Paolo Emiliani-Giudici
Beppe Arpia

XVIII

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XVIII

 

Se non è esagerata la descrizione che un inclito poeta straniero ha fatta de' tormenti dell'agonia d'un condannato a morte, io non temo di dire che non erano meno dolorosi quelli patiti da Beppe Arpia nelle due ore che scorsero da quando lo lasciò Ignazio Gesualdi fino a quando costui fece ritorno. Lo strozzino fu piú volte sul punto di chiamare il figlio e la moglie e fare lacrimevoli scene, ma, tuttavia compreso di spavento, osservò scrupolosamente il divieto d'Ignazio. Rinserratosi in camera, apre il santuario del tesoro, schiude la cassa forte, e snida dal luogo, dove da tanti anni vi stavano sicuri e tranquilli, parecchi sacchi di monete. Li guarda con occhio di commiserazione, come farebbe un padre costretto ad esulare con tutta la propria famiglia, quasi dicesse loro: rassegnamoci e andiamo via.

Passato questo primo accesso di tenerezza, la vista di quel tesori gli accendeva la collera nell'anima, perocché, fido sempre al principio dell'onnipotenza del francescone, e vedendosene tanti dinanzi agli occhi, provava il senso ineffabile di rabbia e di duolo che proverebbe un principe, costretto a capitolare in mezzo ad un numeroso e potente esercito prontissimo ad obbedirlo. Lo spettacolo di quelle forze poderose, di quell'artiglieria che fino da tempi immemorabili ha disfatto anche le torri di bronzo, gl'ispirava mille disegni; pensava inoltre ad un proverbio spagnuolo che dice non esservi monte tanto alto sul quale non possa salire un asino carico d'oro — e stava quasi per determinarsi a cacciar via ogni pensiero di partenza, e valersi di quel potentissimi argomenti per uscire d'impaccio. Ma eccoti arrivare l'amico, e con la sola presenza ridurgli in fumo ogni pensiero.

Allo aspetto del sanfedista lo spirito dello sgozzino s'impicciniva; Ignazio gli paralizzava il libero arbitrio.

Ma prima di andare innanzi, sento qualcuno che mi chiede: — O come mai Beppe Arpia, tanto furbo e con tanta esperienza di furbi, si lasciò ingannare da Ignazio Gesualdi? — Io rispondo come rispondeva Luigi Pulci nel suo Morgante Maggiore a coloro che per avventura non avessero potuto intendere in che guisa Carlomagno, uomo divinodiceva il Pulci, non io che sempre l'ho tenuto per principe e non altro — si fosse lasciato avvolgere dalle di Gano, traditore e sanfedista come il Gesualdi:

 

era nato costui per ingannarlo

E convenia che gli credessi Carlo22.

 

Risposta da fatalista, ne convengo anch'io, ma scappatoio comodissimo per iscansare il debito di rendere ragione delle storture degli umani cervelli; e chi ne va esenteinclusi anche gli eroi e i giganti morali dell'umanitàscagli la prima pietra.

Se non che della cecità dell'Arpia la ragione dovrebbe mostrarsi evidentissima sol che si consideri che egli non era piú il savio osservatore de' canoni dello statuto, da noi riferiti, i quali in tutte le sciagure l'avevano fatto cascare all'impiedi, dopo che lo aveva invaso la foia d'impancarsi co' signori del paese; la qual foia, come avviene d'ogni altra passione, gli dette il capogiro e non lo fece piú andare diritto, ma barcollante in guisa, che con un urto datogli a tempo ed a luogo, si poteva stramazzarlo a terra. Di ciò si accorsero gli occhi lincei del sanfedista, il quale facendo all'amore co' tesori dello strozzino, forse col santo fine di impiegarli in opere pie, colse l'occasione, fomentò ed accrebbe sempre quella foia, lo briacò e lo spinse con cento astuzie e con cento inganni su l'orlo del precipizio, e come l'ebbe proprio a tiro, con una lieve spinta ve lo precipitò giú, ed a rivederlo all'altro mondo.

Nel condurre questa impresa Ignazio fece prova di tanto stupenda destrezza, che se la fortuna invece di farlo nascere in una stalla, o invece di confinarlo nel modesto ufficio di maestro di casa, lo avesse messo a lavorare nel grande arsenale di un grande governo, il suo ingegno, nutrito del debito alimento, le sue facoltà slargate col debito sviluppo, egli ne' fasti della diplomazia avrebbe lasciato un nome immortale, e la sua memoria, che oggi è esecrata, sarebbe esaltata e trombettata nelle storie come quella d'un grand'uomo, fino a tanto che nelle storie la parola grande verrà applicata ai carnefici ed ai furbi che lavorano sopra un piano esteso.

 

— Dunque sei tu pronto? — disse Ignazio, appena comparso, gettando sopra una seggiola un fagotto che egli aveva sotto il braccio.

— Ma che davvero debbo fare questa corbelleria? — disse Beppe volgendo gli occhi pieni di scoraggiamento allo amico.

— Ma caro il mio Beppe, non è tempo d'esitare, e di perderci in ciarle; fra mezz'ora non vi sarà piú rimedio: giú c'è la carrozza della marchesa, e qui — indicando il fagotto — ho portato l'occorrente per travestirti. Su, facciamo presto.

— O perché tante storie?

— Ma tu l'hai preso per affar di nulla? Non sai quanta cautela ci vuole per uscire di Firenze... esci un poco e vedi il diavoleto che c'è per tutte le strade: se ci scuoprono, se ci agguantano, poveri a noi, ché ci sarà anche la parte mia: malannaggio quando mi ci son messo! Non facciamo piú ciarle, vestiti, per carità, per l'amore che porti al povero tuo figliuolo, sbrigati.

Beppe, gettato un gran sospiro, comincia a togliersi i panni d'addosso, mentre Ignazio scioglie il fagotto, e ne cava un abito da prete. L'Arpia mormorava parole dissennate, e il sanfedista senza badarvi gl'infila la sottana con tutto il rimanente.

L'Arpia volgendosi verso lo specchio e vistosi in quel ridicolo travestimento, non poté frenare le risa. Ignazio non rideva esternamente, ma in cuore gioiva mirando lo strozzino, che nel lasciarsi raffagottare a quel modo, mostrava tutta l'obbedienza passiva, di cui fosse capace un uomo.

Ora è tempo di dire addio alla famiglia: ma bada, ve', a non farmi qualche scenata. Il buon esito della faccenda sta tutto nel silenzio; mostrati forte, abbi coraggio; nel coraggio sta l'eroismo. Alla moglie dirai che per pochi giorni è mestieri cercati un asilo, dove rimarrai tanto che si dilegui la procella...

— Della moglie non me ne importa nulla, è tanto tempo che la m'è venuta a noia che la giocherei all'oca per un quattrino... ma il figlio! Povero Babbiolino! Disgraziato figliuolo!

Dirai che per pochi giorni starai lontano per un affare: insomma una scusa di queste: ma fermo, non ti riscaldare il sangue: infine tu hai giudizio tanto che basti a farti conoscere di che si tratta.

Beppe stava per gettare un grido onde chiamare la moglie, ma Ignazio ponendogli una mano sulle labbra, disse: — Fai piano; e' non ci vorrebbe altro per fare accorrere tutta la gente di casa e il vicinato per giunta: vado a chiamarla da me, e la predispongo come conviene.

Dopo quasi un quarto d'ora entra la moglie, e nel vedere il marito in quella maschera che gli dava le sembianze di un assassino fattosi eremita, il quale sotto il sacco di penitenza serbi sempre quel piglio di sgozzacristiani, invece di ridere si sentí mancare l'animo e gettò un urlo di paura, malgrado che Ignazio l'avesse predisposta. Quello strano travestimento richiamò alla mente della donna, l'idea di qualche terribile delitto, di cui il marito si fosse reso colpevole; si rammentò del sogno della notte scorsa, e le si affollarono in un momento tanti diversi pensieri in capo, fra' quali predominava quello della ruina della propria famiglia, che mal poteva frenare il pianto e i lamenti. Ma Ignazio era , come Nettuno in mezzo alle onde per sedare ogni tempesta. Finita la scena con la moglie, il Gesualdi, coll'arte d'un capo-comico, introduce Babbiolino; il quale, alla vista del babbo diventato arciprete, come diceva egli il povero innocente, si pose a ridere sgangheratamente, e cominciò, povero innocente! a saltellargli attorno. La sua ilarità rattenne l'esplosione della tenerezza paterna; l'amoroso genitore lo strinse al seno, lo divorava quasi co' baci, e raccomandandogli, con un pleonasmo scusabile, di mangiare, bere, dormire e stare allegro, gli fece comandamento che per tutto il tempo della sua assenza, che sarebbe brevissimo, dovesse seguire i consigli d'Ignazio ed obbedirgli come ad un secondo padre. Babbiolino accennava di col capo, e mentre Beppe dandogli l'ultimo bacio lacrimava, il giovinetto non trovava modo di frenare le risa vedendo il babbo fatto arciprete.

Il Gesualdi incalzava: chiama due o tre famigliari e fa trasportare la sacca delle monete alla carrozza. Posto in assetto ogni cosa, vi salgono su ambidue. L'aria erasi fatta bruna; la campana di Palazzo Vecchio batteva le ventiquattro; Ignazio si cava il cappello e recita l'Angelus Domini, mentre il cocchiere, obbediente alle istruzioni ricevute, sferza i cavalli per porta San Frediano. Le guardie riconoscendo la livrea di casa Pomposi, senza domandare di nulla, lasciano passare. Ad un miglio fuori la porta si trova una vettura da viaggio a quattro cavalli; i fidi servitori d'Ignazio in un baleno travasano il bagaglio; Ignazio invita il sor canonico a scendere dalla carrozza ed a salire nella vettura.

I due amici si trovarono soli. L'Arpia voleva ragionare intorno ai propri casi; ma il Gesualdi, pensando al dettato: chi meno dice, meno sbaglia — e considerando che una parola detta fuori di tuono, poteva buttare a gambe all'aria il suo piano, era determinato di fortificarsi nel piú rigoroso silenzio; ed allegando il pericolo di potere essere uditi da' vetturini, si trasse in un angolo, augurando la felice notte al compagno, e si accovacciò in atto di dormire.

Simulava, russava anche come un cuor contento: ma il tristo cogli occhi chiusi aveva l'anima desta come una sentinella; e perché la notte era lunga, dopo d'avere stabilito il da farsi a Livorno, considerando nel suo pensiero lo strozzino imbarcato, in mezzo al mare, al di dello Stretto di Gibilterra, avanzandogli tempo, quasi scrivesse l'ultimo atto della commedia, pensava al come condursi con la famiglia dello strozzino, e conseguire il successo finale.

La mattina sul far del giorno arrivarono a Livorno; la nave americana aveva differita la sua partenza al seguente; la qual cosa fu di non poca molestia ad Ignazio che nel solo tempo oramai vedeva il buon esito o la rovina del suo piano di campagna; e una notte di piú, spesa in Livorno, poteva tornargli fatalmente funesta. Ma la sorte lo spingeva avanti col vento in poppa. La sera medesima faceva vela per l'America un brigantino livornese. Ignazio con facilità maggiore noleggiò il viaggio di Beppe, vinse gli scrupoli del capitano, che cedette compiacentissimo come si fu accorto di trattare con una persona di garbo e di giudizio, e provveduta ogni cosa, pochi momenti innanzi di partire condusse sulla nave il riverendo missionario che andava nel nuovo mondo per convertire i selvaggi.

Dettogli addio, e datogli l'ultimo abbraccio, e l'ultimo bacio, ritornò a terra e non si spiccò dal lido se non dopo d'aver veduto che il legno s'era mosso, e con tutte le vele spiegate e gonfie d'un vento forte di levante andava via colla celerità d'un vapore.

Ignazio aveva promesso all'Arpia di entrare, appena lo avrebbe veduto partire, nella prima chiesa onde ringraziare umilmente Dio d'avergli salvo l'amico; e serbando pur l'intenzione, ma non avendo modi di compire la promessa, si condusse invece in una locanda: e quella sera prevalendo in lui le abitudini primigenie della stalla, mangiò a crepapancia, e s'ubbriacò ad onore e gloria di se stesso e de' suoi simili.

Come potete supporre, Beppe Arpia sulla nave che lo trasportava all'America, fu assalito da mille pensieri. Lo spettacolo de' patri lidi che sembrano allontanarsi dal navigante, uccide in cuore la speranza del ritorno: e l'uomo vivo con la speranza spenta è peggio d'un cadavere; l'anima, anche non turbata da nessun rimorso, casca in una tormentosa tristezza. Beppe pensò al nulla delle cose umane, alla fragilità degli umani disegni; e come quel papa che trovando inefficaci i purganti ed arrabbiando come un cane, ai cortigiani che lo confortavano, rispondeva: — Dicono che il papa omnia potest ed io non posso... non posso né anche ec. — cosí l'Arpia che aveva sempre sentito dire, e lo credeva come articolo di fede, che il francescone può tutto, per la prima volta in quella notte, passata fuori del banco, s'ebbe a convincere della falsità della sua credenza. Nondimeno pensando alle parole d'Ignazio, pensando al pericolo corso, sentivasi come d'avere rivinta la vita ad un giuoco disperato; e sperando di potere avere il figlio seco e la nuora, racconsolavasi; e montando d'illusione in illusione almanaccava sul modo di stabilirsi nella nuova terra; e nell'ebrietà dello immaginare dava perfino il benvenuto al sinistro colpo della fortuna: — Ogni male non vien per nuocerediceva, considerando ch'egli nuovo in mezzo ad uomini nuovi, poteva a viso levato starsi in società come un signore di sangue puro, senza che gli obietti che lo circondavano gli rammentassero la sua primitiva miseria, e il lungo cammino di lordure e di colpe ch'egli aveva percorso ad uscirne.

Ma non sospettava il misero che le sciagure patite formavano appena il preambolo di quelle che gli rimaneva a sostenere. Sul mare ben altre ed altramente crudeli vicissitudini lo attendevano a braccia aperte.

Il seguente, appena spuntato il sole, egli sbucando dal camerino dove era giaciuto la notte come un collo di mercanzia, si condusse sulla prua della nave per prendere una boccata d'aria fresca. Stavasi assiso sopra un canapo, allorché si accorse che due uomini, ritti sul ponte, ammiccavano, discorrevano, e tornavano a squadrarlo con quattro occhi da sparviere. Egli dal canto suo guarda loro, e china le ciglia, poi torna a riguardarli e si passa la mano sul viso quasi volesse cacciarne una zanzara. Dopo poco si riprova di rialzare gli occhi e rifissarli piú attentamente sopra i due compagni di viaggio, e vede o gli par di vedere... Dio santissimo!... Un orribile tremito repentino gli assale tutta la persona, appena ha forza di rialzarsi, e rasentando l'orlo della nave come un uomo che brancichi al buio, si strascina al suo stanzino e vi si richiude.

Pensa e ripensa, e dice fra sé: «Ma saranno essi? Ma sarebbe mai possibile? Non ci mancherebbe altro, sanguedimmio! per far compita la festa; e sarei cascato dalla padella nella brage». Stette rinchiuso un paio d'ore.

I due galantuomini intanto andavano interrogando i diversi marinai per sapere chi fosse quel tale; e tutti altro non rispondevano se non che gli era un prete che andava per le missioni. Il medesimo ad un dipresso fu loro risposto dal piloto.

— Sarà forse qualche suo fratellodisse uno de' galantuomini al compagno.

— Potrebbe darsi, ma mi par di vederci in quella faccia da impiccato, proprio lui. Guardalo bene: quegli occhi, quel naso, quella tinta; gli è lui, gli è lui.

— Ma se è un prete.

— O che importa? Potrebbe esser travestito.

Senti, questa la mi torna; mi par che tu dica bene. Giusto; si diceva in Firenze che ier l'altro notte, la polizia era andata a casa di lui per arrestarlo: nel dispaccio medesimo venuto da Venezia per noi, e' c'era anche la parte per lui. Senti, se quel farabutto, se quel truccone avesse fatta questa, io gli perdonerei tutte le birbonate che ci ha fatte... Ma lasciarsi chiappare eh?

— Oh! Che gusto che ci avrei anch'io. E qui non ci scappa davvero. Quattrini n'arebbe avere di molti; ora sarebbe il tempo di cavargli i trecentomila fiorini che ci ha rubati, e il frutto del dieci... no, del cinquanta per cento, come egli fa; e poi dargnene una per bene, e zitti.

— Ma com'egli è vero il proverbio: «Dio non paga il sabato» — e chi l'avrebbe mai detto che la fortuna, quando pareva di averci proprio ruinati, ci serbasse la restituzione del nostro, e il piacere della vendetta?

— Ad ogni modo non facciamo tanti castelli in aria.

— Prima bisogna assicurarsi della cosa. Il capitano forse ce lo dirà: ma se egli ha avuto un buono sbruffo di quattrini, temo non gli abbiamo a cavar nulla di bocca, e' ci dirà come gli altri, che gli è missionario — te le darò io le missioni, com'è vero Dio, non mi scapperai dall'ugne.  Quand'anche non potessi far altro, prima ammazzo lui, e poi mi butto a mare.

— E per l'appunto io pensava come s'ha egli a fare. Qui non mi pare ci sia modo: appena sbarcati in America, non si perderà d'occhio... in somma ci si penserà.

— Ma torno a dire per ora cerchiamo di chiarirci.

Questa dolce canzone modulavano i due colleghi innanzi allo stanzino dove s'era rinchiuso Beppe, al quale non tornava cosí dilettevole come alla donna innamorata suona la voce dell'amante che le faccia una serenata sotto le finestre. Il capitano, condottosi al camerino dell'Arpia, gli dice parole cortesi, e sospettando che sentisse mal di mare, lo piglia a braccetto e lo invita a passeggiare. I due galantuomini passeggiavano anch'essi sul ponte: ed avuto agio di esaminare meglio la figura del simulato missionario, vi scoprirono in tutto il suo essere genuino la fisonomia di Beppe. Come si furono convinti, facevansi scambievolmente cenno con gli occhi che fiammeggiavano di gioia feroce. L'Arpia, avvezzo a leggere ne' volti umani, in quelli de' suoi compagni di viaggio lesse scritta a caratteri evidenti la sua perdita inevitabile; si tenne spacciato; gli mancarono le forze, e si abbandonò quasi svenuto sul braccio del capitano; il quale lo ricondusse nello stanzino, lo adagiò sul letto, studiandosi con ogni sollecitudine di apprestargli tutti i rimedi contro il mal di mare.

Beppe era come l'uomo, contro cui un tribunale abbia pronunziata una condanna di morte. Vedersi al cospetto di coloro ch'egli aveva proditoriamente rubati, di coloro i quali avevano giurato di vendicarsi minacciandolo di morte con lettere cieche, e gli avevano data sempre la caccia, vedersi con essi nell'angusto ambito d'una nave, era per lui la rete adamantina di Vulcano; bisognava restarvi preso. Cominciò a pensare a tutti i modi possibili per liberarsi dal piú terribile di tutti i pericoli in cui fosse mai incorso in vita sua. Ora voleva offrire loro una somma e far pace, ma si sarebbero contentati d'una offerta minore della pecunia rubata adesso che egli stava a piena loro discrezione? E d'altronde come metter fuori trecentomila fiorini nella condizione in cui trovavasi? Ora voleva fare il non curante e portare alta la testa, ma la loro presenza gli metteva addosso un tremito mortale. A volte pensava di porsi sotto la protezione del capitano denunziandoli come suoi nemici inveterati che gli attentavano alla vita. In questi e simiglianti pensieri si dibatté per sei o sette giorni senza determinarsi a nulla, evitando sempre, compreso di perpetuo terrore, la vista di quel velenosi serpenti. Il vento non era mai cessato di spirare secondo, ed il bastimento con celerità straordinaria il settimo giorno varcò le Colonne di Ercole.

Mentre la nave, come fosse benedetta dallo stesso nume dell'acque, muoveva per gl'interminati spazi dell'oceano, in fondo all'orizzonte l'aria sul declinare del giorno si cominciò a far buia; un immenso masso di nugoli elevandosi a guisa d'Alpe, nelle ore prime della notte, squarciava il suo seno e mandava spessi baleni, che riflettevansi in forme bizzarre sulle grandi onde del mare. A poco a poco il guizzare di lampi si fece piú frequente, i passeggieri che si trovavano per la prima volta sul mare ne godevano come dello spettacolo di fuochi artificiali; ma i marinari attristavansi, ed in certo loro gergo peculiare discorrevano di cose, che ove fossero state dette in linguaggio ordinario, avrebbero messo lo spavento in cuore di tutti.

Nelle ore che precedono qualche fortuna di mare, un silenzio pauroso e solenne regna nella nave, interrotto a quando a quando da' monosillabi del capitano, che comanda i provvedimenti da farsi. L'animo, anche di chi non intende il significato di quel continuo muoversi dell'equipaggio, si concentra in cupa meditazione.

Non era anche la mezzanotte, il cielo era tutto intenebrato, e pareva volesse rovesciarsi sul capo ai miseri naviganti, allorché improvvisamente il vento cangia: al levante succede il libeccio, misto di tramontano; e si scagliano sul mare e mugghiano spaventevolmente come fra loro si disputassero l'impero e combattessero a morte. Di quando in quando cadono forti scosse di pioggia, che in un subito cessano, per poi ricominciare con maggior furia: i tuoni, che dianzi brontolavano lontani, ora scoppiano fragorosamente e da presso che ad ogni scossa la nave sembra sfasciarsi. I lampi che guizzano, rendono visibili le onde, che a guisa di montagne s'inalzano scavando immensi abissi che sembrano poter contenere la terra tutta. Il capitano che gradatamente aveva ordinato di mettere alla cappa, di ammainare, di far terzaruoli alle vele, comanda di serrarle; ed in questa guisa la nave poggia fuggendo a palo secco verso la riva occidentale della Spagna che poteva essere cinquanta miglia discosta.

I marinai, compresi del terribilissimo pericolo nel quale trovavansi avvolti, ubbidivano come fulmini: i passeggieri empivano l'aria di strida e di lamenti, il capitano comandò che scendessero tutti giú poiché la loro presenza era d'impaccio; li confortò dichiarando che la procella, comunque impetuosa, avrebbe breve durata. Difatti dopo quattr'ore di lotta, il mare faceva sembiante di abbonirsi, i venti soffiavano piú bassi e piú cupi, quasi fossero stanchi d'un lungo ed ostinato combattimento, alle interrotte e furiose scosse di pioggia era successo un piovigginio continuo; al nuovo giorno il bel tempo sarebbe tornato ad accompagnarli nel viaggio: quegli sciagurati parevano ritorni da morte a vita.

Fra tutti i passeggieri ch'erano esterrefatti, Beppe Arpia, l'uomo de' tanti milioni, giaceva come un animale mezzo spento, cogli occhi socchiusi, con la bocca spumante: faceva schifo a guardarlo. I due colleghi avevano stomachi piú saldi; e sebbene sentissero anch'essi la paura del pericolo, nondimeno non si mostravano inviliti, anzi non appena nacque la speranza della bonaccia, si messero a celiare ed a conversare in questa guisa:

— Lo vedi quel ladro, com'egli sta, che pare una cosa sozza.

Davvero, pare un fagotto di panni sudici.

— In quanto a me non ho paura di morire: tanto o d'un modo o d'un altro gli è tutt'uno. Io non so qual destino mi aspetti in quel paesi di ; di certo lieto non può essere. Ma morire senza essermi cavata la sete della vendetta che da tanto tempo mi brucia il sangue, e massime ora che l'ho tra le mani, sarebbe una morte da disperato, un finire la vita in bestemmie e andare diritto in gola al diavolo.

— Io aveva fatti i miei conti: prima d'affondare lo avrei chiappato, lo avrei strozzato con queste ugne, lo avrei divorato co' denti, ne avrei fatto non so che mi dire.

— In ogni modo dalle nostre mani non iscappa quel ladro; né uomini, né angioli, né diavoli, né Dio stesso me lo potranno rapire; l'Arpia è roba nostra, e me la saprò difendere fino all'ultimo sangue.

Beppe Arpia, benché giacesse prosteso come cosa morta, aveva desti tutti i sensi per udire chiare e precise le pacifiche intenzioni de' due falsari — ed era la medesima canzone del primo giorno dell'imbarco, adesso cantata in tono piú espressivo — prima di scendere a casa del diavolo il misero pativa le piú atroci pene dello inferno. Come lo scuoramento generale nella nave fu cessato, anch'egli accolse le forze per rizzarsi, e facendosi dar mano da un marinaio, si condusse al suo stanzino; dove rimesso il lettuccio ch'era capovolto, sdraiossi e ritornò a meditare sulla sua disperata posizione, e determinossi di dar tosto una grossa somma di pecunia al capitano facendosi assicurare la vita dalle insidie di que'due ch'egli voleva dipingere come assassini e malfattori famosissimi, fuggiti dalle galere. E si mosse perfino in traccia di lui, ma non gli riescí di poter ottenere dieci minuti di colloquio, perocché colui era affaccendatissimo a rimettere la nave in istato di potere sostenere un secondo assalto di fortuna.

 

Sul fare del giorno nuovi venti piombano in campo come sussidiari di quelli che già facevano baccano sulle onde: il tempo torna piú minaccioso; la battaglia riprincipia. Il capitano volge lo sguardo intorno e getta un sospiro, mette nuovamente in moto i marinai che adesso s'erano impauriti davvero. Le onde parevano voler ricoprire la nave, alla quale si spezza l'albero maestro; gli altri due non indugiano a rompersi anche essi, e il capitano facendo ogni sforzo per rianimare la ciurma, ordina che si alleggerisca la nave; e qui tutti a gara, ospiti e marinai per gettar via ogni cosa. Lo strozzino rimanevasi tuttavia nello stanzino, ravvolto nel letto, sbattendo di qua e di ; gli aprono l'uscio, gli ordinano si affretti a buttare a mare la sua roba, egli nega, dicendo essere di nessun peso, ed abbandonando ogni altra cosa, si abbraccia ad un baule, fermo a difenderlo come guerriero che fra la mischia non voglia cedere il cadavere dell'amico. Ma i due falsari afferrano il baule, e con gioia feroce, lo lanciano in fondo al mare, quasi vi seppellissero gli averi tutti dell'odiato usuraio. Questi si pone ad urlare, ed uno di loro gli avventa un calcio che lo manda a rotolare fin sotto una tolda.

Frattanto la tempesta è tanto ingrossata, la nave è tanto malconcia e quasi inondata, che nulla piú giova a salvarla: forse cosí fracassata sarebbesi retta, ma la furia del vento l'aveva sbalzata presso al Capo Trafalgar a un miglio circa da una spiaggia piena di rocce e di scogli. Il capitano, vistosi perduto, e massime che reputavasi un navigante mal fortunato, come quello che in tutti i suoi viaggi aveva patita sempre qualche sciagura, annunzia in suono doloroso che si raccomandassero l'anima a Dio, perocché da un momento all'altro il mare gli avrebbe inghiottiti. Allora succede la scena la piú straziante e insieme la piú ridicola del mondo, conforme affermava per proprio esperimento il cardinale de Retz. Chi urla, chi si getta per terra, chi piange la famiglia, chi si vota alle immagini miracolose nelle quali ha piú fede. Tra tutti era da notarsi una femmina scapigliata, arruffata, seminuda, che stava prostesa dinanzi a Beppe Arpia ch'ella credeva un santo sacerdote, pregandolo le desse l'assoluzione de' numerosi peccati di cui aveva lorda la coscienza, la levasse per carità di mano al demonio che senza l'assoluzione del confessore l'avrebbe portata viva all'inferno.

I falsari tenendosi inevitabilmente perduti, vollero adempiere al giuramento già fatto. Il capitano non comandava piú: il dolore lo aveva vinto, ond'egli per non sentirlo, aveva ricorso ad un rimedio tedesco, voglio dire, appena profferita la sentenza di morte per tutti, tracannò una bottiglia d'acquavite, che in pochi minuti gli tolse le forze e lo stese a terra, dove stavasi in atto sconcio, brontolando parole inintelligibili, ridendo, e piangendo.

I falsari giovaronsi di questa anarchia per compire il loro proponimento. Mentre la donna teneva abbracciate le gambe dell'Arpia implorando sempre l'assoluzione, ed egli negava di compiacerla mormorando: — Non so... non posso... vai al diavolo... — coloro gridano a tutta possa:

— E' non è un prete: è un ladro travestito...

— È uno scellerato.

— È un usuraio.

— È un assassino.

— È un sacrilego.

— Egli è la cagione della nostra perdita: Iddio ci punisce perché abbiamo costui nella nave.

Buttiamolo a mare.

— A mare, a mare, a maregridano tutti; e marinari e passeggieri lo circondano.

Lo sciagurato piange, prega, promette che, sceso in terra, darà loro tanti quattrini da farli tutti ricchi... Le sue parole infiammarono piú ferocemente gli animi: tutti pensarono: s'egli poteva disporre di tanti tesori, doveva essere qualche arnesaccio, qualche spirito maligno, e seguitavano ad urlare, ad imprecargli strappandolo chi di qua chi di : la disperazione li aveva resi spietati. I due amici, scagliatisi addosso alla preda tanto agognata, l'agguantano, uno per le braccia, l'altro per i piedi, e saliti a stento sul castel di prora, mentre gli altri facevano loro puntello, lo precipitano in mare. Un'onda alta come una piramide coprí Beppe Arpia con tutte le cambiali ch'erano studiosamente cucite ne' suoi abiti. Cosí gran parte de' male accumulati averi, del sangue succhiato a tanti poverelli piombava in fondo all'oceano.

Talvolta nella natura accadono tali vicissitudini, che paiono piú verisimili che vere, e la loro stranezza rende sospetta la fede nello storico che schiettamente le racconta. Non appena lo strozzino disparve sepolto sotto le onde, il vento quasi improvvisamente si calma, la furia del mare vien meno; la nave si scosta dagli scogli dove era per frangersi; la ciurma grida: — Miracolo! — la gioia rianima le facce smorte di que' miseri; lo stesso capitano si scuote dalla sua ebbrietà e partecipa dell'universale speranza; i marinai adoperano tutta la loro destrezza e in men d'un'ora si appressano al lido, invocano l'aiuto de' terrazzani, i quali celeremente accorrono numerosi a salvare il legno e trarlo alla riva. E quegli infelici appena posto piede a terra, chiamando salvatori i falsari, carnefici dell'Arpia, prostraronsi a terra e resero grazie alla divina misericordia per averli campati da quel terribile naufragio.





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22 Morgante Maggiore, C. XXVIII [ott. 15].



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