Luciano Zuccoli
L'amore di Loredana

PRIMA PARTE.

XV.

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XV.

 

Le emozioni della signora Clarice Teobaldi non dovevano finir così presto.

Quella sera stessa vide partire Loredana con sua madre nella carrozzella che le conduceva a Desenzano. La fanciulla, vestita d'un abito nero, inelegante e povero, mostrava gli occhi stanchi per il pianto, e tutto il suo corpo si reggeva a mala pena, quasi che un peso invisibile e intollerabile le gravasse le spalle.

Salita nella carrozza, fece alzare il soffietto, si rincantucciò al suo posto, abbassò il capo, e parve con la mente allontanarsi subito da tutto quanto la circondava. Sua madre non apriva più bocca, ma aveva sguardi lunghi e meditabondi per la figliuola.

La vettura, partì, s'avviò per la strada sulla quale Loredana aveva il giorno stesso incontrata la mamma; sparve nell'oscurità della sera calante; qualche tempo ancora risonò il tintinnìo dei campanelli, poi il silenzio ricadde come un velo fitto, che separasse per sempre il passato da ciò che doveva avvenire.

La Teobaldi, rimasta sola, col cuore gonfio di gratitudine per la missione delicata affidatale da Loredana, col cuore gonfio di sconforto per la partenza della fanciulla, disdegnando esprimersi con l'albergatrice, salì nelle camere di Loredana, ne trovò l'uscio aperto, entrò.

Sulla tavola stava un doppiere, che la Teobaldi ravvisò nella penombra; ella lo accese, gettò un'occhiata in giro, afferrò il senso di desolazione ond'erano invase quelle camere, nelle quali s'era svolto un poema d'amore. Il piano era tuttavia aperto; in un angolo stava un grosso baule; sul divano giacevano un cappello bianco, una cintura rossa, un ombrellino scarlatto, gettati alla rinfusa, quasi con rabbia.

Nella camera da letto, dove la Teobaldi si recò, portando con mano incerta il doppiere pesante, restavano sul cassettone ancora tutti gli oggetti graziosi, ch'ella aveva ammirato altra volta; spazzole o pettini d'avorio, uno spruzzatore d'argento, un bruciaprofumi in bronzo; innanzi al letto le pantofoline trapunte d'oro; a terra giaceva, anche una camicia da notte, che la Teobaldi raccolse, piegandosi dopo non pochi sforzi, e ammirò per i bei merletti che l'ornavano.

Aleggiava nell'aria un profumo tenue, come la persona che era vissuta nella camera avesse lasciato dietro di un solco misterioso, fatto di olezzo inafferrabile e penetrante.

La Teobaldi ritornò nel salottino, depose sulla tavola il doppiere, e si mise al piano.

Le tornarono alla mente le note di quella romanza, «Mon rêve», che aveva cantato a Loredana; e le richiamò, dolcemente, stonando con delicatezza, quasi che la fanciulla avesse potuto ancora udirla. Ella se l'imaginava come allora, distesa sul divano, tutta bella, tutta superba del suo amore, nervosa per l'impazienza di riveder presto il conte.

Ma volgendosi, Clarice sentì il vuoto che la circondava, e restò al piano assorta....

Ah, essa aveva capito subito un mistero nella giovane esistenza di Loredana, e aveva tremato subito per lei! Chi le avrebbe detto ch'ella stessa, Clarice, sarebbe stata la confidente in quel dramma, troppo semplice per non essere compreso?

Di quella fiducia insperata, la Teobaldi conservava, così profonda l'impressione, ch'ella si sarebbe ormai fatta uccidere piuttosto di parlarne. Non le era mai avvenuto d'essere messa a parte d'un segreto, perchè i maligni la dicevano pettegola; soltanto Loredana aveva improvvisamente, istintivamente avvertito ch'ella sarebbe stata capace, per amor proprio e per gratitudine, d'un silenzio eroico.

Non aveva nemmeno letto il telegramma affidatole da Loredana, e l'avrebbe spedito senza leggerlo.

Presa questa risoluzione, ella passeggiò con le mani sulla tastiera ingiallita e suonò lentamente la «Serenata» di Schubert, che le spezzava sempre il cuore, e che in quell'occasione le fece piover dagli occhi lagrime abbondanti. Pareva l'addio alla fanciulla lontana, che nel frattempo viaggiava, viaggiava, verso un destino crudele, verso una città nella quale non avrebbe trovato se non memorie di giorni cancellati per sempre; pareva il grido d'un'anima stanca e delusa....

Ma, la Teobaldi si destò di soprassalto dal suo sogno.

Aveva udito la voce dell'ostessa, la quale stava ritta sul limitare, e le diceva:

- Che le viene in mente, signora Clarice? Bisogna chiudere, qui, perchè mi hanno affidata tutta la roba....

- Non penserà mica ch'io son venuta a portarla via? - osservò la Teobaldi alteramente.

- Dio me ne guardi! - esclamò l'ostessa.

- Bene, bene, me ne vado, - concluse Clarice.

Si alzò e si avviò verso l'uscio, per recarsi nella sua camera; ma l'albergatrice aveva voglia di chiacchierare, e riprese:

- Che ne dice?

- Di che?

- Ma di questa partenza. Ha visto com'era disfatta la signora contessa? Che ne dice, lei?

- Io? Io ho l'abitudine di non impacciarmi degli affari altrui, - sentenziò la Teobaldi. E aggiunse, con una occhiata di traverso: - E lei farebbe bene a imitarmi, per rispetto ai suoi ospiti!

L'albergatrice rimase intontita, fulminata, da tanta austerità, alla quale non trovava altra spiegazione se non che gli artisti son tutti pazzi da catena.

Ma intanto la Teobaldi l'aveva piantata sulla soglia; e quasi ad aumentar la stupefazione della femmina, riprese con tono imperativo:

- Domattina alle otto, una carrozza per Peschiera!

L'ostessa spalancò la bocca, e allargò le braccia.

- Come, signora Clarice, vuol partire anche lei! - esclamò la povera donna. - Sarebbe offesa per quel che le ho detto, senza intenzione...?

- Che partire! Faccio una scappata e torno; starò fuori poco più d'un'ora in tutto.

L'ostessa respirò e non rispose altro, racconsolata.

La Teobaldi fece come aveva detto. La mattina seguente, alle otto, montò in carrozza, giunse a Peschiera, spedì il telegramma senza leggerlo, si fece rilasciare una ricevuta, e tornò a Sirmione.

Sulla soglia dell'albergo trovò l'ostessa, che appena la vide, le andò incontro col più schietto de' suoi sorrisi, e le disse:

- Veda, signora Clarice. Io ho chiuso l'appartamento del conte Vagli. Queste sono le chiavi, e vorrei pregarla di tenerle lei.

Clarice le prese, le mise in tasca, e rispose:

- La ringrazio; penserò io a tutto. La ringrazio molto.

L'ostessa aveva parecchie domande da fare, ma non osò.

- Anche la signora contessa, - osservò rientrando, - sarà contenta che le tenga lei, perchè le voleva bene.

- Ah sì, che sia benedetta! - esclamò la Teobaldi. - Mi voleva bene, mi stimava, mi considerava. Giovane come l'acqua, ma testa fina!...

E a vincer la tentazione di spiattellare ogni cosa, s'arrampicò bofonchiando per le scale, e riparò nella sua camera.

Vi sarebbe restata, tutto il giorno, contentandosi di mangiare il prosciutto e l'uva che s'era comprato a Peschiera, se verso le quattro non fosse accorsa l'ostessa trafelata a chiamarla.

- Venga, signora Clarice, - ella disse alla Teobaldi. - È arrivato il signor conte, e desidera parlarle.

La Teobaldi arrossì per l'emozione.

- Il signor conte? - ripetè. - È già arrivato? Desidera parlarmi?...

Si diede un'occhiata, per incosciente civetteria, in uno specchio che la faceva verde; si aggiustò i cernecchi grigi, si diede un colpo di mano alla veste, e finalmente seguì l'altra, che aveva frenato a stento l'impazienza.

Sotto l'atrio trovarono Filippo, che passeggiava nervosamente, a testa bassa, arricciandosi i mustacchi. La Teobaldi si sentì stringere il cuore, vedendo quel viso sbiancato: si sarebbe detto che in così poco tempo Filippo fosse dimagrito e che una mano invisibile lo curvasse un poco.

 

 

 


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