Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

LA SECONDA MORTE DI ELVIRA DI BORBONE

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

LA SECONDA MORTE
DI ELVIRA DI BORBONE

 

 

 

 

 

La prima morte la colse nel tardo settembre del 1896 all'età di ventiquattro anni: bella, dell'avvincente bellezza delle donne spagnole, slanciata come una figura di Goya, Ella aveva del moresco: i grandissimi occhi neri languidi staccavano sul pallore cereo del viso ovale; la principessa Elvira soleva ravvolgersi il capo entro uno scialle bianco screziato di trine e gli occhi balelanti parevano due rondini posate su una rappa di biancospino. Della principessa s'invaghì il pittore Folchi: il trepido cuore della principessa cedè alle lusinghe del cuore. Una notte di luna, che empiva d'ombre e di stupore il gran viale del parco, Ella, progenie di Re, si abbandonò alle peripezie della vita normale. All'alba, Don Carlos di Borbone, il padre, annunziò ai fidi la morte della figlia Elvira.

E per Lui fu morta quel giorno!

Dopo trentaquattro anni la morte le ha sigillato i begli occhi con un sospiro di sorella.

Trentaquattro anni travagliati: il pittore Folchi aveva moglie e figli, ne riebbe quattro dalla principessa. La coppia vagò smarrita l'Europa. La principessa provò anche l'angoscia dell'abbandono, il lento lavorìo della tisi!

Assistita dalla sorella Beatrice Massimo, Ella è spirata in una casa di salute in Parigi tumultuante.

Il bel corpo, che tragittò il parco agitato dall'inquieta trepidazione della fuga, ritorna alleggerito, sotto la vaga modellazione dei patimenti, come un sarcofago. Intorno all'ombra purificata dalla morte, su cui si alzerà la rustica croce dei frati Santo Francesco, saranno principi e principesse di mezza Europa. Elvira di Borbone sarà tumulata nella Cappella regale, nel mezzo al gran parco abbandonato.

Le tombe dei Borboni sono, una sull'altra, spaziate da bei lastroni di marmo nel breve ambito della cappella, occultate da una tenda di broccato rosso granato, che scende su di una porta pesante di castagno. Una bifora alta vetriata di lastre smerigliate filtra una luce argentata. Dalle pinete imminenti viene l'odore della ragia di pino, acre come la torcia a vento. Qui riposano la madre, S. A. R. Margherita Duchessa di Madrid nata a Lucca il gennaio 1847 e morta a Viareggio il 29 giugno 1893; Enrico di Borbone conte di Bardi, S. A. R. Maria di Borbone duchessa di Parma, S. A. R. Augusto di Borbone principe di Parma, S. A. R. Roberto di Borbone Duca di Parma, Piacenza e Guastalla, e Immacolata Anastasia, Augusto, Ferdinando, principi di Parma, Carlo III ucciso a Parma nel 1854; il figlio di Maria Teresa, la Santa, il cui corpo, vestito dell'abito domenicano, fu per volontà di lei trasportato a Roma e sepolto nella Cappella dei domenicani al Verano. È qui invece composto entro sarcofago di statuario il padre del Duca di Parma, Carlo Lodovico di Borbone, Duca di Lucca e Vienna. Dal giorno della fuga di donna Elvira, sul castello dei Borboni che guarda con le cento finestre la spiaggia dal Gombo, si abbattè come un lutto grande.

Nel parco crebbero le malerbe, coprirono le vasche, occultarono i vialetti argentati di ghiaina che riducevano sotto l'ombre fosche degli abeti; due colossali platani centenari, non più potati, allungarono le braccia nocchiute nel cielo; su quei due paretai naturali si posava l'uccellame che aveva tragittato l'oceano: l'arcano silenzio era rotto dal roco crocitare di volatili strani. Il parco «bandito» vegetò a guisa di una foresta tropicale. Se qualche raro visitatore penetrava nella Cappella regale, sempre vuota, alitante il chiuso, sentiva sotto i suoi piedi risuonare il boato delle tombe come campane d'argento e gli rispondevano quelle d'oro occultate dalla volta stellata. I nomi scolpiti sui lastroni colmati d'oro di zecchino lucevano come illuminati dall'interno delle tombe. La figura statuaria del Duca di Parma, reclinata sull'omero, coperta dell'ermellino partito in pieghe di grande dignità pareva sollevata da un vasto sospiro.

Nel parco squallido erano passati aloni di sogno. La duchessa di Madrid Margherita di Borbone incedeva maestosa: il taglio ardito del suo profilo intrepido non risentiva della soavità dei riti che ivi si consumavano. Ella indossava, di consueto, un abito di trine di seta cruda, un ricamo di travertino sopra un corpo bene architettato. Don Carlos di Borbone, pretendente al trono di Spagna, maschia figura di gentiluomo, di guerriero e di Re, alto circa due metri, incuteva subito rispetto per l'imponenza della statura: ben proporzionato di membra, chiuso nella divisa nera aderente al bel corpo, come la scorza sul tronco di un albero, coi gambali e gli speroni, si attagliava bene in una sagoma del Bronzino: la testa eretta sul collo gagliardo era intrepida con gli occhi velati di languori: occhi vivi, umani, penetranti, pieni di fatalità; la barba Egli aveva nerissima e lucida come l'ebano, ben ravviata, ma intonsa; la «boina» carlista, specie di berretto basco, che Egli portava lievemente inclinata, velava di celeste la carnagione d'avorio e gli occhi alabastrati; le mani solide e muliebri abitualmente vessavano una i guanti e l'altra l'elsa della spada intarsiata d'avorio. Quando Don Carlos saliva a cavallo, un cavallo pece di razza araba, e caracollava nel viale dei lecci, sembrava uno dei più bei dipinti di Van Dyck. Al suo apparire la gente si nascondeva nelle leccete; ma se qualcuno più ardito si poneva sul saluto, Egli rispondeva con un generoso inchino anche ai più umili accattoni. Don Carlos doveva essere taciturno e pensoso: anche quando era tra i familiari soleva guardare lontano lontano.

 

 

Un giorno, nel Palazzo, si sparse la notizia che il principe e le principesse andavano in pellegrinaggio in Terra Santa. I servi e il contadiname stupirono: per quei sempliciotti la Terra Santa esisteva soltanto nelle imaginette che distribuivano dopo la messa i frati francescani: un palmizio ingentilito, l'asinello, il bue, il bambino Gesù, Giuseppe e Maria. Quando i padroni fecero ritorno dalla Terra Santa fu impartita la Cresima, ai figli dei servi: le bimbe tutte vestite di bianco, i ragazzi vestiti di una stoffa color del tiglio secco. Il pranzo fu imbandito nel mezzo al parco e le principesse servivano a tavola: Bianca, Beatrice, Elvira, Alice. Prima di metter cibo alla bocca fra i tronchi abbarbicati dalle liane e le ciuffaie degli oleandri apparve il vescovo mitrato agitante il pastorale d'argento con il piviale rutilante; egli, benedicendo, allargò le braccia: il piviale foderato di verde setato sugli orli era incendiato d'oro; sullo sfondo del cielo nuvolato di bianco parve un grande dipinto del Tiepolo. Le principesse volavano intorno alla tavola come uccelli di paradiso. Le bottiglie di vino bianco esplodevano ora sulle tavole.

Quel giorno la principessa Elvira, che doveva avere verso i diciotto anni, appariva e spariva nel parco come una fata; la sua carne aveva un profumo dinervante, le braccia tra gli sbruffi dei lini trasparenti sembravano toni di rosa sotto la brina primaverile.

 

 

Una notte la fata sparì dal Castello incantato: raccolti pochi indumenti, alcune gioie, ravvolta in mantello nero traversò l'immenso parco tenebrato dalle leccete e dai pini; la guardia daziaria che vigilava la barriera confinante con la tenuta salutò umilmente la principessa che, a quell'ora insolita, andava verso la stazione: verso il suo sogno!

Nel Castello la sveglia fu drammatica. – La principessa Elvira dorme? È morta? – Aperta la porta del suo appartamento, questo fu trovato vuoto e come rovistato dai ladri.

Il padre scrisse: oggi è morta mia figlia Elvira!

Oggi la principessa ritorna dopo una lunga espiazione rasserenata dalla morte!







«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License