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XXIX.
Bruno Traldi fu per più mesi ammalato, e vegliarono al suo capezzale la madre e il vecchio Salapolli.
Il male era strano; una invincibile malinconia struggeva il giovane; di tanto in tanto i medici esponevano una teoria nuova e prescrivevano una nuova cura. Brunello non potè salvarsi dai medici e dai mali che grazie alla sua fresca età.
Era condannato a vivere; aveva promesso di vivere, solennemente.
E il sacrificio di Nicla sarebbe stato vano, s'egli dalla vita non avesse tratto forza a lavorare e a gettar qualche luce su quel nome dei Traldi di San Pietro, il quale era stato caro a lui quanto alla sua amica scomparsa.
Entrato appena in convalescenza, si mise all'opera; e diciotto mesi dopo il giorno di sventura, il libro di Bruno Traldi vide la luce.
Aveva da lungo tempo imaginato un poema, un romanzo di gioia e di fede; e inesorabilmente doveva creare un poema di sconfinata angoscia.
L'umanità cieca che s'avvolge a spirale su sè stessa come s'avvolge il serpe in numerosi anelli; le schiere bestiali di gente nata a far folla e a brulicare come una verminaia; le illusioni di coloro i quali credono alla gloria, rumore di cento anni, e lottano per trovar posto fra gli eletti, che formano essi medesimi una folla di cui tutti in breve si dimenticano; il galoppo incessante di popoli e di razze che conclude in un baratro, nel nulla; l'inutilità fatale dell'opera e l'inutilità fatale dell'ozio: questo era il quadro, in cui si muovevano i suoi personaggi. E si muovevano con franchezza, condotti da mano maestra. Egli aveva sì precocemente e intensamente vissuto e dentro gli occhi portava tante diverse visioni del mondo, che un'acerba esperienza e un penetrante spirito d'osservazione avevan potuto dettargli pagine stupende per verità e per colore.
Fu prima un susurro intorno al libro, poi un fracasso insostenibile.
Dissero alcuni che non si trattava d'un poema ma d'un romanzo; dissero altri che non si trattava d'un romanzo ma d'un poema; e non potendo classificarlo esattamente, i critici s'irritarono. In nome della virtù, non pochi si scagliarono contro il giovane frollo e sfiduciato che invece di infiammar le genti, le scorava, invece di drizzar l'ingegno straordinario a predicar qualche fede, adunava tutte le sue forze a seminar lagrime e disperazione.
Menava una guerra sorda e tenace contro di lui Duccio Massenti; il quale andava scalmanandosi per l'immoralità del libro, immorale non di quella immoralità sciocca e villana che consiste nelle scene e nelle parole e che il pubblico fugge; ma di una immoralità congenita, senza farmaco possibile, ch'era in tutta la sostanza dell'opera, nel sangue e nel midollo. E un articolo, certo inspirato da Duccio Massenti, faceva qualche allusione alla vita dell'autore, ai disordini di cui era stato testimonio, a una passione cupa tragicamente finita, di cui era stato protagonista; allusioni coperte, esposte con prudenza, che Bruno e i suoi intimi potevano comprendere e che sfuggivano agli altri.
Bruno Traldi lesse l'articolo e sorrise di dispregio.
- Nicla me lo aveva detto, - confidò al Salapolli. - Duccio Massenti sarebbe diventato un mio nemico mortale. Egli voleva sposare Nicla, poi diventar padrone di casa mia, poi consigliarmi e condurmi; e perchè nessuno di questi tre fini gli è riuscito, mi odia.
- La signora benedetta, - rispose il Salapolli, - non aveva previsto però, e nessuno poteva prevederlo, che Duccio Massenti sarebbe stato anche un imbecille; perchè nulla giova meglio a un libro e a un autore che le polemiche, le ingiurie e le accuse.
Il rumore saliva; molti critici confessavano d'essere innanzi a un ingegno strapotente, il quale cominciava con la sicurezza d'un maestro. Nessuno voleva credere che l'autore non contasse per anco ventidue anni, e un giornale ne pubblicò il ritratto.
Si leggevano in quel volto chiaro dalle linee ferme e dal mento breve un'anima amara e una volontà ostinata; e tuttavia la giovinezza, una giovinezza senza sorriso, era nella persona dritta come uno stelo e pronta a scattare in corsa.
Il pubblico si gettò sul libro con avidità; e il libro avvelenò molte anime ignare; il tossico ch'era in tutta la vita di Bruno Traldi serpeggiava, entrava nelle fibre, recideva i nervi.
Solo, vicino a Bruno Traldi, in un cantuccio, stava il vecchio Salapolli, che s'ubbriacava di quel trionfo come d'un liquore portentoso; in silenzio, perchè Bruno non voleva udirne parlare.
Onde il Salapolli ne parlava qualche volta con la contessa. Diceva:
E batteva le palpebre quasi non avesse potuto sostener la luce che sfolgorava intorno alla figura del diletto alunno. E con gli occhi umidi soggiungeva:
- Se il conte Fabiano potesse comprendere!... Quale consolazione ne avrebbe!... Come sarebbe superbo!
Ma un giorno la contessa Clara Dolores scosse il capo.
Ella aveva da tempo rinunziato ai piaceri del mondo per stare a fianco del figliuolo, a cui prodigava un tesoro di materna sollecitudine.
- Voi mi fate paura, caro amico. La gloria e il genio non hanno dato mai, a chi doveva portarne il peso, se non dolore. Io vorrei che mio figlio non avesse gloria, non avesse genio; e che la vita gli sorridesse, come sorride agli ignoti e ai mediocri.