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Un tempo il diavolo doveva essere sempre attento verso quella parte dove si tentava un'impresa ardita, e, confessiamolo, là dove dicono abbia messo le mani lui gli edifici sono veramente superbi. Il diavolo, birbo, malizioso, sottile, l'architettore d'ogni nequizia, il gran vermo, nel 1101, quando la contessa Matilde per agevolare ai numerosi infermi di Lombardia il passaggio del Serchio onde essi potessero beneficiare delle salubri acque dei Bagni di Lucca volle costruito l'arditissimo ponte della Maddalena, fece un ricatto dell'architetto.
– Io ti do il mio aiuto, ma tu mi darai in guiderdone la prima anima che valichi il ponte.
L'architetto, San Giuliano, sitato il ferrigno della demonia sotto il tabarro del vagabondo, rispose:
– E la prima anima avrai.
Per alzare il quarto arco, il più superbo, sudarono tutti come diavoli, ma, benchè in giù ci vadano anche i ciocchi, San Giuliano tenne in sott'ordine lo strano aiutante perchè l'«amico» è sottile e fila grosso e giunto al vertice avrebbe potuto dire:
– Or fate da voi.
Murata la centina dell'ultimo archetto, San Giuliano di fondo al ponte aizzò un cane e poi gli tirò una stiacciata in vetta; il cane corse dietro e agguantò la stiacciata: il diavolo che stava di sotto a veder chi passava il primo subito gli dà addosso e quando trovò che era un cane, invece di un cristiano, lo prese, lo scaraventò con tanta rabbia in terra che sfondò e passò di sotto.
Per questa leggenda il popolo ha sconsacrato il Ponte della Maddalena dicendogli il Ponte del Diavolo. Questo ponte di pietre rampa coi suoi piloni a sperone sul greto del Serchio, nei giorni di piena l'ossatura ciclopica frange con grande fragore l'acque che precipitano sonanti dall'alpe: gigantesca scardazza ferrigna fissata alle due sponde. Nei giorni di secca il grande arco si raddoppia nel cristallo delle acque stagnanti ed apre un rosone vetrato di smeraldo e di cielo. Un «santissimo» par si elevi tra spelonche di monti. Fra tutte le memorie suscitate dal Ponte del Diavolo la più romantica è quella di Bianca Cappello che transitò nel dicembre del 1563 per quella via montana precipitante nella Lucchesia dai gioghi dell'alpe di San Pellegrino. Al fianco di quella donna si stringeva il suo trepido sposo Pietro Bonaventuri con lei fuggito da Venezia verso il miraggio di un eterno affetto.
Di qua e di là dal ponte son alberi ombrosi: sotto uno di questi, secolari e giganteschi, dalla ceppa cavernosa Enrico Heine dialogò col ramarro in presenza di un vecchio caprone dalla barba bianca che pasceva lì presso tutto solo: «La vera filosofia è una sola e questa è scritta in geroglifici eterni sulla mia coda».
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Oggi salivo il colle del «Paretaio» da cui si spazia sulla Lima e sul Camajone: il fogliame dei castagni arabescava d'ombre la viottola rossa, quei geroglifici azzurri pareva racchiudessero arcane storie. Qui salirono Letizia e Paolina Bonaparte, Maria Teresa, Caterina di Savoia, la principessa di Capua, il principe di Metternich, il maresciallo Radetzky e l'ammiraglio Teghetoff. Fu su questo colle paradisiaco che l'acredine germanica di Enrico Heine si temperò all'atticismo. Il piccolo edificio che è in vetta al colle è oggi una rimescita di vino striscino e rutilante. L'oste del «Paretaio» parla di volpi insidiose, di lepri astute, d'uccelli d'ombroso augurio, falchi e gufi, di quaglie satolle e di pernici. Di quassù si domina anche un mondo crollato. L'«impero» si sgretola coi capitelli e gli steli delle colonne, i suoi colori gialli indiani e rossi terra son diventati avorio e rosa, le finestre si scardinano, nei parchi ombrosi c'è un chiacchierio fitto fitto d'uccelli; tutte le grandi ombre giacciono ora pietrificate sopra sarcofaghi ravvolte in grandi pieghe di dignità.
Sulle quattro pareti dell'osteria campeggiano le «Stagioni». Una carta geografica dell'Europa assai stagionata è sulla parete dirimpetto, sopra di essa vi è inquadrato un disegno a carboncino: «Progetto pel monumento a Enrico Heine ai Bagni di Lucca». E sotto: «Il colle Paretaio (Annunziata) trasformato in pubblico giardino. Schizzo di G. Simoni». Tra panchine e aiuole, palme e convolvoli, spicca il monumento del Grande ritto sopra un plinto; abbarbicate le braccia al tronco, la testa alteramente fissa verso il cucuzzolo del Rondinaio.
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Sono legato a Enrico Heine da amorosi ricordi: fu proprio sotto questo costone che Ceccardo, il giorno di un'avventura eroica, gridò ai fedeli: «Heine e il rombo della gloria resta». Il nome allora mi era del tutto nuovo, ma se il «generale» l'aveva gridato in un impeto eroico doveva chiudere un comandamento e un destino. Più tardi a Parigi cercai la sua tomba nel cimitero di Montmartre; egli giace poco lontano da «madamigella Valéry»; il marmo al rigore delle nebbie e dei piovaschi è diventato color del piombo, tomba negletta, qualche fiore di latta su steli di fil di ferro. Tutto è opaco. Un pittore polacco mi tradusse quel che il Grande volle scritto sulla pietra: «O ch'io sia sepolto nel deserto o nel cuore di una città rumorosa son sicuro di avere sopra di me le stelle».
Qui le lucertole gli appresero che anche alcune pietre hanno sentimento e che respirano al lume di luna. Il giorno che il progetto dell'ignoto Simoni verrà iniziato cercheremo giù per la Lima, nelle notti di luna, quelle pietre che trasudano gelo e vi cementeremo la base perchè Heine, nelle notti silenziose, favelli con esse. Ma per innalzare sulla piccola acropoli del Paretaio il monumento al Grande è d'uopo scerpar selve, scassare declivi, pianeggiare dirupi aculeati di ginestre, il pietrame dovrà esser portato su a schiena d'uomo e a basta di mulo; speriamo che questa idea riquadri anche al diavolo e venga a dare una delle sue spallate decisive.
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Sulle vie bollenti di sole zampano ombre di foglie celesti; un viandante affresca sotto una pezzuola il viso adusto e segaligno; la mano scarnita, asprita di unghie rapaci, si posa sopra un vettone di castagno; un camice tutto toppe, qua e là strapanato, scopre costole e pelle incuoiata; i piedi sbollentati battendo sollevano fumate. Lo sfondo è dominato dagli archi del Ponte del Diavolo: cinque portali d'oro s'aprono sul pietrame diaccio; il monte Brancoli per la croce sul vertice appare come la cuspide di una spettacolosa cattedrale. Penso se questo viandante sciamannato che arranca verso l'alpe di San Pellegrino fosse il diavolo in finzione di corriere. Un che di acre le sue carni incotte dal sole lo rendono, e il pizzicante fetore della groppa del becco esala dalla barba riccia. La tentazione di chiedere a questo sepolcro di carne e d'ossa una spallata per muovere i massi del Serchio e sollevarli sul colle del Paretaio a gloria di Heine mi assale.
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L'architetto del Ponte del Diavolo, San Giuliano, lo spedaliere protettore dei viandanti, famoso fin dai tempi di Orlando e di Rinaldo per il suo Paternostro – «il beato messer Santo Giuliano venia dal monte Calvaro con la croce dell'oro in mano; allo scender di monte al piano trovò il serpente l'orso il lione...» – ha su queste vie tortuose delle pietre con su incisi epitaffi che ne esaltano il nome e i miracoli. Chi, ginocchioni davanti a esse, recita con devozione le orazioni scongiura le punture di spino e di lische di pesce e il morso delle serpi. Qui le serpi sbucano dappertutto: dai crepacci della terra gementi acque calde e fumo, dalla borraccina delle selve, dai poggi scoscesi, dalle catrafosse; di sotto le radiche degli alberi. In queste stagioni i botri e i bottacci da cui rampolla l'acqua del San Giovanni sono bollenti come caldaie e le serpi ivi nascoste anelano la frescura dei fiumi. Le vie bianche son vellutate di striature gialle e nere. Tanto ratte son le serpi che sembrano ombre fuggitive di lampi.
Il viandante ch'io supponevo fosse il diavolo, il quale sotto forma di mendico andasse, a tentare i romiti in vetta ai monti, al cospetto di una di queste lapidi si gettò carponi, umiliò la fronte nella polvere, si percosse il petto, annodò le mani e in estasi, come in delirio, recitò questa strana preghiera:
prima guardastivu li passi e poi li punti;
comu guardastivu a Nnoccu ed Elia
cusi guardati a nui pri mari e pri via;
si qualchiduno mi voli fari tortu
si facissi un cori d'omu mortu.
Invece del diavolo, il bestione di cento forme e parvenze a Dio ribelle, matricolato in furberia, era uno di quei poveri cristi che dalle parti basse d'Italia ascendono allo sperone d'Appennino dove si venera lo scheletro di San Pellegrino vestito da re con scettro e corona.
Tramezzo a questi veri pellegrini c'è anche frammischiato quella specie di diavolo dalla ghigna rinceppata, con la chitarra a tracolla e le storie dei cavalieri di Cristo inzeppate nelle tasche della giubba, un di quelli che fanno da ciechi davanti alle imagini sacre e che quando sono colti in fallo per gli occhi vispi e salati di volpe asseriscono d'essere stati miracolati e si ravvoltolano come ciuchi nel polverone urlando:
A Gesù Cristo mi sono raccomandato
che m'insegnasse un luogo prediletto
per far la penitenza al mio peccato.
L'Angel m'apparve e disse: «Pellegrino,
alla gran selva piglierai il cammino».
Se il diavolo transitando per queste contrade si decidesse a dare una spallata per la gloria di Enrico Heine gli si potrebbe promettere in guiderdone l'anima di uno di questi «arnesi». A cavarsi d'impaccio, a opera compiuta, ci penserebbe da sè. Quando il diavolo gli urlasse:
– L'anima? – griderebbe stupefatto l'«arnese». – Se ne trovi una timorata si fa a mezzo.