Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

DIECI TONNELLATE D'INTELLIGENZA A TORCELLO

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DIECI TONNELLATE D'INTELLIGENZA
A TORCELLO

 

 

 

 

 

Alfredo Oriani entrando – ai tempi del dazio consumo – nella città di Faenza, col suo cavalluccio, fu fermato dagli agenti della gabella e: – Niente da dazio?

– Se l'intelligenza paga dazio, qui ce n'è dei quintalirispose egli.

Secondo Oriani l'intelligenza si poteva mettere sulla basculla e pesare, e non c'era verso di frodare perchè bisogna portarsela sempre seco, e tutta.

L'aprile del 1907 il Municipio di Venezia dette l'incarico all'onorevole Fradeletto, allora segretario generale della Biennale, di noleggiare un vapore per il trasporto all'isola di Torcello degli artisti espositori, dieci tonnellate, all'incirca, d'intelligenza. Il vapore fu noleggiato e un mattino d'aprile sulla Riva degli Schiavoni avvenne l'imbarco, senza bisogno di paranchi e di gru, chè ognuno portava sulle spalle il contenente del carico prezioso.

 

 

A poppavia del vapore, sullo specchio celeste, c'erano scritte in biacca queste parole versificate:

 

Salda sull'onda instabile marina,

Vinegia sta del mar d'Adria reina.

 

Il vapore si chiamava Bella Venezia e batteva sull'albero di maestro bandiera rosso setata con su ricamato in oro fino il libro aperto e il leone: Pax tibi, Marce.

L'imbarco avvenne ad uno ad uno come le pecorelle dantesche; nei porti d'Oriente quando debbono caricare sterminati branchi di pecore il pastore ne prende una per le corna e l'avvia sul pontile levatoio che unisce la murata alla calata e tutto il gregge gli si avvia dietro e annuvola dei suoi manti la stiva e il gavone.

Non sembri il paragone irriverente a quella massa di artisti che venticinque anni fa erano allineati sulla Riva degli Schiavoni.

Sulla coverta della Bella Venezia si potevano dire diverse lingue chè quasi tutti gli artisti d'Italia erano stati noleggiati.

In quell'anno il gran salone della Biennale era stato decorato da G. A. Sartorio, che, trattenuto a Roma, non partecipava al viaggio di Tortello. Qualcuno prese l'iniziativa di spedirgli un dispaccio che fu tosto scritto sulle mutevoli onde: «Artisti italiani e stranieri viaggiando verso la Pompei Adriatica salutano, ecc....». Lo scrivente, essendo tra i più giovani della comitiva, ebbe l'incarico di raccogliere gli autografi e si rivolse per primo a Gaetano , uno dei più vecchi della comitiva. In quell'anno il Previati aveva esposto nella «Sala del sogno» il dipinto Fetonte coi cavalli in uno sfacelo di luce. Il maestro doveva essere un po' angustiato da certe facezie che i colleghi avevano rilevato su quella sala: «Sala del sogno? Guardate di tenere invece gli occhi bene spalancati». Ognun sa che gli artisti nel giudicare vanno cauti come il cieco che tasta prima il terreno col bastone, ma quando hanno preso pratica, novantanove su cento, suona a Olio Santo e Comunione.

Il Previati tolto il modulo telegrafico lo meditò lungamente, lo lesse e rilesse, poi firmò facendo una tenue riserva in sordina: «Mi sembra che si caschi un po' nell'iperbole». Luigi Nono e Guglielmo Ciardi, giovialissimi, firmarono allegramente, il vecchio divisionista Morbelli, un po' sospettoso, come tutti quelli che sono duri d'orecchi, non sapendo, per , capacitarsi di quale firma si trattasse, lesse con un po' di concitazione, ma resosi conto firmò a due mani. E firmaron Davide Calandra, slanciata figura di cavaliere, e il piccolo Dorsi, napoletano, e Marus De Maria e Umberto Boccioni, venuto, fresco fresco, dalla Russia, che allora sembrava l'estrema Tule, accanto a Ceccardo Roccatagliata, letterato e critico d'arte (che giurava di aver veduto vagare davanti ai dipinti di Franz Stuck l'ombra accigliata di Federico Nietzsche), e Milesi e Amleto Cataldi, e Noci...

 

 

sulla coverta fu servito il desinare, tutta roba fredda, che si riscaldava col «vino a volontà». Molti di quella moltitudine, assuefatti a condire i pasti con la salsa al Pover Uomo, scorza di limone tritata con cipolle e pepe entro una scodella d'acqua gelata, e alla zuppa dell'Avaro, scalogni tritati e aceto, fecero buon viso a certe ombrine, fatte cuocere arrosto, cosparse di vino, e di rosmarino e d'altri ingredienti, e ai pesci corvi. Quelli dentro terra credettero, leggendo la nota, che fossero stati serviti dei corvi di ombroso augurio, quegli uccellacci che svolazzano sulle paludi morte, ma quando sentirono quella carne bianca, drogata con bullette di garofano e mazzettini d'erbe diverse, guarnita tutt'intorno con fogliette di prezzemolo e belle fette di limone con della maionese, gialla come il prezioso giallo Cadium, si dipinsero di quel colore le labbra e la lor lingua diventò una spatola: – Bei pezzi di natura mortadicevano quelli appastati. – Ad averli avuti alla Ruchedicevano i reduci dalle prime spedizioni di Parigi scarniti dalle penitenze e i digiuni.

sulla coverta della Bella Venezia pareva avesse fatto apposizione, ingigantito, il famoso quadro di Lionne che è alla galleria di Valle Giulia a Roma I grassi e i magri. L'autore era presente in un circolo di gente, appastata e satolla, lindo, pulito, lustrente, garbato; qualcuno, come nel famoso dipinto – qualcuno magro s'intendetrasse, chi sa di dove, una chitarra e cominciarono i canti, da quelli veneti

 

Co Venezia comandava

se disnava, se cenava;

coi Francesi, bona zente

se disnava solamente;

coi Tedeschi su la schiena

se disna, se cena.

 

a quelli sardi di Sebastiano Satta, intonati dallo scultore Francesco Ciusa di Macomer, che in quell'anno fu il giovane trionfatore della Biennale con la sua scarna figura La madre dell'ucciso acquistata per la galleria di Roma.

Dopo consumato il pasto, un venticello, dapprima piacevole, di poi più gagliardo, fe' cangiare le verdi onde a bavarella in toni di caffè e latte con svolaggi di panna, le bandiere della Bella Venezia pareva schiaffeggiassero il cielo, il fumo della ciminiera le torbava di bitume, il vapore ingavonandosi a pruavia alzava la chiglia a poppavia, e l'elica, frangendo acqua e vento commisti, bugnava come un colossale calabrone; a qualcuno parve che la cima dell'alberetto fosse stata agganciata all'arco del cielo e il mare la spingesse per far l'altalena. Rollio e beccheggio: più piccola è la nave e più forti sono questi movimenti; molti furono presi da quel disturbo noioso e grottesco contro cui la medicina, che ha rimediato per quasi tutte le malattie terribili e complicate, non ha ancora escogitato nessun palliativo e lenitivo; l'intolleranza prodotta dai movimenti del bastimento, il mal di mare, cominciò a far guasto a bordo della Bella Venezia, e qualche tributo fu versato al mare.

In quei frangenti del mare e della vita i marinai, che tranne poche eccezioni al principio della loro carriera hanno sofferto di questo malanno, sogliono mangiare delle sardine in salamoia senza nemmeno nettarle: cibo da gatti, assai noto a quelli della imbarcazione che soggiornarono alla Ruche in Parigi.

Ma come Dio volle la Bella Venezia potè attraccare sana e salva a Torcello, dove una banda musicale aspettava i gitanti. Musica in testa, giovani e vecchi, grassi e magri, noti e ignoti, per un sentierolo lineato di prunaie si avviarono verso la cattedrale, dove precedentemente all'Alighieri un mosaicista ha raffigurato l'inferno.

 

 

Il corteo era straordinario: i bandisti, tutta gente isolana, di montura avevano soltanto un berrettino con la visiera incerata, con su una lira d'oro e una fettuccia del medesimo metallo; quelli che davano fiato ai tromboni parevano presi tra le ritorte di un serpente pangolino, e quelli che soffiavano nelle cornette sembravano colti dalla resipola: pigolio di clarinetti, tuoni solitari di grancassa, sfacelo di piatti.

Sulla desolazione di quelle sterpaie passavano, come un'orda sbandata, quasi tutti gli espositori della Biennale del 1907, Olivero piemontese e Olivari ligure, il versiliese Viner assuefatto alle vette dell'Altissimo, il romagnolo Rambelli e tra di loro trasudante e sbuffante, Locatelli (Oronzo Marginati), il livornese Nomellini, il carrarese Dazzi, Discovolo e tutte le celebrità di cui si son già fatti i nomi con una moltitudine di artisti forestieri.

Su di una bandiera messa per pavese a un albero ramificato si poteva leggere: «Qui il veneto leon regge e governa». – Ma dove siamo venuti a perdere la vita! – mormorò qualcuno.

Al ritorno essendosi il vento umiliato, e con il vento il mare, il viaggio fu piacevole e tutti salutarono con ilare voce l'apparire, fusa in vapori viola, della gran chiesa della Salute, tanto più che ognuno si era rimesso in salute. Lo sbarco avvenne proprio davanti al Ponte dei Sospiri, e quelli non assuefatti al mare appena messo un piede in terra ferma sospirarono.

Gli abbacinati dallo splendore metaforico della gloria si ridussero un po' sconturbati ai loro alberghi sulla Riva o sul Canalazzo; gli altri, quelli che se ne stavano attaccati al grande albero come tante piccole fogliette che se anche fossero cadute tutte sotto una raffica di vento l'albero non avrebbe cambiato linea, si dispersero per le calli dei sestieri popolosi.

In un'osteriuccia stava seduto con la rassegnazione del suo celebre Cavallo vecchio – «È il mio ritratto», soleva direGiovanni Fattori, che avendo ottantun'anni non aveva potuto partecipare alla gita.

– Ma lei cosa viene a fare a Venezia?

– A imparare benchè per me l'arte sia finita e non sappia più cosa darle. Sono – come dicono, il decano; ora tocca a voi giovani a prendere quel po' di buono lasciato da noi vecchi e rendervi liberi da ogni imitazione straniera. Ho fatto un piccolo sacrifizio pecuniario per venire a Venezia; anzi mi fareste un piacere a dirmi dove con maggior economia potrei andare ad alloggiare.







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