Paolo Emiliani-Giudici
Beppe Arpia

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Allorquando il Signore chiamò alla letizia immortale degli eletti lo spirito di Beatrice Portinari, Dante Allighieri, che fino dalla fanciullezza, l'aveva fatta donna del suo cuore e l'amò sempre quanto anima innamorata non dilesse mai vergine pura, cadde in profondissimo dolore. Guido Cavalcanti, glorioso antenato di Roberto, per campare il sovrano poeta da quel mare d'angosce dove languiva cupo, sparuto, e in aspetto quasi di selvaggio, adoprò tutti gli affettuosi e benigni riguardi, secondo che attestano certi tenerissimi versi che non ci furono rapiti dal tempo23.

La congiunzione di questi due nomi celeberrimi mi ricorre spontanea alla mente, mentre io mi studio di descrivere la intensità del dolore in cui la morte dell'Amalia prostrò l'infelice Roberto.

Né le amorose cure d'Alamanno né i conforti degli amici valsero a lenirgli la piaga: ci ricusava ogni refrigerio, come chi, fermo nel proposito di morire, ed abbia bevuto il veleno, rifiuti il farmaco che la piangente famiglia vorrebbe apprestargli a salvarlo. Roberto non isfogò il suo dolore in vani lamenti ed in lacrime, ma se lo accentrò nel cuore, che senz'esso forse avrebbe cessato di battere: sostenendone le torture tutte, lo carezzava come il solo sentimento che teneva il suo spirito potentemente congiunto allo spirito della sua donna.

Il giorno dopo seguita la sciagura, Roberto non fu piú visto in casa propria. La famiglia lo piangeva come perduto; ma egli vagava solitario per la campagna. Mal tollerando lo aspetto ridente de' colli che circondano Firenze, era corso fra gli orrori sublimi de' monti dell'Alvernia, ed errabondo per quelle alture, vaneggiava parendogli di essere piú presso al cielo della sua diletta. L'aspetto severo della natura, reso piú tristo da' rigori del verno, armonizzava mirabilmente con lo stato dell'anima sua, che pascevasi d'illusioni e talora quetava. Ma a volte la piaga gli s'inacerbiva e sanguinavagli con tanta ferocia, ch'egli sentendo di non potere piú oltre sostenere la vista, tentò di farsi saltare le cervella per aria; ed una sera, trovandosi, nel suo diuturno errare per le montagne, su l'orlo di un vasto dirupo, gli venne in pensiero di precipitarsi in fondo; gli carezzava il funesto pensiero la illusione che della sua morte non si sarebbe trovata la traccia, o trovatasi, verrebbe ascritta ad un'ordinaria sciagura, e quindi la sua memoria non avrebbe riportata la macchia di suicida, avvegnaché egli avesse sempre reputato il suicidio come l'opera del codardo, che invilito da' mali della esistenza, si salvi con una fuga ignominiosa ed infame. E s'era mosso, e parevagli che la notte avrebbe aperto il suo seno tenebroso per inghiottirne il cadavere, ed era con le braccia stese per lanciarsi, allorquando una mano potentissima lo rispinse indietro; e gli parve di sentire un terribile grido che diceva: — No, vivi per essa! — Erano le ombre de' martiri della patria che gli facevano comandamento di serbare la vita per essa, che avendo da lui gradite le prime prove di affetto, ne aspettava delle altre e maggiori, mentre che il tempestare dei tempi sembrava apparecchiare nuove e portentose vicissitudini ai popoli assetati di libera esistenza.

Era dicerto illusione della commossa fantasia; ma non è meno certo che Roberto Cavalcanti, da quell'ora pacificatosi con la vita, dopo parecchi mesi di assenza, ricomparve fra il consorzio degli uomini; ma quanto mutato da quello ch'egli era innanzi! Il suo viso, già cosí bello, era solcato di rughe, i suoi occhi erano incavati, le chiome mezzo canute, le sue labbra avevano perduta l'abitudine del riso; vestiva sempre panni bruni a significare il perenne lutto dell'anima; abborriva da' convegni frivoli, in mezzo ai quali aveva spesi i suoi giovani anni: casalingo, grave, composto, menava tranquilla la vita e concentrata in seno a pochi amici, spendendo le ore migliori a leggere la storia degli errori de' popoli tutti ed in ispecie degli italiani. Roberto era un altr'uomo. Ma in tanta solidità di vita, il suo cuore era pieno sempre dell'affetto della perduta amica e in certe ore arcane l'anima sua s'inalzava sulle ali della fantasia a conversare con l'anima di lei; Roberto con illusione ch'ei si creava e carezzava, comunque la reputasse tale, ad ogni sua azione ricercava l'assenso di Amalia; e quando sentivasi la coscienza tranquilla e il cuore satisfatto, come se nel loro mistico linguaggio favellasse l'amica, gioiva dicendo fra sé «Ho fatto bene». Se la natura, come gli fu dispensatrice di tanto tesoro di beni, gli avesse acceso nell'anima il fuoco poetico, e se la fortuna l'avesse fatto vivere in tempi meno avversi alle generose e sublimi ispirazioni, questo nuovo amore mal fortunato avrebbe dato un nuovo grande poeta all'Italia. Nondimeno porse nuovo argomento di conferma al sublime principio platonico: che la creatura vivificata da un vero purissimo amore, spinta da una forza irresistibile al pari dello istinto, s'inalza alla virtú in guisa che si mostri trasformata in un essere piú perfetto.

Benefico, cortese, commiserevole, invece di aspettare che la indigenza picchiasse al suo uscio e lo importunasse, egli muovevasi spontaneo a consolarla. Tutti gli esuli che la mala signoria che accorava i popoli degli altri stati d'Italia cacciava alla ospitale e mite Toscana, trovarono sempre aperto il suo cuore alla compassione, e la sua borsa alla loro indigenza. Roberto, insomma, purificato dalla passione comunque sciagurata, era mirabile esempio del degno cavaliere, dell'uomo dabbene, del cittadino perfetto.

Usando familiarmente con gli esuli, poté conoscere non solo gl'intendimenti di parte liberale, ma le condizioni vere delle altre italiche provincie; e comunque ci fosse per invincibile pendio d'indole, avverso ad ogni specie di congiura e schivo di partecipare a quelle che chiamansi società segrete, egli ne sapeva i sogni, le illusioni degli onesti, gl'inganni de' disonesti, e mentre con dolcezza ammoniva gli uni, ed alteramente rimproverava gli altri, le sue parole spesso risparmiarono lo spargimento delle lagrime, talvolta quello del sangue. Fermo nel costume di guardare il presente col lume del passato, e con esso scernere nel buio del futuro, egli divenne un pensatore positivo, solido, vero, abborrente dalle fantasticherie che nelle faccende politiche o presto o tardi tornano sempre funestissime. Difatti allorquando nel 1846 i popoli si commossero dopo la elezione del nuovo pontefice, egli fra' pochissimi, consentendo col piú grande poeta civile, che vive tuttavia a gloria della Toscana, giudicò certi scritti dettati ad agitare l'Italia, come malaugurati e noiosi romanzi che parevano fatti compilare appositamente come Libri di Sogni per accrescere la sete del giuoco, e rapire alla bocca affamata del misero il soldo che potrebbe procurargli un giorno meno tribolato di esistenza. A coloro che gli ammiravano — ed erano già uomini sennati, ed allora, perduto il senno, parevano avere rinnegata in un giorno tutta la loro vita trascorsa — faceva pacatamente notare la rete de' sofismi intessuti astutamente sulla trama della vanità nazionale a danno degli inesperti; ed un giorno, dopo d'averne con vigorosa eloquenza dimostrate le perverse tendenze finali, li chiamò frutti velenosi dell'albero malefico di quella Santa Alleanza, che aggredivano e maledicevano in ogni pagina. Giudizio severo, ma non ingiusto, avvegnaché fosse profferito ad imprecare a quella funesta letteratura, dalla quale que' libri derivavano come da fonte primigenialetteratura, che creata con perfido intendimento dagli oppressori, e passata in Francia, aveva varcate le Alpi ed a guisa di morbo pestilenziale erasi rovesciata sulla misera Italia, che per forza di tradizioni, di costumanze, e di natura potentemente l'aborriva. Roberto gemeva nel vedere la generosa e fervida gioventú italiana, vergognando della sonnolenta immobilità de' vecchi, farsi seguace de' nuovi apostoli, che tendevano a produrre un movimento forse piú mortifero del primitivo torpore. E quando gli eventi proruppero incalzanti e impetuosi, e la nazione parve assumere l'aspetto dell'oceano che nelle viscere acchiuda la tempesta pronta a scoppiare; mentre tutti gridavano: «Viva!» egli aveva trista e pensosa la fronte, perocché gli piangeva l'anima nel mirare il popolo abbandonarsi ad un'ebbrezza, che cominciata col riso, si sarebbe chiusa con un fiume di lacrime vane. In que' giorni, richiesto da una culta signora senese a scrivere qualche cosa nel suo Albo, Roberto con modo scherzevole vi scrisse tali pagine sulle cose d'Italia, e sull'uomo salutato come genio redentore, che la egregia donna rendendogli grazie gli diede del matto, come quello che opponevasi all'opinione unanime di ventiquattro milioni di popoli, anzi di tutta l'Europa; ma nel 1849 la stessa signora rileggendo quelle pagine, le disse una profezia, la quale per Roberto altro non era che una dimostrazione rigorosamente logica, desunta e convalidata da otto secoli di storia, non mai smentita.

Nondimeno teneva sempre d'occhio lo agitarsi dell'Italia, e mentre i cuori di tutti i popoli battevano del palpito della libertà come un cuore solo, il suo palpitava anch'esso ma piú di angoscia che di gioia, vedendo i prodi giovani muovere alla grande conquista, dietro il vessillo di coloro, contro i quali l'Italia di padre in figlio, per bocca dei suoi grandi scrittori, aveva tramandato il sentimento dell'odio a guisa d'una sacra tradizione. Come poi Francia si scosse, e volse in fuga ignominiosa l'astuto e perfido principe che per diciotto anni corrompendola l'aveva oppressa, e si affacciò sulle Alpi predicando nuovi e funesti deliri onde pervertire le sublimi ed oneste aspirazioni delle genti europee, Roberto ne gemé profondamente, ed anticipando gli eventi, avvertiva la patria a guardarsi dalle lascive lusinghe della Francia come dalle carezze d'una meretrice, che, nuova Dalila, briacava le nazioni per addormentarle nelle sue braccia impudiche e consegnarle ebbre e spossate ai loro eterni oppressori perché le stringessero in piú dure catene e piú pese. Tale essersi condotta la perfida sempre da Carlomagno fino a Napoleone, ed avere sempre varcati i monti con astuzie ed inganni, con impudenza nuova e incredibile nella storia de' popoli, tradendo, spogliando e schernendo le misere vittime delle sue nefande lascivie. E concludeva: — Una nazione che non ha saputo mai godere della libertà, che dal servaggio piú ignominioso passa alla licenza piú sfrenata, che, marcia di decrepitezza, affetta il vigore della gioventú, che, spergiura a un padrone spergiuro, lo caccia, per affaccendarsi a cercarne un altro, che insulta al caduto e vergognosamente si sobbarca alla verga con cui un finto soldato le flagella le spalle... guardati, o Italia, dalla meretrice delle nazioni; destati pure, corri alle armi, ma fida nel solo tuo braccio e nella giustizia di Dio!

Quando l'incalzarsi degli eventi fece alto suonare il grido di guerra, quando alla guerra santa vide tutte le italiche genti accorrere da ogni lido piú lontano della penisola, quando il muoversi portentoso degli oppressi colpí di stupore gli stranieri padroni ai quali il timone era uscito di mano, anch'egli s'illuse che erano per rinnovarsi i prodigi della antica Lega Lombarda, sognò la virtú della lancia d'Achille, credé che l'onnipotenza di Dio con nuovo prodigio volesse rendere il principio delle tenebre sorgente di luce; e sordo ai sinistri presentimenti del suo cuore, congiuntosi ai suoi concittadini, corse animoso al campo di battaglia; quivi coi consigli e con lo esempio inanimiva gli scoraggiti, infiammava i tiepidi, frenava i violenti, metteva nella diritta via gl'illusi. E vedendo le sorti delle armi declinare a danno della patria, cui lacerava il seno la discordia calunniatrice, potentissima alleata dell'inimico, destata e infiammata da coloro che avevano inalberato l'italico vessillo e benedetta la nuova crociata — come i perfidi la chiamavanoRoberto disperato dell'impresa, e perduta ogni ragione di vivere, dopo di avere combattuto valorosamente nella gloriosa giornata di Curtatone, vergognando di retrocedere si spinse fin dove ferveva piú feroce la mischia e cadde da eroe gridando: — Viva l'Italia!





p. -
23 L'autore nella sua Storia della letteratura italiana [Lezione quarta], reca il principio d'un sonetto, scritto da Guido a scuotere lo spirito di Dante dalla prostrazione morale che l'opprimeva;

 

Io vengo il giorno a te infinite volte

E truovoti posar troppo vilmente;

Molto mi duol della gentil tua mente

E d'assai tue virtú che ti son tolte ec.

 

[La prima quartina del sonetto XLI di Guido suona, secondo il testo stabilito dal Contini:

 

I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte

e trovoti pensar troppo vilmente:

molto mi dòl della gentil tua mente

e d'assai tue vertú che ti son tolte.]



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