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XVII.
«Non si tratta d'una pagina della mia giovinezza; si tratta della mia vita intera.». Le amare parole che la figlia aveva pronunciato in un grido di dolore, tornarono alla mente di Emma De Carolis non appena ebbe varcata la soglia di casa a Venezia.
Tutto era mutato. Loredana trascinava con sè, in quelle camere già piene delle sue risa e del suo canto, qualche cosa d'infinitamente triste, qualche cosa che non si poteva vincere, qualche cosa che mutava il senso della vita, rimanendo immutabile.
Emma la guardava camminare, parlare, vivere, senza riconoscerla; la fanciulla d'un giorno era spenta.
Subito, appena arrivata, Loredana, s'era messa a letto con la febbre; quel viaggio di sera, da Desenzano a Venezia, quella strada già percorsa in senso inverso con Filippo, e tutta piena di episodii memorabili, le avevano suscitato in cuore un tale spavento, una tale disperazione, da farle perdere conoscenza appena tornata nella sua casetta sul campiello muto.
E di quello strazio le eran rimasti in mente una lettera e un numero, «a 3622 a», ch'erano segnati all'interno sulla portiera del vagone, e che ella aveva fissato per tutto il tempo del viaggio attraverso la campagna scura.
La canicola mozzava il respiro; Venezia era deserta; i vaporetti portavano al Lido orde di disperati in cerca d'aria più leggera; e lo scirocco pesava, spietatamente, fiaccando il corpo e lo spirito di giorno e di notte.
Per un mese intero, Loredana non volle uscir di casa; la gente le incuteva paura, i discorsi la irritavano; se la madre era intorno a lei con mille piccole cure insolite, ella sentiva la pietà pel suo dolore, e il dolore le tornava più vivo; se la madre si sforzava di fingersi lieta, Loredana si sentiva sola, avvilita, torturata da un sogno e da un rimpianto inutili.
Ad ogni tentativo di sollevarsi, di liberarsi, di rivivere, s'agitavano in lei i ricordi minuti del suo amore, ed era come chi non potendo retrocedere, nè avanzare, nè durare sul posto, si dispera in cerca d'un aiuto o d'una idea o d'un'illusione.
Di Filippo, non più notizie. Che pensava? Che contava di fare? L'aveva abbandonata così, approfittando dello insperato intervento della madre? Il suo amore era stato anche più vile e più rapido d'un capriccio; Filippo aveva voluto il corpo della fanciulla, lo aveva corrotto per la sua libidine, lo aveva foggiato a strumento di piacere; e, subito stanco, non tentava nemmeno difendere la sua conquista. Tre anni di finta amicizia gli avevan dato finalmente il possesso di Loredana; e pochi giorni eran bastati a saziarlo; essa era stata il suo zimbello per tutto quel tempo; e non aveva memorie che di Filippo, perchè tre anni addietro era una piccoletta, che confondeva ancora il conte con le bambole.
Come vivere, ormai? Che cosa poteva sperare? Aveva provato ogni gaudio nel giro di brevi giorni; il suo corpo sentiva ancora la carezza lunga e morbida, che l'aveva iniziata all'amore, dando al sangue un moto più vivo, più gagliardo, più impetuoso; e tutto d'improvviso le era stato tolto; e le notti insonni erano insopportabili per lo spasimo del desiderio che le ricordava una bocca ardente, un abbraccio violento, una preghiera e un dominio.
Ma non era possibile che Filippo fosse così repentinamente scomparso dalla sua esistenza. Doveva tornare; sarebbe tornato domani, doman l'altro, un altro giorno prossimo; l'avrebbe richiamata, per continuare quel gaudio, per confondere le anime loro....
Il passo di sua madre la faceva trasalire. La mamma aveva snebbiato il sogno, e invece dell'amore di Filippo le aveva recato il perdono. Chi chiedeva il suo perdono? Erano felici; lassù, ai piedi delle Grotte, non si ricordava la madre, non si ricordava il mondo; le acque del lago erano limpide e gli amanti vi si specchiavano, e le loro voci avevano toni d'infinita sollecitudine, e le giornate erano brevi, e le notti erano brevi. Egli la spogliava con quelle sue mani esperte, e ogni sera ella arrossiva, fremendo e sentendo il fremito di Filippo, che voleva indugiare e far presto, contemplare e possedere, allontanar la coppa e bere avidamente. Il mattino, sempre lieto, ascoltava i loro discorsi; dovevano partire di giorno in giorno. Filippo parlava di Roma con un entusiasmo che nessuno avrebbe mai supposto in lui; Roma tutta dorata d'un sole giallo e abbagliante, Roma stupenda a dispetto degli uomini e del tempo, Roma che ha visto milioni di pellegrini d'amore, sperduti e obliati nei secoli, contenti e umili, Roma appariva anche nei sogni di Loredana. E dovevano andarvi di giorno in giorno, ma intanto le acque limpide del lago e la quiete del paese e il bel silenzio e le care abitudini di giorno in giorno li trattenevano. Che importava? Vi sarebbero giunti, più tardi; come presente e come avvenire non avevano che il loro amore, il quale pervadeva anche tutto il passato di Loredana; sarebbero giunti più tardi a Roma, col loro amore, grande abbastanza per così grande teatro....
Invece di quell'arcano, di quell'intimo poema, fatto di realtà e d'illusione, forte e inebbriante questa come quella, la vita s'era chiusa d'un tratto. Pareva a Loredana d'essere stata colta nel sonno e trasportata a Venezia; e nessuna di tante delizie esisteva più; non restava che il perdono di sua madre e l'obbligo di tacere, simulando una verginità di corpo e di mente, che aveva offerto da tempo in olocausto, tutta vibrante di gioia, al solo uomo degno d'insignorirsene.
Poi cominciarono i pettegolezzi.
Emina De Carolis s'accorse in breve, con terrore, che tutti sapevano. Che cosa sapevano? Ogni cosa e niente. Ma nessuno aveva creduto al soggiorno di Loredana a San Donà; avevan fatto finta di credere per convenienza; si era notato che a San Donà Loredana non aveva messo piede quell'anno, e che sua madre era turbatissima, e che rifuggiva dal parlarne; e che una notte era tornata da un paese misterioso, con la figlia, che non pareva più quella, che alcuni dicevano malata, che altri affermavano essersi imbruttita e che gli uomini esperti giudicavan bella, degna di concupiscenza e già istruita per l'amore.
S'era saputo che anche quel signore, un conte, il conte Filippo Vagli, il quale frequentava la casa da amico intimo, anch'egli era stato assente da Venezia tutto il tempo ch'era mancata Loredana.... Come s'era saputo? Per quella misteriosa catena di parole e di chiacchiere, che ha talvolta il primo anello in un'alcova e l'ultimo in una bottega.
La famiglia Gianella, avuto appena sentore di qualche diceria, soffiò sotto, perchè il giovane Adolfo non tornasse a incapricciarsi di quella svergognata, non pensasse alle volte di sposarsi quella disperazione. Si determinarono i fatti: Loredana era scomparsa qualche tempo per mettere alla luce un figlio, che aveva abbandonato in campagna, presso una contadina; il figlio era nato dalla tresca tra la ragazza ed il conte, il quale aveva coronato l'opera abbandonando la sedotta.
E vennero fuori i testimonii improvvisati di quell'amorazzo: chi aveva visto Filippo entrar nella casa a notte fatta e non partirsene che all'alba; chi aveva notato che la madre lasciava gli amanti soli, chiusi in camera, per lunghe ore; una vicina, affacciandosi alla finestra, aveva dovuto assistere agli amplessi dei due, che si davan baci spudoratamente; un'altra invece affermava che non appena giungeva in casa Filippo, le finestre del salotto si chiudevano e si tiravan cortine e tende.
Questa marea di fango saliva, saliva, a poco a poco; forse in qualche anima di ragazza brutta o di donna volgare rodeva anche l'invidia per l'avventura, qualunque ella fosse stata, e ciascuna, pensava che al posto di Loredana avrebbe ceduto, ma più sapientemente, così da provvedere anche al proprio domani; e ciascuna si rammaricava di non aver trovato un ricco signore per amarlo, esserne amata e metter da parte un peculio. Onde, allo sdegno per la verecondia calpestata, non andava disgiunto in quelle donne un certo senso di commiserazione sprezzante per l'idealismo di Loredana, che seminava figlioli senza assicurarsi l'avvenire.
Ma quella madre! Quella madre che non aveva occhi nè orecchie, e si lasciava sedurre in casa la figlia, e se la riprendeva poi con tanto agio! Che pensare di quella madre, se non che ella avesse trovato il suo tornaconto nell'affaraccio?
Una comare, la signora Opimia Incudi, un vero chiodo dalla testa piccola sopra il corpo allungato, si presentò finalmente a Emma De Carolis, la quale non ricordava bene dove l'avesse conosciuta; e avvisò la signora delle voci che correvano, perchè sapesse regolarsi, perchè non si fidasse della gente, perchè provvedesse a tutelare l'onore suo e della figliola, perchè era tempo di metter fine a tanta cattiveria. E nel frattempo la signora Opimia stava, a guardar l'effetto delle notizie sulla faccia di Emma, e aspettava qualche risposta che servisse a nuovi comenti e a nuove induzioni. La faccia di Emma era pallidissima, gli occhi le si appannavano per lo sdegno; ma mentre appunto doveva venir la risposta, la difesa, la confessione, qualche cosa che ripagasse la signora Incudi della sua buona opera, comparve in salotto Loredana, la quale si fece ripetere tutta la storia.
E fu un colpo per la signora Incudi, quando la fanciulla si mise a ridere. Anche la mamma la guardò con un senso di sollievo, perchè aveva temuto che Loredana soffrisse acerbamente.
Loredana rideva, senza ostentazione, trovando nuova cagione d'allegria e di risa nell'aspetto stralunato della signora, alla quale traballava, la punta del naso lunghissimo sotto l'impressione della maraviglia.
Poi, senza dir parola, Loredana uscì, lasciando che sua madre s'indignasse per le calunnie riferite; e non fu mai così allegra come quel giorno.
La visita della signora Incudi le aveva fatto bene, le aveva recato un alito di vita; il susurro di quei pettegolezzi la ristorava. Non aveva cercato di meglio; ora sapeva, ora aveva il concetto chiaro di quel che poteva aspettarsi.
Era contenta che si mormorasse; ciò le risparmiava la commedia che sua madre aveva ingenuamente pensato, quella commedia di verginità, che le ripugnava. Era stata l'amante di Filippo, non aveva amato che lui ed era ancora sua.... Doveva fingere per la signora Incudi e per le sue amiche, doveva far loro intendere la nobiltà del suo sentimento, se quelle femmine per poco non l'accusavano di avere ucciso un figlio?
Ormai, al confronto di tutto ciò che si narrava, esser l'amante di Filippo sembrava quasi una virtù; e lieta di quella strana liberazione dalle paure del mondo, che la malignità del mondo le offriva, Loredana sentì crescere il coraggio per sostener meglio lo sguardo di sua madre, per attendere ciò ch'ella sperava in segreto ostinatamente, per vivere della sua vita, senza curarsi del giudizio altrui. La collana d'oro a maglie piccoline con la medaglia era diventata un talismano, e la fanciulla aspettava, credeva, perchè la medaglietta diceva: «Sempre» e recava una data, che Filippo non doveva dimenticare.
Si rimise a vivere; andò a trovar qualche amica, la quale non pareva saper nulla, ma non domandava nulla intorno a quanto aveva fatto Loredana in quell'ultimo tempo; uscì a passeggio, e perfino un giorno, un giorno dal sole furioso, le salì alle labbra un motivo che non le piaceva e che pur l'inteneriva, e si provò a cantare, e tacque subito, perchè quell'aria le rammentava la cameretta cara di Sirmione e la povera signora Teobaldi, tanto maltrattata in principio, che si girava sullo sgabello di reps rosso, e diceva, aspettando un elogio:
- Eh?