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Cuore di bue: si adopera qualche volta questa espressione parlando del volume enorme, straordinario, del cuore che risulta dall'ampliazione delle sue cavità e dallo spessore delle sue pareti. Tutte le espressioni inerenti al cuore, principale tra le viscere degli animali, avendo un puro significato simbolico, di un uomo di gran cuore si potrebbe dire: ha un cuore di bue. Ma i sapienti hanno ammonito che si può essere uomini di gran cuore pur avendolo piccolo come un gocciolone di sangue palpitante, onde: cuore a goccia.
Il cuore è situato in modo obliquo e a sinistra, muscolo impari di forma irregolare: obliquo, sinistro, impari, irregolare, aggettivi che turbano un uomo di cuore tenero. Il «Bisunti», calzolaio lunatico, giostrava un appacchiarello sul cuore al suo collega «Sgomento»: – Con un cor bello e con un cor netto si va in paradiso – ma, il «Bisunti», pronunziava svelto svelto le parole unendo il nome all'aggettivo, onde: – Con un corbello e con un cornetto si va in paradiso.
– O come si fa? – rispondeva l'altro stupito.
Cuore, parola consumata dall'uso come una moneta: – Avevo il cuore in bocca, ho il cuore nello zucchero, ha il cuore chiuso come una pina verde, ha il cuore come un crudino (quei pezzi di carbone refrattari alla cottura), ha sulla lingua quello che ha nel cuore, ha il cuore in mano, il cuore deve raffreddarsi prima di parlare con la mente...
Sovente i poeti parlano al loro cuore e onorano la principale tra le viscere degli animali di liriche e odi. Ma il pistoletto batte frenetico come se il poeta non cantasse per lui: il pistoletto entro le ventiquattro ore deve battere centomila volte nella parete di carne armata d'ossa, lavoro metodico e noioso che non consente nemmeno una requie, altrimenti: amen!
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Seppi tardi che v'era un libro intitolato Il Cuore, che molti ragazzi lo conoscevano e che aveva fatto di molto bene.
– Ma di molto.
– Quello strappa le lacrime anche agli assassini di macchia.
– Quando lo leggo in classe è un pianto generale dirotto.
– Il De Amicis è un uomo tutto cuore: ha un cuore come una rosa e le sue labbra proferiscono parole odorose.
– Comprate il Cuore a vostro figlio, – diceva il maestro a mia madre, la quale equivocando rispondeva ingrugnata: – Ne avrebbe bisogno.
Il Cuore me lo imprestò un amico il quale aveva finito gli studi; il padre, un negoziante di pane, per conservarglielo glielo aveva foderato di carta pecora: «Questo libro è particolarmente dedicato ai ragazzi delle scuole elementari i quali sono tra i nove e i tredici anni». «Il primo giorno di scuola» dette di cozzo nel ricordo ch'io avevo di quel giorno memorabile. Il collega dell'ottimo Perboni, il mio maestro, non essendo scapolo e privo di grattacapi della famiglia, alla prima negligenza che si commetteva, ci prendeva con due dita per il codizzolo dei capelli che spunta sotto il dente di Atlante e ci faceva vedere le stelle; alla recidiva ci pestava con un righello che aveva la diagonale d'ottone: – Ho un anno d'inferno davanti a me; ma qualcuno lo finisco. – La scuola era distante duecento braccia dal mare placido, la cantilena della maretta diceva: Venite, venite! L'ottimo Perboni dopo la refezione avrebbe messo per due la scolaresca e l'avrebbe condotta sul mare glauco. Quante volte invece il nostro maestro, nella giusta ira, urlava: – Vi piglio per le gambe e vi butto in mare. – Nelle scuole, sovente, gli scavezzacolli levano la mano agli alunni che starebbero bene dipinti sulle pagine del Cuore.
– Vi finisco!
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A pezzi e a bocconi divorai il Cuore; gli ultimi capitoli li lessi nel Genovesato in una cameretta stretta come una cella dove ci sapeva di pece di bastimento; affacciandomi alla finestrella la scogliera sottostante pareva dire: – Se mai io sono sempre pronta. – Lessi il Cuore quando non avevo nè arte nè parte, sovente infastidito da una domanda tediosa: – Giovanotto, le carte! – Lo lessi quando mi frullava per il capo l'idea di fare il «sacco», vale a dire di farmi caricare nella stiva di un bastimento clandestinamente come un sacco ripieno di contrabbando. Lo meditai tra una folla esagitata che guardava i tetti e il selciato convulsa, con le teste mobili come bollenti entro un caldaione, nei giorni in cui par di gravitare con il peso di tutto il corpo verso quegli specchi di acqua madreperlati dalla lordura unta dove galleggiano, polpe, le carogne dei cani e dei gatti affogati con la corda al collo, quando siamo costretti a rasentare il muro per trovare ivi il controgenio all'attrazione dei fondali paurosi. La bontà di quel libro sguisciava sul mio cuore come una goccia di stagno fuso sopra il bronzo rovente. Su quel libro mi feci una buona reputazione delle scolaresche piemontesi.
Sopra un carretto di un ambulante tra varie calìe scòrsi un altro libro dell'autore del Cuore, Ai ragazzi: «Vi dicono studiate perchè la vostra è l'età felice e feconda nella quale prende la sua prima forma l'ingegno e in cui più facilmente tutto quello che entra nell'intelligenza discende e si stampa nell'anima per tutta la vita. Vi dicono studiate perchè tutte le cognizioni che si fissano ora nel vostro cervello formano come l'ordito sul quale dovete tessere più tardi». Chi sarà mai, pensavo, questo uomo che fa con tanta fede la controparte del male? In una taverna, da un vecchio amico, il quale era andato lì lì per addottorarsi, fui ragguagliato che questo autore aveva scritto anche dei libri per i grandi; ma l'amico, che si definiva egli stesso l'Antitutto, sentenziò che quei volumi erano perniciosi e che l'autore era un illuso. La cosa che più mi fece sorpresa fu l'asserzione:
L'Antitutto, colto da miopìa, pareva trapuntare con gli occhi tutta la sapienza nel corpo discarnato: – So tutto, non mi sfugge nulla. – L'Antitutto aveva conosciuto anche Federico Nietzsche quando il profeta abitò in Genova verso il Muraglione di Villetta di Negro dominato da un convento di monache sulla salita delle Battistine: – Il Visionario aveva gli occhi affebbrati, i baffi folti come una roccata, la fronte in alto rilievo sullo sfacelo del viso emunto. Quando la follìa vagabonda afferrava il Titano, egli passava come un'ombra tra i peschi della riviera, quasi che volesse tuffarsi nel mare.
Nietzsche, nome tagliente come una zolla insidrita dal gelo, difficile a pronunziarsi, ignoto alla nostra giovinezza. L'indomani l'Antitutto buttò sul tavolo della taverna l'Al di là del bene e del male: il cervello contro il Cuore. L'inesplicabile della filosofia nietzschiana, per noi, si schiariva al lampo abbagliante. «Al di là del bene e del male»: giallo teschio e nero.
Il cuore, quello che batte centomila volte al giorno sulla parete di carne armata d'ossa, per molto tempo non fu turbato nel suo lavoro; il cervello faceva le faville come la ruota dell'arrotino quando egli l'accocca col tagliolo – Noi siamo al di là del bene e del male! Qualche torbato cominciò a sorgere sulle macerie del nostro animo distrutto dai colpi a bruciapelo della filosofia di Nietzsche. Il Cuore veduto traverso le torcie a vento parve un libro condannato al rogo. Rileggendolo si provava il ribrezzo che dà lo sciroppo di zucchero spalmato sul baccalà col pesto d'aglio e peperone. Quando nacque la mia Ornella, nove mesi dopo la guerra, volli riassaggiare il giulebbe: il Cuore riletto dopo l'Al di là del bene e del male.
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Uscivo sovente con l'Antitutto, il quale mi ragguagliava sui tempi passati e mi mostrava amorosamente i luoghi dove abitarono uomini di grande talento: Frate Oliviero, Guglielmo Boccanegra, il Duca De Ferrari, Byron, Mazzini, Nietzsche. Un giorno, sprofondati nei nostri ragionamenti, sfociammo sui quattro canti di Portoria, dirimpetto a quello sgricciolo di monumento a Balilla; la via XX Settembre non era stata ancora artefatta. Un andare e venire di folla a dritta e a manca congestionava l'arteria e le ramificazioni. L'Antitutto teneva per ciondolo alla catena un fischiettino di quelli di latta con la linguetta piatta e la coda arroncigliata, soffiando nel quale una pallina d'osso gli dava il zufolìo del rospo. L'Antitutto asseriva che se egli avesse dato fiato al fischietto tutta la gente si sarebbe arrestata all'istante come stregata. Il fischiettino rimase ciondoloni alla catena, ma la gente si fermò ugualmente sui quattro canti di Portoria e guardava tutta in un punto. Un signore alto, ben proporzionato, coi capelli candidi e ricciuti, con occhi pieni di languore guardava le strade che salivano, la gente che scendeva: così fermo come una statua sembrava molto più alto degli altri. I padri lo accennavano ai figli come il Santissimo. L'Antitutto, che era uno stronco d'uomo e si teneva su con un bastone, s'avvicinò all'uomo, lo guardò di sotto in su e cantò a gallo: «Edmondo.» De Amicis gli stese la mano affabile. L'Antitutto tenendo nella sua scarnata la mano grassoccia di De Amicis si voltò a me con l'aria di un padre infelice che mostri un suo figlio vegeto e florido: – Vedi questo?, – mi disse, – è De Amicis: quello del Cuore.