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Beppe Arpia, Ignazio Gesualdi, e la marchesa Eleonora stavano un giorno innanzi al letto dell'Amalia la cui infermità facevasi sempre piú grave. Lo strozzino mentre sbadatamente muoveva parole di condoglianza, computava; il negozio del matrimonio gli pareva un affare mezzo sciupato: lo scoraggiamento gli si leggeva sul viso. Il sanfedista se ne accorse, lo condusse nelle sue stanze, e si pose studiosamente a confortarlo.
— In fin de' conti, io ci veggo del buio e dimolto — disse lo strozzino dopo d'essere stato lungo tempo ad ascoltare le furberie dell'amico.
— Ma tu esageri le cose, mio caro Beppe: i medici assicurano che la crisi è vicina a seguire, e seguirà sicuramente; il male quando si appiglia ad un corpo giovane, dovendo lottare col vigore del temperamento, mostra sintomi che in apparenza si manifestano piú pericolosi di quello che siano in sostanza: stai pur sicuro, appena seguìta la crisi, la marchesina si rimetterà; i dottori dichiarano che la convalescenza sarà brevissima. E' si potrà fare il matrimonio appena la fanciulla sarà alzata da letto.
— Come! Avresti forse mutato pensiero?
— Non ho cangiato pensiero; ma che vuoi ch'io ti dica? La mia casa in fin de' conti non è uno spedale; io non sono per nulla disposto a mettermi un cerotto in famiglia: non foss'altro i medici e gli speziali mi divorerebbero quel po' di roba; ed avrei fatto un bel negozio davvero.
— Io rimango di sasso! Ma, Beppe, o dove hai tu messo il cervello? Che fisime son queste che ti girellano per il capo?
— No che non son fisime: io ho sempre saputo fare i conti miei...
— E' si vede che oggi è la prima volta che tu li faccia male. O che vorresti metterti alla berlina di tutta Firenze? Dove s'intese mai che per un caso passeggiero sopraggiunto non si sa come, cosí all'impensata, si rompesse un solenne contratto di nozze? La marchesina, che tu voglia o non voglia, è sposa del tuo figliuolo; ormai la è piú roba tua che nostra.
— No davvero; io ve la lascio a voi: io la compravo per roba buona, e se la si trova in cattivo stato, il rimedio e' c'è: si scioglie il contratto.
Coteste e simili altre sozzure vomitavano que' due sciagurati sopra l'Amalia, i quali senza nessun velame co' nudi vocaboli del mestiere le davano il pretto valore d'una mercanzia! Lo strozzino per piú notti non aveva potuto chiudere occhio; scervellavasi a sommare le spese fatte: lo sposalizio del figliuolo parevagli come un naviglio naufragato, e se non v'era da farne piú conto, ne voleva almeno ricuperare le reliquie. E sebbene i medici — non i carbonari sospetti, che avrebbero abborrito dall'ingannarlo — ma i tre sanfedisti che abbiamo veduto tempo fa, imbeccati dal Gesualdi, lo rassicurassero, giurando a nome di Dio e de' santi, che la infermità della fanciulla altro non era che una scalmana continuata, che sarebbe presto sparita senza lasciare il piú lieve vestigio; nondimeno egli, avvezzo da tanti anni a credere piú a se stesso che agli altri, non ingozzava i detti de' medici, e pativa un travaglio mentale affannoso onde trovare un mezzo per uscire onorevolmente d'impegno.
Avendone susurrato qualche frase ambigua, qualche parola gettata cosí con disinvoltura, ad Ignazio, costui, piú furbo, lo aveva sempre rimesso in careggiata. Ma e perché le cose gli parevano trascinarsi troppo in lungo, e perché quel giorno l'Amalia sembrava maggiormente spossata dalla febbre ch'era vicina a dar volta, e lo strozzino pensava che ella da un'ora all'altra dovesse spirare, pose da canto ogni incertezza, e ne nacque il ragionamento cui abbiamo sopra accennato.
Quando Ignazio credeva d'averlo persuaso, e Beppe simulava di cedere alle ragioni dell'amico per avventare con maggiore efficacia il colpo che da piú giorni meditava, disse:
— Scusami, sai, mio vecchio amico; il dolore di vedere la giovinetta in quello stato lí, mi ha fatto parlare in questo modo: non so quel ch'io mi dica; in fé di Dio, non puoi immaginare come è grande la pena che mi fa al cuore: la consideravo già come mia figlia, me la vedevo girare per la casa, me la figuravo seduta a tavola accanto al mio povero figliuolo; ed ora...
— Ed ora bisogna avere un po' di pazienza, e tutte codeste dolcezze di famiglia le avrai tra breve. Coraggio! Beppe, non è nulla: vedi! Se fosse un affar serio, io dovrei essere piú afflitto di te, perché la marchesina è come mia figlia, e nonostante mi vedi tranquillo: non è nulla, ti ridico, a nome di quell'amicizia, di quell'amore disinteressato ch'io ti porto; dormi tranquillo, tra poco si farà il matrimonio; e' si sposeranno nella cappella di casa.
— Dio lo voglia: null'altro desidera cosí ardentemente il mio cuore. — E fittosi il cappello in capo, come se volesse partire; poi fatti due passi e ritornando subito addietro, quasi si fosse dimenticato di qualcosa, disse: — O appunto me n'ero scordato di... ma se non ho piú testa!... Vorrei per un giorno o due il finimento delle gioie...
— Come! Che intendi tu dire? — esclamò Ignazio, fattosi pallido a quella domanda, che gli arrivava come un'archibugiata al petto di un viandante che vada per i fatti suoi.
— A che giuoco si giuoca? Io non ci capisco nulla o che domanda l'è questa?
— La cosa piú naturale: siccome io volevo aggiungere altri tre o quattro brillanti, ma veramente belli, al finimento, il gioielliere al quale ne avevo parlato, e che non ha mai un momento di tempo, venne ier sera da me, annunziandomi che in questi giorni avrebbe tutto l'agio per fare il lavoro. Credi, è solo per far piacere al mio figliuolo, che darebbe tutto il suo sangue per la sua cara sposa.
Il pretesto, allegato dallo strozzino, il quale, come chiaro si vede, non aveva avuto tempo di maturarlo, piallarlo, verniciarlo in guisa da renderlo passabile, e forse lo improvvisava lí su due piedi, era troppo balordo per un volpone come Ignazio; il quale improvvisando anch'egli — Arcades ambo — una risposta, disse: — Non aver paura; e' ci sarà tempo: adesso non mi pare opportuno.
— O perché? Tra noi...
— Se la faccenda dovesse passare tra me e te, sarebbe nulla; ma ci sono due gravissimi inconvenienti di mezzo. In primo luogo la domanda alla marchesa arriverebbe come un colpo di fulmine improvviso, parendole la cosa piú strana del mondo che le venisse tolto di mano un dono fatto dallo sposo alla ragazza: le parrebbe che tu volessi rompere gli sponsali, ed in questo caso sarebbe dell'onor suo renderti, e mandarti a casa fino l'ultimo spillo. Ma adesso ne nascerebbe un buscherio; la tua azione sarebbe reputata sudicia e villana, e domattina non potresti uscire per Firenze senza che tutto il popolo e il comune non ti ridesse in faccia. In secondo luogo bisogna che tu sappia che la marchesina, appena che la febbre le lascia un momento di tregua, domanda sempre di vedere le gioie, e bisogna portargliele al letto, povera creatura! E ti assicuro che la vista di que' belli diamanti le fa piú bene che tutte le droghe che le fanno ingozzare questi ciuchi dottori. Sicché se non avesse piú i brillanti, ne sentirebbe tanto dolore, che, com'è vera la morte, ne morirebbe di subito. Quindi, caro il mio Beppe, vedi che non è affare.
— Ma sanguedimmio!...
— Non t'inquietare: non si è discorso di nulla; non ci siam visti: tu sei un uomo ragionevole. Appena ristabilita la marchesina, anche prima che si sposino, ti si renderà il finimento per arricchirlo d'altre gioie, e' ci avrà gusto anch'ella non dubitare: tanto meglio. Via, stai tranquillo e addio, che la marchesa mi aspetta.
La difesa non fu meno goffa e inconcludente dell'attacco.
Lo strozzino andandosene mormorava sottovoce — Tornerò all'assalto: picchia e ripicchia, i diamanti hanno a ritornare nelle mie mani: sí, un ci vorrebb'altro! Un tesoro come quello! — E tristo e pensieroso avviossi verso il banco.
La strana richiesta dell'Arpia produsse una subitanea e violenta rivoluzione nell'anima nera del Gesualdi. Da qualche tempo egli ruminava certi suoi cupi disegni: ma mille dubbi gli attraversavano il cammino, quasi gli dicessero: non è anche tempo — ed egli da savio tornava indietro. Ma l'ultimo colloquio con lo sgozzino, e soprattutto la terribile dimanda delle gioie, dissipò tutti que' dubbi, ed il sanfedista nella sua alta sapienza decise di tirare innanzi ad ogni costo, dicendo: «Qui non c'è piú tempo da perdere, un'ora sola d'indugio potrebbe rapirmi il frutto di tanti affanni e di tante fatiche». Ed alzando gli occhi al cielo, con le mani incrociate, sembrava che mentalmente pregasse; ma il tristo in quell'attitudine pensava al cardinale di Richelieu, che affermava di correr sempre diritto allo scopo, rovesciare tutti gli ostacoli, e poscia gettarvi sopra il suo manto rosso; il sanfedista in vece del manto rosso avrebbe adoperata la cappa nera dell'ipocrisia.
Determinò: ma da quel giorno in poi, egli che aggirandosi per l'intricato e buio laberinto del mondo era sempre uscito d'impaccio, ed andato sempre di bene in meglio, prese un viottolo, in fondo al quale gli pareva vedere la fortuna che gli stendesse le braccia, mentre era la forca che tra le ombre del futuro rendeva sembianza di cosa ritta e vista a traverso d'un denso vapore.
Se a me talentasse di procedere per via di sorpresa, di conquidere le menti de' miei lettori svogliati con ripetuti colpi di scena — di quelle scene che in un attimo dal cielo ti trasportano alla terra, e dall'inferno alle regioni dell'aria, l'occasione qui mi si ficca fra' piedi proprio da sé senza ch'io debba fare un passo per afferrarla. L'effetto del mio racconto sarebbe centuplicato, i lettori chiuderebbero il libro sotto l'impressione di un quadro inaspettato, e piú d'uno forse mi batterebbe le mani. Ma avendo fin da principio promesso di raccontare una storia vera in stile casalingo ed in povera prosa, dacché nella letteratura io ammetto la distinzione delle forme e dei generi, e non mi sono potuto assuefare alla moda dei pasticci d'una prosa poetica e di una poesia prosaica, seguirò l'ordine dei fatti, ed innanzi di tratteggiare i tribolati ultimi giorni dello strozzino, ripeterò come il Gesualdi nelle sue relazioni con esso erasi proposto lo scopo di pappargli se non tutti, gran parte almeno de' suoi tesori. Il primo passo che, secondo egli pensava, lo doveva condurre a quel fine supremo, era il matrimonio mostruoso tra Babbiolino e l'Amalia; ed abbiamo nelle cose sopra narrate ammirata piú volte la destrezza ch'egli mostrò nel condurre un negozio che pareva impossibile. Mentr'egli reputavasi trionfante di tutti gli ostacoli, un giorno salta il ghiribizzo alla Morte di picchiare all'uscio di casa Pomposi, e di chiedere l'Amalia. Il sanfedista sapeva bene che la Morte non è come il riscotitore delle tasse dello stato, che con un po' di giudizio si può, quando il pagare incomodi, mandar via, ed ottenere che attenda a piú tardi; non è come il banchiere che presentandoti una cambiale, e tu non pagandola, il piú gran male che possa farti è quello di protestartela e spiccare un mandato d'arresto: la Morte è un autocrate che non intende ragioni, quando picchia, bisogna lasciarla entrare; talvolta i medici arrivano a afferrarle il braccio, ma quando dice davvero, in un battibaleno si svincola da loro e mena la falce, mietendo di pieno suo diritto, come un contadino nel proprio podere. Questa era, né piú né meno, l'opinione che il Gesualdi aveva della Morte; avrebbe potuto apporre il voto a qualche santo, ma gl'ipocriti predicano fede, mentre non ne hanno un briciolo, e sono fatalisti puri. Ignazio pensava: «Se l'Amalia è destinata a morire, morrà di certo, e non v'è rimedio». E perché i suoi pari operano giusta la massima fondamentale: bisogna sempre pensare al male, perché al bene c'è sempre tempo — considerava l'Amalia come cosa morta.
Ciò posto, prego il lettore a richiamare alla memoria quel personaggio che apparve improvvisamente all'Arpia nel banco21 e lo empí di terrore, annunziandogli che sarebbe tornato a prendere quindici mila lire; noi non lo abbiamo piú riveduto, ma egli mantenne la parola all'ora fissata, ed allo strozzino che contogli la somma richiesta aggiungendovi qualcosa per soprappiú, lasciò una ricevuta dove si chiamava pagato in tutto e per tutto riguardo al negozio che pendeva fra loro: la ricevuta, come vedete, era formulata in termini generali, era uno scarabocchio attaccabile da tutti i lati, ma non si poteva fare altrimenti, attesa l'indole del negozio, ch'era questo.
Certi dilettanti d'iconografia di diverse parti d'Italia, o perché fossero stanchi di farla a' pugni con la nemica fortuna, e vi fossero rimasti con le spalle rotte, o perché si sentissero prepotentemente trascinati dall'istinto di fare i signori, pensarono di foggiare un certo numero di polizze di banca, cioè di Banknoten dell'impero austriaco. La contraffazione fu maravigliosa in modo che se nella vasta Esposizione di Londra ci fosse stata una classe destinata a premiare gli oggetti di quella specie, avrebbe ottenuta la grande medaglia. Cominciarono a farne circolare qualcuna, che faceva il suo corso per le banche e le case di commercio senza il minimo disturbo: ma perché il numero era grande, e gli industri colleghi avevano ardentissima voglia di convertirle in moneta sonante nel piú breve tempo possibile, appunto perché in simili faccende la riuscita o la rovina dipende in massima parte dal tempo, andavano in cerca di qualche banchiere o commerciante ricco, nelle cui mani la somma di un qualche milione sarebbe stata cosa ordinaria, non sarebbe stata altro che un milioncino, come dice un tale.
Il rompicollo, cui alludiamo, conosceva Beppe Arpia, avendogli fatto da sensale in certi affaracci imbrogliati di cambiali contraffatte, e s'era condotto da maestro in guisa che se l'Arpia fosse stato un principe di corona, l'avrebbe decorato del gran cordone dell'ordine cavalleresco piú insigne dello stato. In grazia di cotesta domestichezza, abboccatosi con lo strozzino, non penò molto a trarlo all'affare; e quindi fra loro fu convenuto ch'egli negozierebbe trecentomila fiorini di banconote, e del ricavato metà, netta di spese, sarebbe dell'Arpia.
Costui in meno d'una settimana negoziò le polizze; i falsari accertatisi della cosa, richiedono i centocinquanta mila fiorini, ma Beppe nega di avere ricevuto nulla da loro, anzi protesta di non averli mai visti né conosciuti.
Il rompicollo due giorni dopo gli si presenta; Beppe Arpia gli voleva fare l'uomo addosso; ma colui freddo come un masso di ghiaccio, si cava un pugnale di sotto al vestito, e ponendoglielo alla gola e minacciando di freddarlo se osasse muoversi, gli offre una transazione. Beppe, impaurito, accetta: e fu tra loro segretamente convenuto che gli altri rimarrebbero esclusi, e che egli — il rompicollo — riceverebbe di quando in quando dalla cassa dello strozzino qualche centinaio di scudi in via di gratificazione obbligatoria.
Difatti lo strozzino cominciò col porgli in mano, quel giorno medesimo, un migliaio di lire; ma il rompicollo si tuffò col coraggio di Curzio nello abisso di tutti i vizi, e massime si scapestrò a giuocare sí che pareva un tedesco dopo il saccheggio d'una città conquistata. La borsa di Beppe durò a buttare finché le richieste dell'uomo furono tanto numerose ed enormi, che lo strozzino stancossi, gli diede una somma per l'ultima volta e lo mandò a passeggiare in Turchia. Si è già veduto come, giunto appena a Marsiglia, ritornasse a Firenze: però lo sgozzino riempitogli il sachetto, lo fece accompagnare fino ad Ancona, dove colui s'imbarcò sopra una nave ionia, che veleggiava verso Alessandria.
La nave era a mezzo l'Adriatico, allorquando si scatena una furia di vento che la ricaccia in fondo al golfo; e il rompicollo invece di sbarcare in Egitto, prese terra a Venezia, che l'incantò come una bella donna, quasi gli dicesse: «Rimani qui nel mio seno e godi la vita».
Quivi dopo pochi giorni il sacchetto datogli dall'Arpia, rimase asciutto: due sole sessioni ad un tavolo da giuoco gli portarono via fino all'ultimo soldo. Gli restavano parecchie delle false banconote dapprima gli nacque una grave difficoltà intorno al luogo; Venezia non gli sembrava una città opportuna alla circolazione di quegl'illegittimi fogli; ma il bisogno, e come il buon Parini lo chiamava, il tiranno de' miseri mortali, che dando un calcio alla ragione ammorza ogni lume all'intelletto, e lo trascina a forza verso la scesa del male, lo persuase a vestirsi elegantemente come un signore e recarsi ad un banco dove presenta una polizza di mille fiorini. Il banchiere prende la banconota, la esamina e nel fissare gli occhi sul numero d'ordine, gli nasce il sospetto di averne poco innanzi negoziata un'altra segnata del medesimo numero. Senza far vista di nulla, senza mutarsi minimamente di colore in viso, simulando che il cassiere fosse andato a far colazione, prega il signore a voler tornare fra mezz'ora che avrebbe trovato i mille fiorini lí pronti e contati. Fatto il raffronto, si convince della falsificazione, manda ad avvertire la polizia, la quale appena il rompicollo si presenta all'ora fissata, lo chiappa e senza chiasso lo conduce via come roba di sua pertinenza.
Seguí il solito interrogatorio, e il galantuomo duro e freddo come un marmo a negar sempre; ma perché i governi de' tempi nostri sono gelosissimi della carta moneta, la quale se cadesse in discredito, non li lascerebbe ritti né anche tre giorni, il colpevole fu gettato ne' famosi Piombi di Venezia, senza far tante parole, tranne un brevissimo argomento, che per essere crudele e disperante, fu da' dialettici chiamato cornuto, come se fosse stato inventato dal diavolo, un dilemma, in fine, — o confessare o rimanere sepolto vivo ne' Piombi — Piombi! Terribile parola che agghiaccia il sangue, mozza il respiro, e che al malarrivato rompicollo sturò la gola e lo mosse a raccontare tutta la storia della famosa falsificazione, e per abbellimento del quadro v'introdusse la figura di Beppe Arpia, non qual accessorio o episodio o cosa messa lí per tappare un pezzo di fondo che rimaneva vuoto, ma come protagonista, vale a dire lo presentò come inventore e direttore della speculazione.
Naturalmente il governo veneto ne scrisse al toscano; e mentre la lettera officiale viaggiava per la posta, Ignazio Gesualdi, quel giorno medesimo, in cui il malaccorto strozzino aveva commessa la imprudenza di ridomandare i diamanti, andò a denunziarlo alla polizia; avvertendone, secondo era suo costume nelle faccende intricate, uno dei bassi agenti, a lui devotissimo e fedele a tutta prova. Costui facendosi onore della scoperta, sognò una splendida promozione, e gli parve di toccare con mano una gratificazione larghissima. In questa arriva la lettera di Venezia, e lo assalto della casa e la cattura dello strozzino fu decretata. Il fido agente avvertí Ignazio che il colpo doveva seguire la sera verso mezzanotte; e il sanfedista diede anticipatamente un sacchetto al capo della spedizione, il quale gli promise che avrebbe manovrato a seconda di certi segni fra loro preconvenuti, dacché Ignazio doveva in quell'ora fatale trovarsi sul luogo della scena, onde impossessarsi della vita di Beppe Arpia.
Era una notte torbida, procellosa e nera. Lo strozzino verso le ore dieci s'infilò dentro il letto in compagnia della casta ed amata consorte. Il letto era spazioso; l'uno occupava la plaga aquilonare, l'altra la meridionale: russavano tranquillamente, ciascuno a conto proprio. Era di poco trascorsa un'ora, allorché l'Arpia manda un urlo orrendo saltando a mezzo il letto, e vi si asside brancolando con le mani quasi ad assicurarsi che fosse proprio lí nel suo letto, in casa sua, e non altrove: le tavole scricchiolarono, i trespoli fremettero come ad una violenta scossa di terremoto. La donna, nonostante che avesse il sonno ferreo, in ispecie nelle ore prime della sera, si desta spaventata e domanda tremando cosa fosse seguito: pensava la sciagurata che al marito fosse venuto un moto apoplettico. Beppe non rispondeva, e mandando dal petto ansante un rantolo sordo e cupo, seguitava a brancicare attorno.
Dopoché si fu rassicurato, esclamò: — Buscherato! Gli è stato un sogno. Accidente ai sognacci, sanguedimmio!
— Accidente a te che bestemmi come un ladro, brutto animalaccio — urlò la donna — che non mi fai avere un momento di riposo né anche la notte: dormivo tanto bene, e questo vecchio pazzo viene a rompermi il sonno nel piú bello, guardate!
— Zitta là, stirpaccia di donna. O che volevi che non avessi paura, se sognavo che mi stavano impiccando? Ohi! Ohi! Il collo mi duole come se fosse stato vero...
— E' non vorrà essere un sogno, sai: io ho paura tu non t'abbia a trovare un bel giorno fra le mani del boia. Ogni volta che penso ai tuoi imbrogli, alle tue birbonate, io piango, non per te che non meriti nulla, anzi meriti peggio; ma per quella creatura...
— Non ti vuo' tu chetare, linguaccia di vipera?
— No, che non mi cheto; io anzi ho avuto torto a non dirtelo chiaro e tondo quand'era tempo, come mi consigliava sempre il mio confessore, gli era un dovere ubbidire al marito, ma nelle cose giuste e non nella bella parte che mi hai fatta fare piú volte... allora ch'ero giovanina e fresca ed avevi bisogno di me per... ed ora sogni che t'impiccano bene anche ti stia...
Mentre i due sposi innamorati seguitavano questo tenero diverbio, si sente picchiare all'uscio di strada: non rispondendo nessuno, i picchi raddoppiano, e il modo era tale che i famigliari di Beppe furono costretti a levarsi. La mezzanotte era appena battuta. Il servo che aveva domandato chi fosse e che volesse tutta quella gente, corre piú morto che vivo alla stanza del padrone, e gli dice che la polizia con piú di mille uomini armati d'archibugi, di picche, e di cannoni — la fantasia del pover'uomo girava a guisa di mulino a vento — era innanzi l'uscio e voleva entrare.
Beppe rimane come colpito di paralisi, storce la bocca, straluna gli occhi; la moglie si sviene: il misero si rammentava del sogno e pensava che lo avrebbero impiccato davvero. Che fare? Buttarsi dalla finestra, nascondersi in qualche buco? Ma se assaltano la cassa forte, e non trovando il quattrinaio, catturano i quattrini... Dio! Che non sia mai: gli amati francesconi, tanta argenteria, tant'oro, tanti tesori sparsi per la casa! Meglio lasciarsi scorticare, lasciarsi fare in minuzzoli. Questi pensieri gli tumultuavano dentro il cervello e lo tenevano perplesso. Ma i picchi ricominciano, incalzano, tempestano; la polizia fa un diavoleto.
— Presto, sor padrone, — diceva piú spaventato il servo — la mi dica cosa ho a fare, cosa ho a dire, perché stanno per buttare a terra la porta: per Sant'Antonio benedetto, la mi dia retta...
— Va' ad aprire — rispose Beppe con una voce da ventriloquo. E salta dal letto in mutande, s'infila alla rovescia una casacca, e senza calze, senza scarpe si pone a girare per la stanza, urtando ora qua ora là a guisa di briaco... non sa cosa fare: momento tremendo! Ahi! dura terra perché non t'apristi ad inghiottire lo sfortunato sgozzino e salvarlo con tutti i suoi tesori dentro le tue viscere?
Mentre il disgraziato era in braccio alla disperazione, privo d'ogni consiglio, e non osava invocare l'aiuto di Dio, in cui aveva fede poca o punta, eccoti apparirgli in camera Ignazio Gesualdi, pallido, tremante, ansante.
Allo strozzino sembrò una visione, e diede due passi indietro tentennando in guisa che gli fu forza sostenersi all'angolo del letto, e gridò: — Ignazio!
— Beppe!
— Sanguedimmio! Che cosa è ma' questa? — Il tristo bestemmiava anche nella sciagura.
— Presto, vieni meco; ficcati nel piú remoto nascondiglio della tua casa...
— Ma dimmi...
— Ti dirò tutto tra poco: ringrazia il cielo ch'i' mi ci sia trovo io... se no, tu eri bell'e accomodato per le feste: proprio fu provvidenza di Dio; subito, nasconditi, e lascia fare a me, che con l'aiuto divino ti caverò d'impaccio.
Lo strozzino senza fiatare svolta un grande specchio, dietro il quale era una porticina nella parete: la schiude con tre chiavi, vi si intana e la richiude. Rimesso lo specchio, pareva che il muro avesse inghiottito l'Arpia. Ivi stava la sua cassa forte, immensa tomba di sacchi di monete d'ogni misura, scelte e lucenti e di buona lega. L'Arpia al buio si prosterne e l'abbraccia con l'affetto d'una madre amorosa che voglia scampare da un imminente pericolo la sua tenera creatura, il caro frutto delle sue viscere; e cosí prostrato, con le braccia stese sul tesoro, sente il calpestio di una turba, che a lui parea, come era parso dianzi al servo, un esercito d'un migliaio di masnadieri. La donna cinque minuti prima dell'invasione erasi riavuta, forse per effetto dell'apparizione d'Ignazio, il quale le avvertí, che a qualunque dimanda le venisse fatta, rispondesse sempre che il marito era andato quella sera stessa in campagna in una sua villa verso Arezzo.
La Polizia intanto, lasciate due guardie alla porta, e collocatene parecchie altre fuori perché invigilassero, giunta in sala, chiede al servitore: — Il signor Giuseppe Arpia è in casa?
Il servo risponde di non ne saper nulla, ma poterne interrogare la padrona ch'era a letto. La Polizia, che non ha sesso, voleva violare la stanza da letto della signora strozzina; ma Ignazio fece considerare come non fosse convenevole sorprendere una gentildonna in quello stato, e che le si dovesse dar tempo di levarsi. Le parole del Gesualdi furono una lezione di galateo alla Polizia, che si persuase ad aspettare.
Dopo un quarto d'ora la povera donna, levatasi e comparsa con un viso che metteva paura, co' capelli arruffati, coperti d'una sudicia berretta pendente tutta da un lato e slegata sotto il mento, involta in una sottana che pretendeva d'essere bianca, raccolta goffamente tutta in un fianco; pareva una fantasima da far paura ai bambini. Non potendosi sostenere sulle gambe, si distese semiviva in un'ampia e vecchia poltrona, posta accanto al letto, nella quale soleva, appena alzato, ogni mattina sdraiarsi il marito facendosi lo esame della coscienza, vale a dire inventando o ruminando gl'iniqui disegni che egli doveva colorire nella giornata.
Interrogata, appena ebbe fiato di ripetere le parole postele in bocca dal Gesualdi, e non parlò piú.
La Polizia cerca, fruga, fiuta, annusa, brancica, annaspa in ogni angolo, in ogni buco della casa: Beppe non si trova. Richiede di vedere il portafoglio, e dietro una strizzatina d'occhio d'Ignazio, piomba sur un cassetto, ne rompe la serratura e trova parecchie banconote: se ne impossessa, eseguisce le solite formalità, lascia tanti saluti a casa e va via.
A cotesto fracasso successe un silenzio da camposanto: non si sentiva un passo di persona viva, anche il vento era cessato: la casa di Beppe pareva il regno della morte. Appena udí riserrare il portone, Ignazio solleva lo specchio, e picchia all'usciolino dicendo: — Vieni fuori.
L'Arpia aprí l'uscio e comparve con gli occhi stralunati che gli schizzavano dall'orbite, pallido, magro, invecchiato, che pareva Lazzaro nell'atto di uscire dal sepolcro. Sporge fuori la testa coperta infino alle orecchie da un berretto da notte, la volge attorno la stanza, e mentre Ignazio gli ripeteva: — Vieni avanti, vieni pure; stai tranquillo; sono andati tutti via — Beppe salta giú, e tonfa come un masso: pareva fosse diventato sordomuto, non poteva profferire parola: ma con gli occhi pieni di paura interrogava Ignazio, il quale rispondevagli: — Calmati: or ora ti racconterò la cosa, cioè tutto quel che so della cosa per adesso. Vedi! Quando il diavolo manda una sciagura, c'è sempre un angiolo pronto a prestare soccorso, tale quale come un pompiere. Fu fortuna, prima ch'io mi trovassi per caso a passare di qui; poi che il commissario fosse un vecchio amico mio, che condusse le cose con quella moderazione che da altri non si sarebbe potuta sperare nemmanco a mettergli, vedi a dir poco, un migliaio di scudi in mano.
— Ma mi dici un po' cosa significa questa scena? — disse l'Arpia che aveva cominciato a poter muovere le labbra.
— Ti dirò quel che per ora ho potuto sapere cosí alla sfuggita. — E qui cominciò a narrargli come per un dispaccio del governo di Venezia egli fosse stato denunziato dal rompicollo, il quale non era andato altrimenti in Turchia, e che dovesse essere arrestato. Nonostante, per quella notte stesse tranquillo; il dí seguente avrebbe indagato lo stato vero delle cose, e si sarebbe convenevolmente provveduto: finché era nelle mani d'Ignazio, egli non avrebbe nulla da temere; e concluse accomiatandosi: — Dormi dunque in santa pace, come nulla fosse stato. — E via.
Come Beppe Arpia udí che il rompicollo era cascato nelle reti del governo austriaco, sapendo di quali enormezze fosse capace quel tristo, come si accorse che tutte le banconote erano state sequestrate dianzi nella perquisizione fattagli dalla polizia, perse ogni speranza, gli parve giunta l'ora tremenda del rendiconto d'una vita ch'era un mosaico di fatti scellerati, gli parve d'essere in agonia e disponevasi a far testamento.
In che modo egli passasse la notte lo lascio pensare a coloro fra' miei lettori, che si fossero trovati in un'agitazione morale simile, in uno di quel momenti della vita, quando talvolta il buio lascia l'uomo co' capelli bruni, e l'alba lo trova canuto. Mentre lo strozzino lottava e abbandonavasi spossato e privo di speranza in braccio alla sua sciagura, Babbiolino dormiva come un ghiro, dormiva il sonno degli innocenti: non lo avrebbe desto né anche il cannone di San Paolo.
Notte d'inferno! A Beppe pareva che all'Aurora fosse venuto un accidente in mezzo al cammino; un poeta mezzo romantico e mezzo arcadico avrebbe fatto immaginare all'Arpia che i cavalli del sole non andassero di galoppo, secondo il consueto, ma fossero arrembati o zoppicassero. Nelle prime ore del giorno, lo sgozzino, tremante di spavento, rimase come Caino nel buco piú recondito di casa: aveva anche paura che l'aria non lo scoprisse e ne avvertisse la polizia. Ignazio misteriosamente gli mandò il seguente fogliolino diretto alla moglie:
Dica alla nota persona che non posso venire fino alle ventitre per non avere ancora terminato, come speravo di fare, e come farò ad ogni costo, il negozio. Intanto stia tranquilla che tutto va benone con l'aiuto di Dio benedetto. La riverisco, ed a rivederci oggi immancabilmente alle ventitre.
Devotissimo per la vita
L'Arpia lesse la lettera e provò un pocolino di conforto. A desinare non ebbe appetito: il cibo gli faceva nodo in gola e non poteva andargli giú. Quel giorno le pietanze tornavano quasi intatte in cucina: i famigliari, cui ciò pareva un miracolo, mangiarono a crepapancia. E fu quello il primo giorno.
Verso l'ora fissata Ignazio Gesualdi arrivò a casa dell'amico: presolo per il braccio, gli disse all'orecchio: — E' bisogna esser soli, tra me e te: non ci ha da ascoltare nemmanco una mosca.
L'Arpia lo condusse nel suo santuario, cioè in quella stanza medesima dall'usciolino coperto dallo specchio, anticamera del tesoro, nella quale egli dormiva. Entrati e serratisi dentro, Beppe chiese:
— Dunque mi hai liberato da questo inferno? Come vanno le cose?
Lo strozzino in un solo minuto si fece ilare e impallidí a vicenda.
— È stato un gran male il non avermene parlato un mese innanzi, sarebbe anche bastata una ventina di giorni — ripigliò Ignazio.
— Ma insomma, come è venuto tutto questo diavolio? Hai tu indagata la vera sorgente? Hai saputo nulla?
— Tutto: e te lo dirò; ascoltami placidamente. Come ier sera ti accennavo, il falsario, giunto a Venezia, dove commise mille ribalderie, mentre da un banchiere voleva scambiare una polizza di banco di quelle solite, fu scoperto e arrestato. Nello interrogatorio confessò tutti i suoi complici, ponendoci te in capo alla lista.
— Non è vero niente, egli è un bugiardo, un infame, un vile, un calunniatore. A me le banconote le portarono bell'e fatte; io potrei essere accusato soltanto di essere stato imprudente a riceverle senza accertarmi della provenienza.
— Ragioni bellissime, stupende, evidenti, ne vado d'accordo anch'io. Ma hai testimoni che le confermino? E una falsa supposizione, non ismentita da valide testimonianze è piú che bastevole per mandare un uomo al Maschio di Volterra: ne vai d'accordo anche tu? Ormai quel tristo e i compagni — e si lasceranno chiappare, ché senza dubbio la polizia troverà modo di metter loro le mani addosso — son certi di andare in galera, e vorranno avere la soddisfazione di vendicarsi di te, mandandoti alla forca, se lo potessero.
— O che non ci son leggi?
— E' ci sono, e anche troppe: ma ti ci manderanno con le leggi e con tutte le formalità della giustizia. Ormai non ci sono mezzi umani a far tacere coloro, che come tu mi dicevi, t'odiano a morte: e la testimonianza de' complici di colpa è d'un gran peso nella bilancia della giustizia.
— Che disgrazia! A immaginarla apposta... se me l'avessero detto, avrei scommesso centomila scudi, e non l'avrei potuto credere.
— Eppure le piovono quando meno ci si pensa finché si ha denti in bocca non si sa quel che ci tocca; dove il diavolo mette la coda, credimi, e' bisogna toccarne.
— Ma tu, ma tu, che mi avevi promesso...
— Io ti promettevo il possibile, non l'impossibile: e torno a ripeterti, se tu me lo avessi detto uno o due mesi innanzi, il caso non sarebbe seguito: io non ti avrei consigliata la corbelleria di mandare il rompicollo a Costantinopoli: lo avrei mandato piuttosto a fare un altro viaggio di poca spesa, dal quale non sarebbe piú torno; e mentre si sarebbe liberata la società di un membro putrido, io avrei guadagnata la indulgenza plenaria, e tu la pace perpetua, e la traccia della tua imprudenza sarebbe ita a perdersi due braccia sotterra. Questo è ragionare da uomo; intendi?
— E questo è quel che pensavo anch'io, e te ne volevo discorrere; ma io che in vita mia mi sono attenuto sempre alla massima: «Chi ha tempo non aspetti tempo», questa volta l'ho perduto senza rimedio.
— Il rimedio bisogna trovarlo: io non mi son perso d'animo ma' mai.
— Troviamolo, Ignazio caro; ci vada quello che può, non si guardi a spesa; liberami, liberami, per l'amor di Dio, da questi malanni: e se il cielo mi farà la grazia, voglio mandare al diavolo commercio e ogni cosa, e rinchiudermi fra quattro mura in seno alla mia famiglia.
— E farai bene. Ora pensiamo al rimedio; dopo di averne immaginati e ponderati tanti, questo mi parrebbe il piú sicuro, il solo infallibile. Calmati e stammi a sentire. Non credere, in primis et ante omnia, ch'io me ne sia stato con le mani in mano; raccolte le notizie del caso alla polizia, sapute tutte le precise circostanze, e visti cogli occhi miei i debiti documenti, ho consultati due de' migliori avvocati di Firenze — poiché la cosa adesso non è piú un mistero, ne è piena tutta la città, e n'è corsa la voce per tutta Toscana; non t'illudere — e mi hanno fatto questo ragionamento: vedi anche tu, se ti torna. Tu devi essere arrestato e non v'è scampo; ti potresti ficcare anche nelle viscere della terra, la polizia, o prima o poi, ti verrà a cavar fuori. Si farà il processo, e ci vorranno quattro o cinque anni per lo meno, e tu sempre in prigione, supponendo che sarai dichiarato innocente; nondimeno sei stato tanti anni in carcere e civilmente sarai morto; quando il Bargello bolla un uomo, l'impronta vi rimane sempre, e non v'è cosa che vaglia a farla sparire; un uomo d'onore come te, un ricco signore quale sei tu, non avrà piú faccia da presentarsi al pubblico; e bisogna che tu vada a respirare altra aria lontana, ma lontana dimolto. Ora supponiamo, come novantanove per cento è piú probabile, che i falsi attestati di quel birbone o di quel birboni, vengano accettati come prove d'evidenza da' giudici, tu sarai condannato, sai tu a che? Se vi saranno circostanze attenuanti, alla galera almeno per trent'anni; se non vi saranno queste tali circostanze, alla forca. E sebbene il nostro governo possa essere disposto a commutarti la pena colla galera a vita, se l'Austria ti volesse impiccato, bisogna che il nostro governo chini rispettoso la fronte e t'impicchi. Cosí opinano gli avvocati; e senza essere dottori, basta avere un miccino di cervello per convenire che dicono il vero, né piú, né meno. Ecco la tua posizione, mio caro Beppe — non t'illudere — se ti facessi concepire una falsa speranza, tradirei la mia coscienza, e Dio me ne liberi, meglio cento volte la morte che tradire la coscienza... Ma tu non mi ascolti; se le mie parole ti sono moleste, io non poteva parlare altrimenti, ed ho fatto il mio debito. Tu non sei un fanciullo inesperto; quando alle cose non v'è altro rimedio, disperarsi, invilirsi è stoltezza: bisogna fare come il beato Ermolao, non iscoraggirsi mai, rovini anche il mondo.
Lo strozzino al discorso sconsolante d'Ignazio era caduto in una depressione d'animo che faceva pietà.
Il Gesualdi se ne avvide e se ne compiacque; un altro colpettino bene aggiustato, e la partita era vinta. Dopo d'avere aspettato invano che l'Arpia rispondesse, riprese:
— Beppe! Mio caro Beppe! A che pensi? Ti pare che io dica bene?
— Benissimo! In quale abisso, in quale inferno mi trovo cascato! E come si fa ora ad uscirne?
— Se i miei consigli...
— E che mi consiglieresti di fare?
— Bisogna che tu parta!
— Per l'America.
— Per dove? Ripetilo un'altra volta — disse lo strozzino, strofinandosi col dito mignolo un orecchio, quasi lo volesse nettare e lasciare piú libero il passo alle parole.
— Per l'America.
— Dunque abbandonati alla sorte, e fa' come meglio ti torni.
— Noe; non dico questo: ma ti par ch'io possa andare ai confini del mondo e lasciare le mie faccende, che ci vorrebbe per lo meno se' mesi a metterle in assetto? Se fosse per Marsiglia, tanto...
— E' sarebbe lo stesso che andare a Peretola. Ti chiapperebbero, e legato e ammanettato come un assassino da strada, ti rimanderebbero in Toscana. Non sai che per simili delitti ci sono fra le potenze trattati di estradizione, cioè patti di consegnarsi scambievolmente i colpevoli? Già devi esser certo che con la posta d'oggi sono partiti gli avvisi per tutti i governi d'Europa, con tutti i connotati opportuni per distinguere la tua persona. In qualunque porto di mare, in qualunque città di provincia, ti presentassi, saresti arrestato.
Lo sgozzino mentre Ignazio seguita a favellare, dallo scoraggiamento passa con moto improvviso ad un eccesso di furore, che pare un frenetico scappato dallo spedale: gli occhi gli schizzano, la bocca gli si contorce e gli spuma, si strappa i panni d'addosso, calpesta co' piedi il pavimento, eruttando un torrente di bestemmie contro Dio, e d'imprecazioni contro tutto il genere umano, in modo che messe lo spavento nel cuore al Gesualdi che non si spaventava mai di nulla. Costui dopo d'averlo lasciato sfogare con quell'orrendo soliloquio, come gli parve spossato sí che cadde sopra una seggiola che gli si sfasciò sotto, rialzatolo ed appoggiatolo ad un angolo del letto, tornò con nuova astuzia allo assalto.
— Calmati un poco, mio buon Beppe: tu m'intenerisci; hai ben ragione, è una iniquità degli uomini e della sorte: ma coll'assaettarsi, come tu fai, ci si consuma la salute, e non si riparano i colpi della fortuna. Piegati al mio consiglio, al consiglio di un amico che darebbe tutto il suo sangue per te; persuaditi.
— Dunque, poiché non c'è altro rimedio, partirò.
— Oh! Ringraziato Iddio! Ora ti vedo salvo, e ne provo una gran consolazione. Puoi dunque dare le tue disposizioni.
— Domattina principierò a porre in ordine le cose mie.
— Domattina! Ma tu non sai che i birri torneranno stasera a darti la caccia? E l'ho sentito dire con questi orecchi, e gli ho sentiti rimproverare di poca cura nel cercare la casa, e stasera butteranno all'aria tutta la mobilia, e se muoveranno lo specchio, addio, sei bello e ito.
— E che diavolo mi resta di fare?
— Partire stasera, fra un paio d'ore.
— Per dove?
— Per Livorno. Ho letto nella gazzetta che v'è una nave americana che domani a sera metterà alla vela per Boston: non dubitare, io ti assisterò, i' verrò anch'io, e quando ti avrò imbarcato, scenderò a terra lieto e satisfatto, ed entrerò nella prima chiesa per ringraziare Dio d'avermi salvato l'amico.
Lo strozzino si pose le mani sul capo arruffandosi le chiome come uomo nel cui cervello cento pensieri facciano baldoria ed assaltino la ragione, che non sa a quale dar retta.
— In due ore si aggiusta mezzo mondo; principia a disporre. Animo!
— Bene! Prenderò con me quanto piú potrò portare di contanti.
— Pigliane quanti tu vuoi: da qualche banchiere in Livorno ci procureremo delle cambiali; ne conosco tanti.
— E Babbiolino? Ah! Disgraziato figliuolo!
— Lasciane la cura a me. Già non credere che queste tue sventure lo scioglieranno dagl'impegni solenni ch'egli ha contratti con la famiglia Pomposi; la marchesa — tu lo sai quanto l'è buona — è convinta che sei stato colpito da una terribile calunnia, e ti compiange: se la vedessi — povera signora! — come è afflitta per te... la ti considera come un parente di casa. Vai franco; appena la marchesina — che adesso sta meglio, e la febbre che ha già dato volta, domani, a quanto assicurano i medici, cesserà affatto — appena la sarà convalescente, si farà il matrimonio.
— No che non lo perdi. Appena sposati, se le cose tue andranno in lungo, se vedrò che non vi sarà modo d'accomodarle subito, Babbiolino insieme con la sposa verrà anch'egli a trovarti, e tu ti sentirai felice in mezzo alla tua famiglia, e lungi da questo paesaccio di pettegoli farai la tua figura in quella gran città vivendo da signore fra' signori.
Quest'idea arrise all'Arpia e gli si fisse nel cervello come un chiodo, e il naturale abborrimento che sentono gl'iniqui de' luoghi che rammentano le loro iniquità, lo ribadí. Ma ad Ignazio non bastava, e per assicurarsi meglio la riuscita di ciò che meditava, voleva ficcargliene un'altra allato; e quindi seguitò:
— E se io potessi essere utile nella tua assenza; se tu, come savio e sperimentato, non volessi lasciare interamente nelle mani d'una donna gl'interessi del tuo figliuolo, disponi pure.
— Sí, bene! Te lo raccomando: e' conosce cosí poco il mondaccio. Procura che non lo circondino; lungi sempre da casa mia i mangiapane che gli divorerebbero quel po' di roba.
— Riposa tranquillo su di me come sur un letto di rose. Ma perché io possa agire con una certa veste, per avere un certo diritto, infine per tutto ciò che potrebbe occorrere, lasciami una lettera nella quale dichiari di raccomandarmi gl'interessi di tuo figlio.
— Tu dici bene, e se si potesse, ti farei anche una procura legalizzata.
— O perché non si può egli? Scriviamola, e in un quarto d'ora la farò legalizzare dal notaio di casa nostra. — E cosí dicendo prende il primo foglio che gli cade sotto le mani, e comincia a scrivere mormorando: — Vedi, in due parole, io farei cosí. — E dopo che l'ebbe finita e letta, Beppe ne fu contento.
Il cuore del sanfedista — seppure i sanfedisti abbiano cuore, ma quel pezzo di viscere che si chiama con quel vocabolo — balzò sensibilmente in petto, come ad una violenta commozione il feto si scuote nell'utero della madre. La gioia che provò l'iniquo a quest'ultimo atto dello strozzino fu tanta ch'egli per non tradirsi si ficcò la mano sotto il soprabito, fra il panciotto e la camicia, e si afferrò ferocemente le carni perché lo esterno dolore servisse di contrappeso all'interno tripudio, e non gli facesse perdere l'equilibrio. Quindi, ripiegato il foglio e ripostolo in tasca: — Addio — disse — io corro a provvedere ogni cosa: fra due ore la vettura sarà pronta a un miglio fuori Porta San Frediano, dove monteremo senza pericolo. Mentre che io non sarò teco, bada a non dare il minimo indizio ai famigliari: evita perfino la moglie e il figliuolo; darai loro l'abbraccio della partenza quando sarò tornato. Bada! Ripeto; un solo passo imprudente potrebbe perderci ambidue.