Luciano Zuccoli
La freccia nel fianco

SECONDA PARTE.   Io coglierņ per te balsami arcani....

XVI.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

XVI.

 

Trascorsero mesi, trascorsero anni, così, in quella vita che aveva tutta l'apparenza d'un giubilo festoso, d'un tripudio giocondo, ed era per Bruno un isolamento selvatico.

Da Parigi era stato più volte a Bruxelles, dove suo padre contava i migliori amici, scelti, come ovunque, tra i più famosi scapestrati del regno; era stato più volte a Berlino e a Vienna con sua madre, per consenso del conte Fabiano.

Ma la lingua tedesca gli dispiaceva, la cucina tedesca gli dispiaceva, gli ufficiali tedeschi che parevano considerare il mondo come un dominio loro proprio, il quale sarebbe stato presto o tardi tagliato a fette dalla loro spada, gli dispiacevano più che la lingua e la cucina.

A Vienna aveva trovato genti meno diverse, che sapevano l'eleganza e la grazia; le donne erano sottili, molto bionde, nervose; i divertimenti avevano carattere di qualche bellezza, lontano dalle sguaiataggini francesi e dalla brutalità tedesca.

Il professore Salapolli che accompagnava Bruno in quei viaggi non vi si era mai abituato; gli mancava il pane dei vecchi libri; non era fatto per gli svaghi; e la contessa Clara Dolores lo interrogava troppo sovente intorno alla vita che il conte Fabiano menava a Parigi.

L'ultima volta Bruno aveva incontrato sua madre a Vienna, e gli era parso che anche la casa di lei fosse aperta a mezzo mondo.

Una governante ungherese aveva la direzione, ma la volontà di Clara Dolores, stravagante e impronta, scompigliava ogni cosa.

Si combinavan partite di piacere a tavola, tra dame e gentiluomini, e si effettuavano sul momento, correndo alla campagna di pieno inverno. Si parlava di pattinaggio e mezz'ora appresso tutti dovevano essere al ring.

Qualche volta Bruno tornava a casa con Salapolli per far colazione, e la governante lo pregava di raggiungere subito la contessa all'altro capo della città, in un ristorante celebre; la trovava con altre signore e con un nugolo di uomini, uno dei quali aveva una specie di tutela su di lei, una tutela che gli altri parevano rispettare.

Clara Dolores non scriveva mai: telegrafava, per la città e per fuori. Si faceva arrivare dall'Italia, dalla Francia, dall'Inghilterra gli oggetti che le occorrevano o che il suo capriccio chiedeva.

Andava dicendo che voleva Bruno, che intendeva ritornare in Italia e riprendere la sua vita più riposata, anche pel bene del giovinetto; ma se ne dimenticava poi, sospinta da una specie di fretta che si rispecchiava nella volubilità dei suoi propositi, nella instabilità delle sue idee.

Un tempo, quando era con suo padre, Bruno desiderava ritornare a sua madre; e quando era con sua madre, desiderava ritornare con suo padre.

Ormai non desiderava più l'una cosa l'altra; ma delle due preferiva ancora la vita a Parigi col conte Fabiano. Sua madre menava la stessa esistenza di lui, salvochè le persone intorno svegliavano in Bruno una sorda avversione, forse per l'assoluta disparità di razza.

Non riusciva a comprendere come Clara Dolores potesse intedescarsi a quel modo; gli pareva altra da quella che aveva conosciuta e amata da bambino. Era più attenta a tutte le minuzie dell'eleganza, più gelosa della propria bellezza, e le visite della pettinatrice, della manicure, e il massaggio e il bagno le rubavano tre quarti della giornata.

Bruno aveva osservato che le labbra di lei avevano un rosso inverosimile e che troppo sovente apriva una scatola d'oro legata a una catenella che le pendeva dal fianco e guardandosi in uno specchio piccolo, si passava sul viso, rapidissimo, un minuscolo piumino.

La governante non godeva in casa alcuna autorità innanzi alla manicure e alla pettinatrice, le quali ordinavano a nome della contessa ogni giorno nuove acque e nuovi cosmetici mirifici. Veniva di tanto in tanto anche un medico, specialista di segreti per la bellezza femminile, che alla sua scienza aveva dato nome di Kallotrofia. E per ordinar ricette costose, il Kallotrofo era impareggiabile.

Giovane ancora, bella di nobil bellezza, Clara Dolores si lasciava ciurmare per leggerezza da quegli empirici; e sul suo viso ancora fresco e roseo andava stendendo una maschera che, non potendo aggiungere, toglieva il colorito naturale, e a poco a poco alterava le linee e avvizziva le carni.

Bruno notò un giorno, mentr'erano a tavola, le mani di sua madre, affusolate e bianche, coronate da unghie d'un coloreacceso che per certo il pennello vi era passato.

- Hai le unghie dipinte? - chiese Bruno.

Ella non rispose.

- Le ho già viste, - seguitò Bruno, aggrondando le sopracciglia. - Le ho viste già, a Parigi...

E sua madre sentì nella voce di lui un quasi impercettibile tremito.

Ella si guardò le unghie e rispose:

- È smalto del Serraglio....

La voce di Bruno si fece beffarda, d'un tratto, e osservò con finto candore:

- Del serraglio dove ci sono le bestie?...

Clara Dolores, non appena sentiva un'ostilità nell'animo del figlio, ne parlava col professore Salapolli.

- È il carattere del conte! - diceva. - Ne sono spaventata. Ogni volta che il conte mi ha detto una insolenza, non ho potuto ribatterla, e nemmeno rilevarla. Era più nella voce che nelle parole; più in un doppio senso che nel senso diretto.... Bruno ha la stessa arte, lo stesso sarcasmo, lo stesso amore della beffa. E quando penso che vive con quegli esempii sotto gli occhi, con quel grande modello innanzi...! Tocca a lei, professore, dare al ragazzo un'educazione che gli serva da contravveleno. Non desidero tanto che sia dotto quanto che sia diverso da suo padre!...

Il professore faceva un gesto di promessa.

Egli teneva per il conte e per Bruno. Gli pareva che sua madre non sapesse apprezzare il talento e il carattere di quel ragazzo straordinario e che volesse ridurlo a una mediocrità grigia, al figurino di ragazzo che si vedeva al Prater come pel viale dei Tigli come al Bosco di Boulogne: un'oca per bene.

Il sarcasmo! la beffardaggine! l'ironia! Ma era ciò che tacitamente più ammirava il Salapolli, il quale non era mai stato capace di sorridere per tutti i suoi cinquant'anni di vita. Il sarcasmo! la beffardaggine! l'ironia! Ma era il colpo di spada con cui Bruno istintivamente troncava una questione, uccideva un avversario.... Fin che taceva o s'irritava o si commoveva, l'uomo e la questione eran vivi nel suo cervello. Quando vi gettava contro l'acido del suo spirito, la questione e l'uomo eran ben morti.

Sua madre non poteva comprendere queste sottigliezze, perchè fra tutti era la persona che meno conosceva Bruno; forse il gusto per le cose belle ed eleganti veniva da lei e s'era trasformato in inclinazione d'arte; forse a lei doveva Bruno la mobilità dell'ingegno, la vivacità dell'imaginazione, la squisita sensibilità.

Ma ella era lontana da lui; e al professore Salapolli pareva che la contessa non fosse più tanto spaventata dall'idea dei cattivi esempii e dei grandi modelli di sarcasmo che stavano sotto gli occhi di Bruno a Parigi. Eran passati i tempi in cui Clara Dolores sguinzagliava avvocati e sciupava lettere e telegrammi e carta bollata per avere seco il figlio.

Fiutando in aria e guardandosi intorno e vedendo gentiluomini e ganzerini che frequentavano in gran numero la casa, il modesto bibliomane aveva anche indovinato perchè Bruno poteva stare e poteva andarsene, senza gioia soverchia e senza eccessivo dolore della madre.

Infatti, non appena egli espresse il desiderio di tornare da suo padre, Clara Dolores annuì.

Egli aveva allora quattordici anni; portava i capelli lunghi fino alle orecchie e tagliati a tondo; era sottile ma ben costrutto; vestiva spesso di velluto, coi calzoni chiusi sopra il ginocchio, le calze fini, le scarpette scollate. Se metteva in capo il suo berretto preferito con la penna di fagiano, dava l'idea d'un paggio.

Le ragazze che frequentavano l'appartamento di via Glück lo guardavano con un sorriso un po' inquieto, ed egli non le guardava punto; o per vero dire, le guardava tutte nella stessa maniera, con una cortese indifferenza.

Il conte che ne era superbo, teneva l'occhio piuttosto sulle ragazze che su di lui; teneva l'occhio specialmente sopra una leggiadra bionda, esile, con grandi occhi grigi, mademoiselle Armande Jeoffroy, dal fine profilo e dalla testa balzana. Aveva ventidue anni, era l'amante d'un ufficiale d'artiglieria che giuocava sempre e perdeva forte.

Armande era stata presa per Bruno da un'affezione che al conte sembrava smodata; e di tanto in tanto, battendo lievemente sulla spalla di lei e indicando con gli occhi il ragazzo l'avvertiva:

- Glissons, mademoiselle, n'appuyons pas!

Fu in quei giorni che Bruno si battè in duello col conte Gastone de la Jonchère, altro sbarazzino della sua età.

Bruno era andato a trovarlo; pieno la testa dei classici ai quali s'era dato con ardore da qualche tempo e della grande letteratura, egli aveva espresso alcuni giudizii laudativi sulla lingua, che Gastone aveva subito rimbeccato. Bruno sosteneva che la più perfetta lingua del mondo era l'italiana; Gastone ch'era la francese, l'italiana essendo povera e stentata; Bruno osservava che in francese una parola aveva tre, quattro, cinque significati; e che in italiano ogni idea aveva la sua parola, e si avevano più parole per un solo oggetto; Gastone s'era messo allora a scimmiottar la cadenza italiana e Bruno a beffar la cadenza francese; fin che, avendo detto Gastone che l'italiana era lingua da miserabili maccheroni, Bruno perdette il senno e lasciò andare un potentissimo manrovescio al suo amico.

Ma Gastone già sapeva comportarsi cavallerescamente; senza scendere a violenze manesche, chiese immediata soddisfazione.

E ambedue si recarono in sala di scherma, staccarono dalla rastrelliera due fioretti, si misero in guardia e cominciarono il combattimento.

Non v'eran testimonii; la sera calava e nella sala viveva appena una luce penombrosa; s'udivano i ferri battere secchi e i due ragazzi ansare; già saltando e attaccando e respingendo, mutavano il duello in giuoco, e ridevano ambedue senza poter toccarsi.

Ma d'un tratto risuonò un grido e i due fioretti caddero a terra pesantemente.

Bruno era stato colpito in bocca e mandava sangue copioso.

Gastone si gettò fuori a chiedere aiuto, urlando, più pallido del ferito.

Accorsero i domestici, accorse il conte de la Jonchère, fu chiamato il medico, il quale constatò che si trattava di cosa da nulla; una larga graffiatura al palato, che sanguinava abbondantemente; mezzo centimetro più giù, e Bruno sarebbe rimasto fulminato.

Il ragazzo fu ricondotto a casa, accompagnato da Gastone, che doveva chiedere scusa al conte Fabiano; poi per riguardo alle famiglie, si tentò di nascondere la cosa, e non se ne parlò che sottovoce.

Ma se ne parlò molto; il conte Fabiano rimase un paio di giorni come atterrito; il professore Salapolli fu rapito in estasi. Arrischiar la pelle per la supremazia della lingua nazionale! farsi infilare per il vocabolario! Non aveva mai udito nulla di simile: la letteratura aveva dato il suo battesimo di sangue all'alunno prediletto.

E guardandosi intorno, e non trovando alcuno che la pensasse come lui e che volesse dare a quell'avvenimento un significato più largo e simbolico di quel che non meritasse una ragazzata, il Salapolli si ricordò che da molto tempo, da anni, la corrispondenza con Nicla era stata interrotta.

Giudicò che la signora fosse un'ammiratrice di Bruno; e scrisse un lungo particolareggiato racconto dell'avventura sorprendente «alla signora Nicoletta Barbano, casa Barbano, via Santa Margherita, Milano (Italie)».

Due giorni appresso ebbe una risposta, la quale lo confermò nel tacito disprezzo intellettuale ch'egli nutriva per le donne del mondo intero.

La signora non aveva capito niente.

Scriveva accorata senz'alcuna parola ammirativa, esprimendo il più vivo timore per la sorte del «bambino». Ella ricordava che parecchi anni addietro voleva uccidere o fare uccidere un signore che non gli piaceva; e supplicava di vigilarlo, di mettergli in cuore la pietà e la bontà. Del vocabolario e della supremazia della lingua nazionale non teneva conto alcuno.

Salapolli ne rimase così mortificato che non disse nulla a Bruno.

Il giovinetto non faceva più parola, e da anni, di Nicoletta.

Nei suoi occhi la visione della fanciulla che cantava, diritta e sottile sullo sfondo del bosco, la poesia dei balsami arcani, era andata lentamente scolorandosi e poi era scomparsa. Qualche volta gli pareva ch'ella appartenesse a quel mondo fantastico dell'infanzia in cui tutte le cose hanno un significato di miracolo, e un ruscello è un mare, e un arbusto è una selva, e una fanciulla è una fata.

Non già che l'avesse interamente dimenticata; ma non la comprendeva più; non sapeva più s'ella fosse una creatura ornata di tutte le bellezze, viva e vera, o non piuttosto una stupenda creazione del suo sogno.

Egli era tutto preso da un desiderio d'essere diverso, che lo studio dei classici e la biografia degli uomini grandi gli avevan messo in cuore non appena aveva potuto comprendere che ciascun uomo, come gli diceva Salapolli, teneva chiuso nel pugno il proprio destino.

Ciascun uomo serrava nella sinistra la debolezza e la volgarità; nella destra la virtù e la grandezza. Non valeva lagnarci della nostra sorte; era un lagnarci di noi medesimi; era un confessare che non avevamo voluto essere ciò che desideravamo.

E il giovinetto, guardando i suoi amici curvi da anni al tavoliere, contenti o disperati per la sciocca vicenda delle carte, sentiva che nelle massime del Salapolli c'era qualche verità.

Aveva scritto un romanzo, non uno di quei romanzi di cui, quand'era fanciullo, annunziava a Nicla l'idea e scombiccherava le parole dietro le paginette dell'albo di suo padre; ma un romanzo vero, la storia d'un uomo povero che vince tutte le difficoltà le più aspre e diventa Re d'un grande popolo.

Era breve, e Salapolli opinava che si potesse chiamarlo novella piuttosto che romanzo; ma il maestro era rimasto stupefatto per certe pagine; per una, tra le altre, in cui Bruno comparava il cammino dell'uomo che lotta al cammino del viandante in una campagna folta di nebbia, fredda e senz'orizzonte. La descrizione della natura desolata e dell'ansia e dell'ira che prendevan l'uomo il quale voleva giungere alla meta, eran parse al Salapolli eccezionali per intuizione e verità.

- Degne di stampa! - esclamava. - Degne di stampa! - andava gridando.

E ancora una volta gli era frullato pel capo di scriverne alla signora Nicoletta Barbano; ma non ne aveva fatto poi nulla, pensando che la signora chiamava «bambino» ostinatamente l'autore, ed era rimasta a otto anni addietro.

Contava allora Bruno sedici anni all'incirca; da poco Armande Jeoffroy, la giovane amica dell'ufficiale d'artiglieria, gli aveva insegnato l'amore.

Ella ne faceva una passione; egli era calmo e sdegnoso. Gli pareva d'esser tornato ai giorni in cui tutto gli diceva ch'era un balocco tra balocchi di lusso; e si prestava al capriccio d'Armanda piuttosto per dare piacere a lei, che per far piacere a medesimo. Spesso mancava ai suoi appuntamenti; s'era distratto per via; o vi giungeva annoiato e sbadigliando; o sorrideva un poco alla felicità della ragazza che lo teneva come un suo dio crudele ed estroso.

Ed era in verità crudele per ignoranza, perchè non sapeva che cosa fosse la passione e non faceva alcuno sforzo per simularla.

Guardava indifferente ai suoi piedi la ragazza discinta, coi capelli biondi prorompenti giù per le spalle, e s'ella non lo baciava, egli si dimenticava di doverla baciare.

Chi era? Perchè piangeva? Che cosa doveva dirle per consolarla? Dal cuore non gli veniva alcuna parola, e la lasciava piangere, annoiato, seguendo con l'orecchio il ritmo di quel singhiozzo soffocato e guardando con curiosità le bianche mani dalle unghie dipinte che si rattrappivano in una stretta d'angoscia.

Poi si scuoteva, indovinando d'essere troppo cattivo, e la carezzava leggermente perchè non si rotolasse più sul tappeto come avesse mangiato funghi velenosi.

- Io, vedi, - le disse un giorno, - non sono fatto per essere adorato.... Quando mi dici che mi adori, mi sembra di diventar d'avorio giallo, come un piccolo idolo, con la pancia solcata di grinze. Ne ho visto uno, non so più dove....

E Armanda, per non morire, per non diventare pazza, dovette lasciarlo libero, non dargli più appuntamenti, rinunziare alla terribile gioia di possederlo.

Egli mandò dal petto un grande «Auf»; e quello fu il suo primo amore.

Altri avvenimenti lo distrassero subito.

Lo zio Francesco era morto, lasciando, per bontà estrema, duecentomila lire al conte Fabiano, e il conte Fabiano aveva fatto una corsa in Italia, solo, da una settimana all'altra, per raccogliere l'eredità.

Gli giungeva in buon punto a rinsaldar la baracca, la quale tentennava pei venti che soffiavano da tutte le parti.

Egli aveva ormai quarantacinque anni, era un po' curvo, con la barba e i capelli interamente bianchi; ma i suoi occhi scuri splendevano d'un fuoco singolare e intenso.

Aveva mutato abitudini da qualche tempo; e con le abitudini il carattere.

Era diventato sospettoso e misantropo; non sorrideva più col suo fine sorriso canzonatore; si guardava intorno come fosse stato tra nemici; ogni giorno si lagnava di qualche malvagio tratto dei suoi compagni, di qualche prova d'ingratitudine, di qualche mancanza di cortesia, che gli venivano da quelli che più aveva careggiato.

Gli piaceva, a lui che della socievolezza era stato maestro e del rumore aveva fatto la sua vita, e sangue delle emozioni e del rischio, gli piaceva non veder troppa gente intorno; qualche volta non voleva veder nessuno; e i domestici ricevevano ordine di dire ch'era assente. Non si poteva più rubare; il maggiordomo se n'era indignato e aveva preso congedo, perchè sua signoria rifaceva i conti con una meticolosità che rasentava la grettezza, e con la persuasione preventiva che lo avevano svaligiato e andavano svaligiandolo.

Toccava a Bruno e al Salapolli, ambedue silenziosamente inquieti, aggiustar le cose, riparar le ingiustizie che il conte Fabiano commetteva, sanar le offese che faceva, spiegare le sue scortesie involontarie.

Del figlio non chiedeva novelle per lungo tempo; e poi, per , se ne ricordava, lo voleva con , lo stringeva fra le braccia, ne carezzava febbrilmente il capo, lo faceva chiamar di notte, perchè Fabiano soffriva d'implacabile insonnia.

Bruno era la sua speranza, diceva, l'ultima radice della sua vita; sapeva d'esserne amato, e il giovinetto lo avrebbe difeso, contro tutto e contro tutti.

- Dimmi, dimmi, - susurrava, tenendolo contro il petto e accarezzandolo, - dimmi che cosa farai. Sarai grande? Porterai alto il nome dei Traldi?... Salapolli mi ha annunziato che sarai scrittore, poeta, che certo la gloria coronerà il tuo capo.

E appuntandogli l'indice nel mezzo della fronte, chiedeva sottovoce, come avesse temuto che lo ascoltassero:

- Hai molto ingegno qui? molto, molto ingegno, qui?

Bruno doveva dire che sì, sarebbe stato celebre; che sì, aveva molto, molto ingegno.

Non era più ironico, non era più beffardo; era sgomento e trepido: guardava suo padre con occhio dubbioso, e sedeva ai suoi piedi per ore, cercando distrarlo e badando a dargli sempre ragione.

Avrebbe versato tutto il suo sangue perchè egli fosse tornato quale era, giuocatore, amante del gaudio, divoratore di patrimonii, lepido, forte, noncurante.

Sentiva d'amarlo con le più delicate fibre del cuore, d'essergli legato per mille affinità che gli si eran chiarite col tempo innanzi agli occhi.

Gli serbava gratitudine per quella medesima esistenza disordinata che aveva fatto di lui, Bruno, un uomo, quando gli altri eran fanciulli, che gli aveva dato la precocità dell'intuizione, la mobilità dell'intelligenza, la forza libera e superba della solitudine, tutte le energie che gli dormivano ancora inoperose nel cuore, e che gli avrebbero permesso di sforzar gli ostacoli.

- Per vederlo ridere, - egli esclamò un giorno col Salapolli, in un impeto d'angoscia, - per vederlo ridere come una volta, io mi lascerei accecare!

E accarezzava la testa bianca di suo padre, con una tenera carezza, studiandone l'occhio, sperando ad ogni istante di vederlo sorridere.

Ma era ogni cosa vana, e il giovanetto andava mormorando col Salapolli:

- Io non capisco!... Io non capisco!...

Capiva e sapeva.

Alcuni medici, introdotti abilmente dal Salapolli presso il conte, avevano detto ch'era ammalato; o meglio, che andava ammalandosi. Uno aveva espresso la diagnosi, chiara e cruda: mania di persecuzione. Un altro aveva avvertito il Salapolli che ben presto il conte sarebbe diventato pericoloso e occorreva sorvegliarlo; in ogni caso non era prudente lasciarlo la notte col figlio.

L'appartamento di via Glück, così gaio e festoso per lo passato, così ben frequentato da uomini di grido e da donne incantevoli, era stato abbandonato da tutti; Bruno aveva fatto vendere i cavalli da sella e la pariglia.

Studiava. Non appena il padre lo lasciava libero, correva in biblioteca; spesso leggeva, accanto al padre o seduto ai piedi di lui, nella sua posa abituale.

Il conte Fabiano gli aveva dato la direzione della casa, le chiavi, i valori, che ammontavano in quel tempo, compresa l'eredità dello zio Francesco, a circa duecentocinquantamila lire ben collocate in titoli sicuri.

Poi inaspettatamente suo padre gli aveva ritolto ogni autorità, aveva ricomperato i cavalli, pagandoli prezzi incredibili, e faceva spese insensate.

Il professore Salapolli, con discrezione ma con insistenza, pregava Bruno d'impedire quello sperpero, o un giorno si sarebbe trovato sul lastrico.

- Perchè pagare cento ciò che vale uno? - diceva. - Son cose che strappano lagrime ai sassi!

Egli vedeva colar l'oro e sfuggir di tra le dita del conte Fabiano, e ne sentiva una malinconia invincibile, non per l'oro, ma per le belle cose che si sarebbero potute comperare.

Bruno alzava le spalle.

- Lasciatelo divertire! - diceva.

E attirati dall'odor di cuccagna, i parassiti più impudenti eran calati sulla casa e avevano sostituito la società fine e arguta che la frequentava in altri tempi.

Il parrucchiere del conte che veniva tutte le mattine a pettinarlo, gli aveva portato via egli solo diecimila lire, col pretesto di collocarle in azioni d'una Compagnia mineraria; un tipo sinistro, sbilenco e tossicolante, che si chiamava Bongrive ed era disceso non si sapeva donde, s'era fatto prestar cinquemila lire per tentare un'esperienza scientifica, ch'egli stesso non poteva definire.

Tutti bevevano e mangiavano a ufo, e qualche volta comperavan roba presso i fornitori del conte, onde ad ogni poco bisognava pagar lunghe note di oggetti che non eran mai entrati in casa ed erano andati ad abbellir la casa degli altri.

Bruno si teneva in disparte, cercando di non dar di gomito a quella geldra famelica; ma per giungere a suo padre, doveva pure sorridere al signor Bongrive e al parrucchiere, che gli stavano di continuo alle costole.

E un giorno il conte Fabiano scacciò tutti, accorgendosi di punto in bianco della devastazione che la gentaglia aveva fatto in casa sua, e ne tenne Bruno responsabile, perchè non lo aveva avvertito in tempo.

Entrò in furore, contro il figlio, contro il Salapolli, contro i domestici, minacciando rovine e vendette; aveva l'occhio fosco, fremeva, fiutava in aria, s'aggirava per le stanze come una belva.

Bruno dovette rassegnarsi con le lacrime agli occhi a chiamar due infermieri; il Salapolli scrisse in tutta fretta alla contessa, avvertendola di quanto avveniva. La contessa rispose che partiva all'istante per Parigi e consigliava nel frattempo di far chiudere il conte in una casa di salute.

Il professore Salapolli temette di diventar pazzo a sua volta, quando vide trasportar fuori il conte Fabiano, con l'occhio vitreo e un ringhio continuo tra le labbra contratte. Era serrato ai polsi e intorno alle spalle e al busto da larghe cinghie formidabili; e Bruno gli si avvinghiava al collo, baciandolo, carezzandolo, chiamandolo coi più dolci nomi trovati nei ricordi della sua infanzia.

Non voleva che glielo togliessero; il suo passato intero se ne andava con lui, le commedie con le marionette, il Re moro, le battaglie coi soldatini, la bandierina con l'asinello che recalcitrava. Sentiva che malgrado tutto, il papà era stato il grande compagno della sua vita, colui che gli voleva bene anche quando correva dietro alle carte e alle donne....

Non voleva che glielo portassero via, e s'avvinghiava alle balze che imprigionavano suo padre, e si lasciava trascinare a terra, dietro di lui.

Clara Dolores sopravvenne in quel punto.

S'incontrarono così, in anticamera, il conte che partiva per la casa dei pazzi, la contessa che giungeva da Vienna, leggiadra e impellicciata.

Ella afferrò Bruno e lo trasse lungi, aiutata dal Salapolli.

Bruno crollò al suolo pesantemente, e vi rimase, non seppe mai quanto tempo; poi udendo una voce nota che lo confortava, cercò intorno smarrito, sollevò lo sguardo, lo fissò freddo e nemico sui capelli di sua madre: fatto più pallido, pareva che il volto gli si fosse rimpicciolito nello spasimo.

- Ah! - disse con voce rauca. - Sei diventata bionda?...

 

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License