Luciano Zuccoli
La freccia nel fianco

PRIMA PARTE.   ....fiori animati esperti de la gioia e de l'affanno.

X.

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X.

 

Il viaggio di Fabiano e Brunello era stato spaventevole.

Il conte aveva pensato di partire in carrozza verso l'alba, per raggiungere una stazione ferroviaria ch'era a dodici chilometri dal paese. Ma dopo pochi minuti di viaggio, l'uragano furioso era scoppiato. Fischiava il vento attraverso il fogliame che si disperdeva nell'aria, tentennavano gli alberi come dovessero ad ogni istante rovesciarsi addosso alla vettura, rombava il tuono da vicino e da lontano incessantemente.

Vico Malerba, il vetturale, accecato da nembi di polvere, non vedeva più la strada, e uno dei cavalli, ombratico e vizioso, tentava di prender la mano e di trascinare a sbrigliata fuga anche l'altro.

Brunello si svegliò.

- Dove siamo? - chiese.

Cominciarono i fulmini a crepitare, squarciando le nubi dense; e venne una grandinata soda come fosse fatta di proiettili, che spezzavano i rami più deboli e strappavano le foglie.

- Bisogna fermarsi! - dichiarò il vetturale.

La carrozza aveva un soffietto che la riparava soltanto a metà, e dentro precipitava la tempesta, balzando sul legno, schizzando da ogni banda, battendo sulla groppa dei cavalli. Il vetturale era sceso e s'era messo alla testa degli animali per frenarli; il conte scese a sua volta.

- Sta fermo! - ordinò a Bruno. - Vado a tenere i cavalli.

Ma Brunello non badava ai cavalli all'uragano.

- Voglio Nicla! ~ egli disse. - Nicla!... Dov'è Nicla? Papà, dov'è Nicla?

Suo padre non rispose: teneva il morso del cavallo di destra, mentre il vetturale teneva quello di sinistra. Ambedue gli uomini stavano sotto la grandine, folgorati di continuo dai grossi chicchi, feriti alle mani, e tuttavia pronti a parar gli scarti e a domar le impennate dei cavalli. Un fulmine scoppiò poco lontano, fece traballare il conte e il vetturale; i cavalli diedero uno strappo, furono rattenuti a gran fatica.

L'aria era così scura, che pareva notte; il vento cantava su mille toni, con mille voci, ora sottili e gemebonde, ora minacciose e frementi; a quando a quando sibilava un fulmine, appariva tra le nubi una linea d'oro, cadeva tra le chiome irte e sconvolte degli alberi.

Poi, cessata la grandine, cominciò la pioggia.

- Ora possiamo andare, - disse il vetturale. - A un chilometro da qui, anche prima, c'è un'osteria, dove potremo fermarci, perchè i cavalli per oggi ne hanno abbastanza. Riprenda il suo posto, signor conte.

Fabiano risalì nella vettura e si pigliò Brunello tra le braccia.

- Nicla, dov'è Nicla, papà? - disse il bambino.

L'acqua veniva a torrenti, inondava la carrozza, formava una pozzanghera nella pianta della cassa, sgocciolava per le fiancate; e il vento rendeva più aspro e crudo quel diluvio.

I cavalli correvano con tutta la loro lena; drizzavan le orecchie ad ogni brontolìo di tuono, scartavano ad ogni balenar di folgore, ma andavano a rompicollo, quasi avessero voluto sfuggire a quell'inferno. E la pioggia entrando a sghembo nella vettura, aveva ormai inzuppato i due viaggiatori.

- Dormi, piccolo, - disse Fabiano.

- Perchè mi porti via? - domandò Brunello.

Gli rispose uno schianto formidabile, che fece sobbalzare uomini e bestie; un fulmine era scoppiato a pochi passi.

Il conte adagiò Bruno e prestò mano al vetturale, che s'era teso ad arco per trattenere i cavalli, i quali puntavano sul morso e si sforzavano di precipitarsi finalmente a una fuga rovinosa.

Fu il più difficile episodio della corsa, e fu l'ultimo.

Indi a poco, la vettura poteva ricoverarsi all'osteria indicata da Vico Malerba, e gli uomini ne scendevano.

Brunello era intontito; batteva i denti, tremava da capo a piedi, sgocciolava tutto.

Una grossa donna, che conduceva l'osteria, spogliò il fanciullo e lo mise a letto, ma qualche ora più tardi una fortissima febbre lo colse. Delirava.

Seduto accanto al letto, spiando nel volto congestionato di suo figlio il progredire del male, il conte stava assorto e dubbioso.

Fuori scrosciava ancora la pioggia e fischiava il vento, vicino e lontano.

La camera era illuminata da una candela e nulla pareva più malinconico che quell'uomo in quella muta stanza, l'occhio fisso nell'occhio vitreo del suo bambino.

Vico Malerba, riparati i cavalli e datasi una scrollata, salì a prendere gli ordini.

- Fra mezz'ora splenderà il sole, - disse. Ma visto Brunello a letto e il conte immobile a scrutarlo, tacque subito.

- Fra mezz'ora! - ripetè Fabiano. - È impossibile ripartire per oggi. Non vedi che il piccolo è ammalato? Domanda all'ostessa se si può avere un medico.

- Vado, - rispose il vetturale. - In ogni modo, tengo il legno a disposizione del signor conte.

E avvicinandosi un poco al letto, soggiunse:

- Sarà cosa da nulla, vedrà.... Il cambiamento del tempo.... E poi i bambini salgono e scendono con la febbre.

- Va a cercare il medico! - interruppe il conte.

Il vetturale uscì e parlò con l'ostessa. Non v'erano in quel villaggio medico farmacia.

Quando fu detto questo a Fabiano, egli tese il pugno verso il cielo e si lasciò sfuggire una bestemmia.

- Bisogna trovarlo, - rispose. - Mandate a cercarne.

- Otto chilometri d'andata e otto di ritorno, signor conte, - osservò l'ostessa.

Fabiano le mosse incontro con tal piglio, che la donna uscì senza più ribattere.

Passarono due, sei, dieci ore; cessò la tempesta, venne il sole, tramontò. Nella stanza il padre tormentato dallo spavento e dal rimorso percorreva chilometri in uno spazio di quattro metri, e il bambino smaniava nel delirio.

Verso le sette di sera giunse il medico; un povero piccolo medico di campagna, il quale aveva avuto la previdenza di portare seco il chinino. Non riuscì a fare una diagnosi precisa, parlò d'elmintiasi e diede il chinino, prescrivendo di ripetere di tre in tre ore la dose.

Scese la notte.

Il conte, che non aveva gustato cibo mutato abito, vegliò, seduto in una poltrona stinta e senza molle. Alle dieci di sera e al tocco dopo mezzanotte diede nuovamente il chinino; la febbre scemava rapidamente; al levar del sole era cessata.

- Ebbene, piccolo, che m'hai fatto? - disse Fabiano, chinandosi a baciare Brunello.

Questi sorrideva, ma era stordito e debole.

Fabiano decise di fermarsi ancora tutto quel giorno all'osteria, e il vetturale si fermò egli pure, a disposizione del signor conte.

Soltanto l'indomani, con le ossa rotte dalla febbre, le gambe tremanti pel chinino, una grande lassezza in tutto il corpo, Brunello fu rimesso in vettura e riprese il viaggio.

Aveva negli orecchi il frinir continuo d'innumerevoli cicale; di tutto quanto era avvenuto negli ultimi giorni riteneva alcune imagini confuse, venute in parte dalla realtà, in parte dalla febbre. Rivedeva Nicla nel suo abito d'acciaio, Duccio Massenti che voleva offenderla, il papà che l'uccideva, poi lo scoglio della Croda, i fulmini, le groppe dei cavalli gocciolanti di pioggia.

Ma non diceva parola con suo padre.

Lo guardava di sottecchi, mostrando il broncio, e aspettando d'essere più forte per tornare da Nicla.

Prima d'abbandonar l'osteria, il conte compensò liberalmente il medico, l'ostessa, quanti lo avevano servito. Era in dure strettezze finanziarie, ma quando metteva mano alla borsa, non sapeva più contare.

Si recava a trattare con la famiglia, in una mediocre città di provincia di cui cinque secoli avanti i Traldi di San Pietro avevano avuto il dominio; e ancora possedevano, oltre parecchie case in città, vasti terreni e ricche fattorie nei dintorni.

Il conte Fabiano non si dissimulava che la lotta sarebbe stata dura, perchè la madre e i fratelli non trattavan più con lui se non per il notaio Clemente Alemanni, amministratore della sostanza; e Fabiano sospettava che l'Alemanni s'ingegnasse da tempo a fargli più avversi i fratelli e la madre.

Quanto all'Alemanni, egli conosceva bene il conte, perchè da giovanetto, in seguito a una disputa per affari. Fabiano lo aveva inseguito con la rivoltella in pugno, obbligandolo a ricoverarsi in una soffitta.

Viaggiarono l'intero giorno, parte in vettura, parte in ferrovia.

Quando fu per congedarsi, Vico Malerba rivolse un saluto a Brunello:

- Stai bene, eh, piccolo? - disse familiarmente. - Spero che ci rivedremo, e tornerai dalla signorina Nicoletta.

Bruno afferrò la mano scarna del vetturale e sorrise.

- È molto lontana? - dimandò.

- Sì, laggiù, dietro i monti; ma con la ferrovia si fa più presto! - rispose Vico.

Nicla laggiù dietro i monti! Non sì poteva nemmeno udir la sua voce!

- Le dirai che io torno? - riprese il fanciullo. - Le dirai che io sono qui per gli affari del papà, adesso; ma poi torno; e che mi aspetti.

- Non dubitare! - esclamò il vetturale, mettendosi una mano sul petto. - Che io muoia qui, se non glielo dico appena sono a casa!

Bruno sorrise ancora, più riposato, come un uomo che ha trovato intanto un piccolo rimedio a un grosso malanno.

Quella sera le sue impressioni s'arricchirono della visione d'una città di provincia immersa nel sonno con le persiane tutte chiuse, d'un omnibus che traballava sul selciato, d'un modesto albergo.

Fabiano diede al fanciullo una tazza di latte caldo; poi lo svestì, lo lavò, lo mise a dormire.

Stette a guardarlo lungamente, meditabondo.

Brunello dormiva, coi pugni stretti e i capelli sparsi sul guanciale.

Che poteva sognare? La tempesta, la fuga dei cavalli tra fulmini e rombi, la pioggia, il medico, l'osteria di campagna, lo scotimento del treno.

Non poteva sognare altro, non aveva più liete imagini che quelle.

Una sì, c'era, fresca e olezzante, l'imagine d'una fanciulla che lo proteggeva; ma gliel'avevano strappato di mano, per ricondurlo attraverso il mondo, con la febbre sotto la pioggia crudele.

Il conte ebbe un gesto desolato. Perchè condurre alla rovina anche l'innocente che non aveva macchia e non chiedeva nulla?

Si scosse al pensiero della battaglia che lo attendeva l'indomani; e un altro pensiero sopraggiunse, una speranza: la speranza di metter la mano sopra trenta o quarantamila lire. Allora udì nell'orecchio il tintinnìo dell'oro fluido, il fruscìo delle carte, lo scalpito di superbi cavalli ch'erano suoi; e si scostò dal letto, lasciando che il fanciullo sognasse i suoi tristi sogni.

Sbrigò la corrispondenza arretrata, e preparò un biglietto per Elia Polacco, personaggio che gli era da più tempo ben noto.

 

 

 


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