mr. Shakespeare o Dr. Milton — da questo tale, io dicevo, e da gli altri era stato incitato a disfarsi di quella roba, la quale, se non gli era d'impaccio, massime i libri e le scritture, doveva stimarsi capitale morto. Roberto aveva sempre ricusato, parendogli oltraggiare la memoria degli avi suoi, che fino da tempo immemorabile, erano stati concordi a serbare quegli obietti.
Ma nel terribile accesso del suo dolore, fatto pensiero di partirsi, sperò che da quella raccolta poteva ricavare una certa somma e dar di frego ad alcuno de' suoi debiti. E però, annunziato ai due amici lo intendimento di vendere manoscritti, libri e pitture, e pregatili perché lo assistessero, costoro gli suggerirono che ne deputasse il cavaliere Gentilini che aveva la mania di credersi antiquario, come colui che aveva girata mezza l'Europa; e sebbene fosse partito da Firenze un po' bestia, e vi fosse tornato alquanto animale, nondimeno quella chiacchiera e quel coraggio di improvvisare solenni fandonie come se parlasse per ispirazione e per dottrina acquisita, imponevano sulla fatuità del gregge umano; ed in quella data faccenda erano cose di immensa utilità. Roberto manda in cerca di Sandro Imbroglia, perché gli trovasse un compratore.
La sera medesima fu recato l'invito al Gentilini, il quale lo accettò di gran cuore, e il dí dopo anticipata di un paio d'ore la solenne consueta toilette, s'avviò verso mezzogiorno al Palazzo Pomposi dove Sandro era pronto ad aspettarlo.
Zanobi non potea darsi pace; erasi già provato in varie guise d'indagare, ma non gli era riescito di saper nulla delle nuove cagioni che avevano accresciuta la tristezza del suo signore; ma allorquando Roberto gli disse che intendeva di vendere i libri e le pitture, si senti come colpito da un fulmine. Per la qual cosa pregandolo fervidamente pensasse meglio innanzi di determinarsi ad un passo di tanta gravità, ed udendo reiterare con modo piú assoluto il comando, partí inchinandosi, e mormorando: — Povero figliuolo! Adesso è rovinato davvero! — Il conte mentre spendeva e spandeva con insana prodigalità gli era parso soltanto imprudente o malcauto, ora che attentava profanamente a que' vetusti e preziosi ricordi di famiglia, diventò agli occhi del fido ed affettuoso servo il figlio prodigo del Vangelo, e lo commiserava come irreparabilmente perduto.
Arrivata l'ora, eccoti Sandro in compagnia di un uomo elegantemente vestito o travestito, il quale recitava la parte di compratore. Si posero a ciarlare, a girare per i saloni, mentre Zanobi che nel tristo mezzano ravvisava il manigoldo del proprio signore, gli volgeva torvo lo sguardo, brusca la parola, maledicendolo dentro di sé, e non osava lasciarlo solo un momento, credendolo capace di divorarsi anticipatamente ciò ch'egli era andato a rubare con l'apparenza di trattare un negozio.
Finalmente giunto anch'esso il cavaliere Gentilini, gli viene presentato il compagno di Sandro come un forestiere che viaggiava in cerca di cose d'arte. Si ricambiano mille gentilezze, squisitissime sulla bocca e negli atti del Gentilini, sgarbate su quelli del finto forestiere.
Il cavaliere rivoltosi a Zanobi, domandò: — E tutto pronto? — Poi volgendosi al forestiere disse — Dunque, se le piace, si può principiare.
Innanzi di procedere oltre, onde intender bene la scena che vo tratteggiando, è mestieri sapersi che Zanobi era il solo della famiglia che praticamente conoscesse il valore di que' tesori; perocché da tanti e tanti anni toccando a lui l'ufficio di accompagnare gli artisti e gli amatori che si recavano a visitare la galleria o la biblioteca, col sentire ripetere spesso le cose medesime aveva imparato che il tal quadro era di tale artista, che nel suo genere era unico, che era stato inciso nel tale tempo, che valeva tal prezzo; aveva, insomma, la erudizione d'un antiquario rivenditore, che favellandoti degli obietti della propria bottega, ti profonde un fiume di eloquenza, mentre poi se ti provi di farlo discorrere d'altre materie, ti mostra tuttaquanta la sua portentosa ignoranza. A Zanobi dunque togliere quegli oggetti era il medesimo che privare il suo cuore del pabulo dell'unica vanità che lo nutrisse.
Cominciarono dalle pitture.
Sandro avrebbe desiderato di far monte di tutti gli obietti, ed offrire un prezzo in massa; il Gentilini non dissentiva da ciò, ma chiedeva dicesse l'offerta; e il mezzano, tratto da canto il simulato compratore, fingendo di favellargli un prezzo, si fé presso al Gentilini, dicendogli all'orecchio:
— La, senta, e' vorrebbe dare trenta mila lire; ma la tenga fermo, sa ella, che e' si lascerà scoscendere, e mi basta l'animo di tirarlo a qualcos'altro.
Il Gentilini rise facendo un gesto con la mano ch'esprimeva con la precisione della parola: «Ma tu dici per canzonare».
— Lo dico in verità di Dio, sa ella; mi ha detto trentamila lire, né anche un quattrino di piú; ma la lo sa ch'io naturalmente devo fare gl'interessi del sor conte; stia un po' cheto che gli riparlerò, e sentirò precisamente a quanto e' vuole arrivare.
E fingendo di riparlare col forestiere, e gesticolando come se lottasse contro gravi difficoltà, si riaccosta al cavaliere con un certo risolino di gioia e gli sussurra all'orecchio:
— L'ho ridotto a cinquantamila lire — e la sua buona grazia — ma ci ho sudato, ve': e non ci sarebbe da fargli mettere su né anche un dieci paoli.
— Ma Sandrino, ma Sandrino! Con chi credi tu di trattare? — domandò il Gentilini figgendogli gli occhi sul viso, in modo che Sandro se li sentiva penetrare come tanti aculei che lo facevano gridare; «Ohi! Ohi! Vuol essere un affaraccio: accidente al sor cavaliere, e a chi ce l'ha chiamato».
Poscia il Gentilini alzando la voce, disse: — Se il signore intende veramente di concludere l'affare in massa, reputandolo, com'è, un distinto conoscitore, io spero non istimerà esagerata la domanda di cinquecentomila lire; giacché sa bene che una raccolta di pezzi scelti, dove si contano anche parecchi capi d'opera de' piú celebri maestri della scuola italiana, come sette o otto quadri di Raffaello certi, e quindici creduti tali; diciotto di Michelangiolo, e tutti genuini; nove di Tiziano; tre di Correggio, e parecchi di Andrea, di fra' Bartolommeo, del Parmigianino, dello Schidone, del Caracci, di Guido, di Domenichino, di Salvator Rosa e di tanti e tanti altri che sarebbe lungo nominare, una raccolta di pezzi tali formano un tesoro, che per lo meno meriterebbe il quintuplo di quello che ho chiesto. La supponga che se ne incapriccisse qualche principe, anche di que' piccini, puta un duca, un elettore, un margravio fra tanti che ve ne sono in Germania, che cred'ella che esiterebbe un momento ad offerire due o tre milioni? Ma la mi potrebbe dire i principini di quel paesi là sono arrembati a quattrini. Saranno; ma con una piccola imposta, con un balzello presentato con un nome nuovo e specioso, si tirerebbero d'impaccio, e i fedelissimi sudditi nella vista della galleria troverebbero il compenso alla fame. E per ritornare al nostro discorso, il signore offre una somma cosí meschina che debbo credere ch'egli scherzi.
Il finto forestiere guardava Sandro; non osava rispondere, perocché Sandro, nelle misure preconcertate non avendo preveduto il caso che il conte Cavalcanti avesse potuto deputare un uomo come il Gentilini, non aveva date apposite istruzioni al compagno. Il quale non sapendo se una sola, parola accomodasse o guastasse la faccenda, trovavasi come un uomo al buio cui siano caduti in terra preziosi oggetti friabili, e non osi muovere un passo chiamando qualcuno che rechi un lume. E però invece di guardare e rispondere al cavaliere, mirava l'Imbroglia: mentre Zanobi non era meno sbalordito pensando alla scienza improvvisamente germogliata e cresciuta nel cervello del Gentilini, di cui egli aveva sempre udito favellare con dileggio, ed ora gli sentiva sciorinare un diluvio di nomi appiccicati per la prima volta a questa ed a quell'altra pittura.
Sandro per tre minuti perse la bussola anch'esso; ma come vecchio marinaio avvezzo a trovarsi in simili e maggiori tempeste, ed a governarle ed uscirne salvo, facendo due passi innanzi, e coll'atteggiamento di un personaggio sul palco scenico che si frapponga come paciere fra due contendenti, mettendosi nello spazio che intercedeva tra il Gentilini e il forestiere: — Vedo bene — disse — che non conviene a nessuno di lor signori di concludere il negozio in massa; gli oggetti di valore vanno esaminati uno per uno. Be' facciamo cosí; si calino giú i quadri, si prezzino uno per uno, e poi, se vorranno, si farà un monte, e gli si darà un prezzo. È ella contenta?
— Si scendano pure — disse Gentilini — io son sicuro del fatto mio; vedremo a prova se la mia domanda è esagerata. Zanobi principia a calar giú le pitture.
Quest'ordine fu per l'afflitto Zanobi un secondo coltello rificcato in una ferita aperta e grondante sangue. Gli parve che una mano di nemici avessero preso d'assalto il palazzo del suo signore, e lo mettessero a sacco. E rimaneva in silenzio senza muoversi, cogli occhi rivolti al Gentilini, il quale gridava: — Lesto, spicciati: o che non hai inteso?
Zanobi si mosse barcollando a chiamare uno o due servitori che lo aiutassero in questo doloroso spoglio delle mura. Nell'eseguire quell'ufficio ei provava il senso di un ministro pietoso che per comandamento di chi può, sia costretto a cacciar via da una casa un pigionale che vi è vissuto tanti e tanti anni, e pareva essersi quasi acquistato il diritto di finirvi la vita. Ad ogni pittura che l'onesto Zanobi spiccava dalla parete con tutta la lentezza di un condannato il quale per istinto vuol prolungare le ore dell'agonia, mandava un sospiro, e innanzi di spiccarne un altro, con la mano asciugavasi una lacrima che lenta gli gocciolava giú per la scarna guancia. Se un pittore intento a dipingere una deposizione di croce, in quel momento avesse osservato l'attitudine dell'afflitto Zanobi, non avrebbe potuto trovare miglior modello per una delle sue figure.
Gran numero di pitture giacevano disordinate per la stanza, quando Zanobi, rimanendo sulla cima d'una scala ed aspettando che l'altro servitore gli recasse non so che cosa per ispiccare dalla parete un quadro che non voleva cedere, vide sull'uscio apparire e fermarsi in atto di ammirazione un uomo; aveva bianche e rade le chiome, le labbra coperte di peli grigi, era vestito di panni elettissimi, aveva l'andare di un gran signore. Zanobi ammicca un poco, riguarda, e fa un atto di sorpresa che stava quasi per farlo precipitare giú dalla scala, e fu li lí per chiamarlo per nome, quando il nobile vecchio che già lo aveva riconosciuto, ponendosi l'indice a traverso le labbra, gli fe' cenno di tacersi.
L'oh! che Zanobi non fu in tempo di frenare sulla sua bocca fece volgere gli occhi di tutti verso l'uscio della sala; e il vecchio avanzandosi tranquillo e cortese domandò
— Il conte Cavalcanti?
— Non è qui, non sappiamo se sia nelle sue stanze.
Zanobi in quel mentre era sceso giú dalla scala, e fattosi presso al vecchio, esprimendogli con gli occhi che aveva inteso il suo pensiero, diceva — Forse non sarà in casa: avrebbe da dirmi nulla? Io sono il suo cameriere.
— Per ora non importa che ci sia egli; e posso fare anche senza: aveva sentito che stamani qui seguiva una vendita di pitture, di libri, di arredi antichi, e trovandomi in questa città appositamente venuto ad acquistare simili obietti, chiedevo se potessi anch'io essere ammesso al numero de' compratori, qualora non ci sia nulla di concluso.
— Padrone, la s'accomodi, la ci fa piacere — rispose il Gentilini.
— Ma signor cavaliere... — esclamò Sandro — i primi offerenti siamo noi.
— Ed io — rispose il vecchio gentiluomo — non venni per isturbare il negozio; facciano pure liberamente, e nel caso che non si trovino d'accordo, sia permesso anche a me di fare un'offerta. Spero che la mia presenza non rechi disturbo.
— Nulla affatto, anzi la ci fa piacere — disse il Gentilini assumendo un piglio piú fiero, perocché il concorso del nuovo compratore, era come una potentissima leva per fare montare il prezzo piú in alto, e la sua vanità gli faceva credere certo che si sarebbe immortalato nel compimento del negozio commessogli.
Lo sventurato Sandro, dopo d'avere osservato e squadrato il vecchio con quel suo occhio che non falliva mai nel giudicare il peso delle borse delle persone, diceva fra sé: — Ci veggo del buio; nondimeno tutto non è ancora perduto: coraggio e giudizio.
Mentre Zanobi, che dalla piú cupa tristezza era passato alla piú aperta e cordiale letizia, seguita a calar giù le pitture, e il cavaliere Gentilini e Sandro ragionano, o a dir meglio, spropositano l'uno intorno agli autori e al valore dell'opere, l'altro intorno ai prezzi, mi pare opportuno, per la intelligenza di quel che ci rimane a raccontare della storia, di far conoscere ai miei lettori quest'uomo improvvisamente comparso, ed a qual fine è qui venuto, poiché s'indovina quasi al primo vederlo che non è trafficante di quadri.
Egli ha nome Alamanno Braccioferri. Unico fratello della contessa Beatrice, madre di Roberto, era nato e cresciuto con la rivoluzione francese. Gli sforzi, le preghiere, le minaccie del padre ch'era consigliere di stato di Pietro Leopoldo, e secondando quel benefico principe, esecrava come esso lo scoppio di quel tremendo movimento che gl'interruppe il corso delle iniziate pacifiche riforme, non valsero a frenare l'animo bollente del figlio, che corse ad iscriversi nello esercito del regno italico. Passando per tutti i gradi militari, avendo combattute tutte le guerre dove gl'italiani non solo mostrarono che l'antico valore ne' loro petti non era ancora morto, ma accennava a stupendi prodigi, Alamanno era capitano allorché un avvenimento lo rese noto al principe Eugenio, allora viceré d'Italia.
Trovavasi a caso in un caffè in Milano, accanto a certi ufficiali francesi, che avevano pur allora varcate le Alpi, e discorrevano delle cose d'Italia. Finché dissero innocui strambotti, il valoroso giovine rimase zitto, come colui ch'era assuefatto a tollerare le insolenti scempiezze degli stranieri sulle cose nostre e su noi; ma come gli udí parlare con irriverenza dell'indole degli italiani, tuttoché sapesse che siffatto spregio è una eredità gotica raccolta da' discedenti de' barbari e serbata fin'oggi — l'odio cupo, vile e feroce di chi fu già servo ed è diventato signore contro chi fu già padrone ed è cascato in basso — nondimeno sentí ribollirsi il sangue nelle vene, e gettata furiosamente sul tavolino la gazzetta ch'egli stava leggendo, mettendovi su il pugno strinto in modo convulso, volge loro gli occhi fieri, senza proferire parola cosí che pareva la immagine di Sordello che guadava
a guisa di leon quando si posa.
I francesi si accorsero dello sdegno del giovine; ma vedendosi in cinque, non solo non ne temevano lo scoppio, ma quasi a provocarlo accrebbero le contumelie, ed uno per fino ripeté, scimmiottando, le infami parole dell'imperiale padrone, il quale lusingando gl'italiani ed incitandoli a combattere le sue guerre ne' dí della fortuna, chiamavali vili ed infami, mentre in quelli della sciagura li diceva gloriosi figli di Catone e di Bruto20; ed era sangue italiano anch'egli! Il giovane non trovò piú modo a frenare l'ira sua, ed alzatosi e postosi loro contro, gridò in pura favella italiana: — Chi vi dà il diritto di calunniare il paese oppresso dall'armi vostre? Voi mentite, e basto io solo a provarvelo. — I cinque francesi gli risero in faccia, quasi lo reputassero insano; e non vedendoli muovere, Alamanno rintostava: — Voi mentite per la gola, venite fuori che basto io solo per tutti.
Alle temerarie parole ripetute con maggiore acerbità, i cinque eroi non istettero piú saldi, chi illividí, chi s'infocò il viso di rabbia o di vergogna, ed alzaronsi tutti dicendo: — Usciamo. — Mentre avviavansi verso non so qual porta della città, l'italiano incontra a caso un amico, gli narra in brevi parole il fatto, gli trasfonde in petto il proprio furore, lo invita a fargli da testimone, e come tale lo presenta agli sfidanti. Giunti al luogo indicato, combattono con le spade. Dopo pochi colpi il primo stramazza a terra trafitto mortalmente in gola. Viene fuori il secondo; Alamanno riceve una ferita; e perché, conforme notava per propria esperienza Ugo Foscolo, la vista del proprio sangue rende piú feroci nel combattimento gl'italiani, laddove avvilisce i francesi, che per esser prodi hanno mestieri di vincere, il giovine avventò tal colpo in petto al nemico che lo stese ai suoi piedi privo di vita. Il terzo, tremante, esterrefatto per la paura, mormorò alcune parole di scusa rovesciando tutta sui caduti la colpa della provocazione, mentre gli altri due erano fuggiti.
Il grido di quel fatto stupendo, che parve la disfida di Barletta ripetuta con maggiore audacia e con assai minore apparato cavalleresco, la sublime cagione che aveva mosso il giovine fiorentino a porre a pericolo la propria vita contro cinque stranieri che affettavano la insolenza di padroni, invece di destare il sentimento di vendetta negli animi de' francesi, li empì di maraviglia; la città tutta lo additava come un eroe. Il viceré anch'esso lo volle conoscere, non osò muovergli una parola di rimprovero, lo aggregò al suo stato maggiore, e gli fu sempre affettuoso e benefico. Era con lui rinchiuso nella fortezza di Mantova, allorquando, sconfitta la grande armata, e seguita l'abdicazione di Buonaparte, Eugenio barcamenava, ora intrigando con Murat che era accampato sul Mincio, ora patteggiando cogli alleati per cedere la fortezza, ed abbandonare, come poi fece, ventimila agguerriti italiani agli austriaci che s'erano insignoriti di tutte le provincie del regno. E se l'irresoluto principe avesse dato ascolto ai consigli d'Alamanno, che lo inanimiva a deporre la propria autorità — che dopo l'abdicazione del re d'Italia, era usurpata — nelle mani dell'esercito e della nazione, che lo avrebbero proclamato sovrano, forse egli non avrebbe perduto il trono, e il regno italico sarebbe rimasto nell'universale riordinamento o disordinamento europeo che ne segui, e la patria con armi sue e senza straniero in casa, avrebbe con minore spargimento di sangue e con molto minori vaneggiamenti operata gradualmente e con sicurezza la propria rigenerazione.
Caduto il regno d'Italia, tuttoché la discordia calunniatrice, che veniva studiosamente alimentata da nuovi stranieri dominatori, infuriasse a lacerare i miseri popoli, la speme che la patria sarebbe presto tornata a combattere la gran guerra nazionale, non si spense nel cuore d'Alamanno. E però reprimendo i sensi generosi dell'animo, non volle abbandonare la milizia, secondo che gli scoraggiati gli consigliavano di fare, ma passò in Piemonte, dove fu ammesso col grado di colonnello, di cui era insignito nell'esercito italico. In Torino fu uno degli amici veri di Santorre Santarosa, ma essendosi invano provato a fargli abbracciare i propri consigli, si ritrasse dall'azione dicendo: — Nel dí della battaglia mi troverete fra le prime file di fronte al nemico. — La colpevole inesperienza di Carignano che recò tanto male all'Italia — colpa di cui egli poscia gloriosamente lavossi ne' campi di Novara — e che fece esulare dalla penisola i giovani piú generosi e prodi, pose nell'animo d'Alamanno lo sconforto della disillusione; ond'egli, scorgendo la immensa tela de' Santi Alleati ordita con la corruzione e la ipocrisia del secolo, s'indusse a lasciare il mestiero dell'armi — le quali, quando non s'adoprino a tutela della patria, trasformano il soldato in carnefice — e a ritirarsi in una campagna presso i Bagni di Aix in Savoia. Quivi, comprata una vasta possessione con una villa circondata da bellissimi boschi, visse romito, lasciando scorrere lenti e tranquilli i suoi giorni a leggere le storie di tempi migliori, e a ringiovanirsi nelle gloriose geste dell'età trapassata. La villa d'Alamanno, che ritiratosi fu insignito del grado di generale, per essere asilo ospitale a' viandanti, e per il modo bizzarro con che erano adornate le stanze, e per i divertimenti che vi seguivano, in ispecie ne' mesi d'inverno, richiamava al pensiero le costumanze de' tempi della cavalleria, allorquando il signore in mezzo alla propria famiglia stavasi a udire il racconto degl'incliti fatti della storia patria.
In questo suo ameno recesso, comunque fosse larghissimo con gli ospiti, fece tanta economia che in dieci anni i suoi averi erano pressoché raddoppiati: egli era diventato un ricco signore, e il suo piú prossimo erede era Roberto Cavalcanti. Alamanno lo aveva veduto fanciullo e lo amava. Finché visse la sorella ne ebbe frequenti le nuove; ma la vita spensierata ed improvvida in cui poscia s'ingolfò Roberto, aveva interrotto quasi questa corrispondenza d'affetti. Il vecchio soldato, tenendosi offeso dal non vedere arrivare risposte alle sue lettere, ne scrisse a parecchi suoi antichi conoscenti, i quali rincarando sulle stravaganze del nipote, glie lo dipinsero come un vero giovinastro che aveva rovinato, e tra poco finirebbe di distruggere affatto la nobile casata de' Cavalcanti.
Un mese innanzi del giorno in cui seguiva la scena che stiamo descrivendo, lo zio aveva ricevuta una lettera cosí sconsolante intorno al nipote, che finalmente s'indusse ad abbandonare il proprio ritiro per venire in Firenze e vedere con gli occhi propri cose che a lui parevano incredibili. Smontato ad una locanda la sera precedente, fra gli altri fatti veri e falsi intorno a Roberto, seppe che la dimane nel suo palazzo v'era la vendita sopradescritta. Il nobile vecchio ne provò acerbissimo cordoglio, e fu tanto lo sdegno che gli nacque in cuore, che cedendo alle abitudini militari di fucilare la gente lí per lí sul tamburo, prese una penna per diseredarlo. Ma Roberto era il figlio della sua sorella, ch'egli amava piú di se stesso: ella glie ne aveva sempre lodata l'indole, il gran cuore, la gentilezza, ella glie lo aveva dipinto come un giovine eroe; ed era possibile che lo affetto materno le avesse cosí travolto il giudicio? E non sarebbe stata cosa piú naturale spassionarsi con lui delle imperfezioni del figlio? Roberto quindi poteva non essere d'indole riprovevole, secondo che glie lo avevano descritto, avrebbe forse commesso qualche sventataggine, si sarebbe lasciato trascinare; e non si potrebbe rimetterlo nel sentiero dell'onore, e perché no? — Si corra, si corra — esclamò il vecchio generoso — io voglio salvare ad ogni costo il nobile figlio della mia adorata sorella.
E però giunse a tempo al palazzo, dove trovò principiata la riferita scena, la quale gli diede un brivido di sorpresa. Il non trovare il nipote presente, il vedere un affare di sí grave momento affidato ad un cervello leggiero quale era il Gentilini, gli faceva credere maggiore e piú riprovevole la insania del nipote. Dopo di essere stato lungo tempo ad ascoltare le scempiataggini del cavaliere, non che le grossolane furberie di Sandro Imbroglia; quando costoro si furono determinati di venire alla conclusione del negozio, e l'uno calava la domanda fino a trecentomila lire, compresi anche libri, manoscritti e disegni, e l'altro si ostinava sulle centomila, e disse: — Sor cavaliere, con lei non si conclude nulla; vado via, e parlerò col conte — il Gentilini sentendosi offeso, si rivolse al vecchio signore dicendogli: — Oramai ella può manifestare le sue intenzioni, che a questo cane non v'è da fargli intendere ragione...
— Ma, sor cavaliere, — urlò Sandro Imbroglia — la badi con chi la parla...
— Con te — rispose Gentilini — col primo ministro del primo ladro da galera che vi sia in tutte le quattro parti del mondo. Non ti basta d'avere consunto il patrimonio del povero Roberto, ed ora vuoi anche levargli l'ultima tavola che gli rimane in tanto naufragio? Va' via, vanne al diavolo, figlio di cane — si vede che il cavaliere era nato in Livorno — se no ti fo saltare dalla finestra.
Sandro impaurito, massime che vedeva gli occhi del vecchio scintillanti di rabbia, e Zanobi che fremeva e con un martello in mano armeggiava, strintosi nelle spalle, se ne andava senza alitare.
Alamanno senza domandare chi fosse quello sciagurato, aveva udito troppo per accorgersi che era il satana tentatore del nipote, il mezzano di qualche sgozzino; e rifattosi tranquillo, a Gentilini che dopo di avergli chiesto scusa della collera da cui erasi lasciato trasportare, gli diceva: — La faccia, se le aggrada, la sua offerta — rispose: — Io son pronto a dare le trecentomila lire ed anche di piú se la lo crede, poiché io sono onesto amatore delle arti e compro con coscienza.
Il cavaliere senti invadersi il cuore di contento, e raddoppiando le cortesie al vecchio, disse: — La faccia lei: io aveva chiesto trecentomila lire, non perché il prezzo fosse questo, ma perché in ogni modo la vendita doveva compirsi dentr'oggi: se poi la crede di aggiungere qualche coserella di più, ci rimettiamo alla sua giustizia.
— Sta bene: quadri, libri, manoscritti, disegni stanno per me; il prezzo lo stabilirò poi col conte; per ora firmo un'obbligazione di trecentomila lire. — E scrisse, e consegnò il foglio al Gentilini; il quale fattogli un profondissimo inchino, si avviò verso le stanze di Roberto.
Appena il cavaliere fu partito, Zanobi lasciando libero il freno agli affetti del proprio cuore, afferrò la mano di Alamanno e cominciò a baciarla a piú riprese, bagnandola di lagrime e mormorando: — O signor generale! Proprio lo manda la provvidenza per liberarci da tanti affanni, per aiutare il mio povero conte che è infelicissimo.
— Dov'è, dov'è quello sciagurato? Dunque è vero quanto mi hanno detto? Dunque ha rovinata la casa? È ridotto alla miseria, si è disonorato?
— Oh questo poi no! signor generale, e chi glie lo ha detto, ha mentito: il figlio della sua nobile sorella, il sangue della contessa Beatrice non poteva maculare il proprio onore; e chi glie lo ha detto, ha mentito.
Il sentir rammentare il nome della sua diletta sorella da colui che le era stato sempre servo fedele ed affettuoso, ammansí l'animo irritato del vecchio militare; in quel momento egli avrebbe voluto vedere Roberto non per rimproverarlo, ma per gettargli le braccia al collo e coprirlo di caldissimi baci. Gli occhi sintillanti di Alamanno si umettarono, e la tenerezza del cuore gli si dipinse sul volto. Allora, tratto da canto Zanobi, e fattoselo sedere di contro, si fece raccontare le avventure del nipote, cioè quelle concernenti le faccende domestiche di lui, imperocché il fido servo non sapeva nulla degli arcani amori con l'Amalia. L'amoroso zio ne gemé, ma racconsolossi ch'era arrivato in tempo per trarre Roberto dal precipizio, sull'orlo del quale passeggiava spensierato e non curante. E quindi, fatto comandamento a Zanobi di tacere del suo arrivo fino al dí dopo, fece ritorno all'albergo dove era alloggiato.
Zanobi quando fu solo, volgendosi intorno alle pareti, spoglie di loro ornamenti, ed ai quadri sparsi qua e là, cominciò a vagheggiarli come cari parenti che si credevano perduti per sempre ed inaspettatamente si riacquistino, ed abbandonò la stanca persona sur una seggiola a lacrimare dalla gioia che gli traboccava nell'anima.
Nota del Torcoliere
inserita col permesso dell'autore.