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Lucca giuridica, ai tempi del Ducato, aveva tutto: la Ruota criminale che nel suo frullone conteneva la pena di morte, da eseguirsi mediante una rudimentale ghigliottina che avevano costruito due dei suoi artigiani (istruiti dal fabbro meccanico Gherardi fiorentino), tali Giuseppe Ripari e Sante Maggini. In una specie di glorioso anfiteatro-piazza, S. Michele, con il bel loggiato del palazzo Pretorio, si montava il tristo ordigno oltramontano; c'eran un cappellano, per il tristo uffizio, di grande decoro, gli aiutanti, i birri, ma mancava il boia, onde un giorno il Duca, di umor faceto, commentò: – Insomma la ghigliottina senza boia è come macchina senza conduttore.
I cortigiani capirono l'antifona e si dettero a cercare un boia per mare e per terra. Perchè il Duca di Lucca, tutte le volte che qualche sciagurato doveva lasciare il capo sul palco dalle funeree braccia, doveva spendere un occhio.
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Il Buongoverno fiorentino acconsentiva sì di mandare i suoi esecutori, i suoi birri, ma esigeva tali diritti di trasferta che la testa di un galeotto si poteva vendere a peso d'oro. Perchè non v'è da supporre che il mestiere del boia togliesse l'appetito. Quando questa tragica tribù, di boia e vice, scese in diligenza dalle vie di Serravalle per fare barba e capelli, in un colpo solo, all'accattarotto salernitano Pietro Pagano (il quale nella pineta di Viareggio aveva investito violentemente un suo compagno fornito di una borsa di denari e, dopo averlo tramortito di colpi, lo aveva appiccato ad un pino altissimo: e se n'era andato quando fu certo che l'amico era spirato e che soltanto i pini erano stati testimoni della sua vigliaccheria) i giustizieri fiorentini giunsero all'alba. E udite come l'aria fresca e il viaggio gli avevano aguzzato l'appetito: alle sette della mattina (giorno di magro) fecero una colazione di pesce lesso, ombrinotti, razza, naselli coi baffi, rombi e orate, bevvero in tre cinque fiaschi di vino, tre di dolce e due di amaro. La minuta del pranzo fu di pasta con l'acciugata e pesto d'aglio, e peperone, e basilico con cacio sardesco grattugiato sopra, pesce fritto, triglie di scoglio, acciughe, sogliole, sparnocchi, sorra tenera e ventresca con asparagi ed insalata scarola, e carciofini sott'olio, vino a ritrècini di molini, e non del peggiore. Il pranzo si chiuse con bottiglie di malaga seguite da una bottiglia di rhum Giamaica. È il caso di dire che agli effetti gastronomici quello del boia non era il peggiore dei mestieri.
Le vili milizie dei birri alloggiate in un albergo detto la Campana, le spese furono fatte senza risparmio, come si può vedere da una notula dell'oste Contrucci ove compariscono gli umidi e gli arrosti e i piccioni sulla gratella e la bottiglia di malaga oltre i fiaschi di vino nostrano.
All'ispettore di polizia fiorentino, che, mangiando, cucì a refe doppio uccellame con carne e polli, per gl'incomodi avuti, fu spedita una cassa d'olio sopraffino in terzini del valore di ottanta paoli. Per regalie e diritti di stola al curato di San Paolino, e una vettura per seguire il paziente dalle carceri al patibolo (nella ipotesi che le gambe non lo reggessero) l'Erario lucchese spese un mezzo patrimonio.
Alla resa dei conti fu presa in seria considerazione la questione di trovare un boia a disposizione del Ducato, tanto più che si vociferava, nelle sfere ufficiali poliziesche, che esistesse in Volterra un individuo disposto ad assumere quest'ufficio. Ma da ulteriori informazioni risultò essere costui un pezzo da catasta, da fuoco e da taglio, e non se ne fece di nulla.
Il ripetersi di queste gravezze condusse il Governo granducale ad accendere delle pratiche a Roma fra Giuseppe Graziani, console di Lucca, e Pietro Atticciati, capo degli agenti pontifici, i quali, a patti ben chiaramente stipulati, fecero una convenzione mediante cui un tal Tommaso Jona, col consenso del governatore di Roma, entrava come boia al servizio del Ducato di Lucca.
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Al Tommaso Jona lo stipendio cominciava a decorrere un mese prima dell'arrivo, a compenso delle spese che avrebbe dovuto incontrare nel viaggio. Di questo si preoccupò il Governo di Lucca consigliando il Tommaso Jona a fare il viaggio per mare informandosi se a Ostia o a Fiumicino fossero state all'ancoraggio delle barche viareggine; ma fu risposto al Governo di Lucca di non preoccuparsi, chè a trovare la strada di Lucca il boia avrebbe pensato da sè.
La questione del boia a Lucca coinvolgeva un complesso di motivi morali e finanziari difficile a superarsi. I lucchesi minuti, il popolino trito trito, i religiosi e i timorati, erano presi da ribrezzo a sentir nominare il boia. Per costruire una stanza all'esecutore di giustizia fu un affare serissimo. Il boia doveva avere l'alloggio gratuito, il Governo pensò di collocarlo nelle carceri, ma il direttore elevò le più rigorose proteste: – Si vide mai un gatto allogato insieme ai topi? – Nacque allora il progetto di fabbricargli una casetta nel recinto dello stesso penitenziario, all'estremità dell'orto dal lato delle mura, ma il progetto andò a monte per ragioni di economia e di prudenza: qualche sera il boia sarebbe stato lapidato in quella specie di canile. L'ultima idea, che poi fu messa in atto, fu quella di rendere abitabile per lui un casotto su di un baluardo delle mura, antica caserma dei bombardieri, sovrastante il quartiere più tumultuario della città detto il «Bastardo». Ma anche lì ci furono le fiere proteste del Conservatorio Luisa Carlotta, le cui educande, tutte vestite di bianco come colombelle, giuravano e spergiuravano che si sarebbero date alla più stretta clausura se il boia lo avessero allogato di rimpetto a loro, e molte caddero in deliquio soltanto a sentir pronunziare la parola boia. Il Governo pattuì con le suore superiori che il boia sarebbe uscito soltanto la notte per fare una piccola passeggiata sulle mura.
Quando Tommaso Jona venne a Lucca, la sua casetta sulle mura era pronta per ospitarlo. In che mese e in che giorno egli ne prendesse possesso non fu dato sapere a nessuno. A Lucca Tommaso Jona visse silenziosamente e appartato come un lebbroso nel suo casotto sulle mura fino all'alba del 1834, giorno in cui ci fu bisogno dell'opera sua.
In quell'anno un atroce delitto aveva contristato il cuore dei buoni e aveva provocato il massimo rigore della legge contro colui che l'aveva commesso. Autore del misfatto era Michele Petroni, di Colognora di Valdiroggio, che aveva avvelenato il padre e il fratello, e del secondo, parendogli poco concludente il tossico, fece strazio con una roncola e lo precipitò in un burrone. In quella occasione Tommaso Jona, per la sua fermezza, dimostrò che era superfluo ricorrere agli esperti fiorentini.
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Dopo aver servito con la massima sollecitudine e perizia per diversi anni il Governo di Lucca, l'inarrivabile Tommaso Jona chiese le dimissioni da esecutore, che furono dal Governo accettate, e in sua vece il 1° novembre del 1846, veniva nominato Benedetto Paltoni, di Reggio di Modena, dimorante in Francia. Ma per molto tempo non ci fu bisogno dell'opera del Paltoni: la macchina funesta rimaneva immagazzinata nelle carceri. Nel sobbollimento che preannunziava il '48 la pena di morte fu abolita in Lucca; e un prete assai strano, Aliso Giambastiani, che s'intitolava il «Cappellano del popolo», ed era sempre l'auriga di tutte le dimostrazioni, temperamento eccitabile e sovreccitabile che terminò la sua vita al manicomio, condusse il popolo ad assaltare la ghigliottina, che fu fatta a pezzi, ed egli esultante, tratta dal fuoco la mannaia, rientrò in città col ferro sotto il braccio: dopo pochi giorni dall'accaduto, andò a Viareggio, noleggiò una barca, prese il largo e gettò la lama negli abissi del mare.
Il boia Paltoni, rimasto sospeso tra le alternative dei tempi, al magro pane dello stipendio di boia in aspettativa unì il companatico della medicina semplicista, facendo delle cartine, con certe erbe, che guarivano prodigiosamente il mal di capo. Tutto il contadiname, infermato al capo, correva al boia semplicista. Un padrone volle riprendere la folle fiducia di un suo mezzadro; ma s'ebbe questa risposta, chiara benchè in vernacolo lucchese: «Sor padron, ai dottori ni vado in sacca. Son istato dal boglia; s'un mi guarisce lù, non mi guarisce neanco Gesù».