Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

ALESSANDRO IL «DURO» BERSAGLIERE A ADIGRAT

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ALESSANDRO IL «DURO»
BERSAGLIERE A ADIGRAT

 

 

 

 

 

Bisogna proprio dire che la «Vignetta» di Viareggio è stata ferace di cuori avventurosi, di anime eroiche e di uomini rudi, amanti del bel canto. Si chiama «Vignetta», qui, la Darsena nuova, interchiusa tra il canale della Burlamacca, il viale Coppino, la caserma della Marina e il campo Polisportivo. Vanamente, però, in questo piazzale, – assaettato di tronchi d'alberi centenari, d'antenne d'abete trentino, di caldaie di pece bollente, di forge, di paranchi, cavi, vele distese ad asciuttare, reti, ancore e timoni, – cerchereste una sola radica di vite o tralcio di sarmento. Della vigna c'è rimasto soltanto il nome; ma vi sono tante rimescite di vino: vino gagliardo governato con mosti isolani, vino isolano schietto dell'Elba e d'Ischia e di Sicilia. Ma i vecchi carpentieri e i decrepiti magnani asseriscono che, ai tempi dei tempi, la «Vignetta» fu ferace d'uve, e di uve salmastrose e ferruginate. Il vino della «Vignetta» ebbe grande rinomanza per le sue virtù fortificanti e ricreatrici.

In «Vignetta» sono nati o cresciuti tutti gli eroi viareggini, vecchi e dei giorni nostri. Volpi, il fedelissimo di Costanzo Ciano nelle leggendarie imprese, è nato giù di qui; «Scricchi», – Silvestro Palmerini, – il vecchio navarca che sulla paranza La Madonna del soccorso portò Rosolino Pilo e Giovanni Corrao in Sicilia, nacque e morì in «Vignetta». Di qui il giovane marinaro Codecasa, della Stella Polare del Duca degli Abruzzi, e un valoroso soldato di Millo, nell'impresa dei Dardanelli. Di «Vignetta» è Alessandro Bertuccelli, di Annibale, di «Pezzo duro», detto perciò il «Duro», – e il soprannome ben gli sta, chè Alessandro Bertuccelli è duro come un ceppo di quercia, e nero come il legno tecche, – soldato volontario del battaglione Prestinari che fu assediato a Adigrat, proveniente dall'Ottavo Bersaglieri. Alessandro Bertuccelli che ha oggi una sessantina d'anni ma balla come dice lui sopra un centesimo, è rimasto, e rimarrà per tutta la vita, attaccato al suo reggimento glorioso.

Quando stamane ho messo dei buoni cani a caccia per levare il «Duro», – che si è da se stesso confinato sulla spiaggia di ponente, in una impalancita di tavoloni di un bagno, vigilando notte e giorno il variare dell'umore del mare, – con la preghiera ch'egli si recasse subito alla fiaschetteria dei «Poveri vecchi», chè cose urgenti lo riguardavano, il «Duro» ha obbedito subito al comando amichevole, si è calcato sul capo il cappello delle buone occasioni, conformato su quello dei bersaglieri, alto sulla fronte ancora combusta dal sole estivo, che il «Duro ha preso tutto facendo il bagnino ed è venuto a passo di carica alla fiaschetteria dei «Poveri vecchi». Appena è entrato ha dimandato: «Cosa c'è? S'è mosso l'Ottavo Bersaglieri?». Perchè Alessandro di «Pezzo duro», è rimasto legato all'Ottavo Bersaglieri, e quando si muove il suo reggimento, egli sente il diavolo nelle gambe.

Un giorno Alessandro di «Pezzo duro», da poco ritornato dalla campagna d'Africa, fu avvertito di corsa da un facchino della stazione che di sotto la medesima transitava l'Ottavo Bersaglieri diretto a Candia.

– Cosa hai detto?

– Il tu' reggimento è sotto la stazione, e tutti chiamano il «Duro».

Maledetta la mia calzatura. – Il «Duro», che a quei tempi faceva il bozzellaio in «Vignetta», tirò via le ciabatte, calzò un paio di scarponi, si calcò sul capo il vecchio fez rosso scarlatto con la nappa, e via al volo verso la stazione. Ma l'Ottavo cantava già all'altezza di Torre del Lago: «Avanti bersaglieri – che l'avete la gamba lesta»; e il «Duro» dovette tornarsene a trafficare con le pulegge e le bronzine.

Durante la grande guerra l'Ottavo si mosse con eroica prestanza bersaglieresca verso le frontiere della Patria, ma il «Duro» per l'età dovette rassegnarsi allo stellone rosso della territoriale e partire per ignota destinazione. E seguì l'Ottavo con l'ardente desìo della sua prima giovinezza.

– Cosa è successo? S'è forse mosso l'Ottavo Bersaglieri? – ha detto oggi anfanando.

– Qualche reparto di vecchi commilitoni dell'Ottavo, sì!

– E dove si va?

– Ma non lo sai che a Napoli c'è l'adunata dei vecchi soldati dei battaglioni che combatterono nell'Africa italiana?

– E mi avvertite ora? O non lo sapete che io vivo sul mare, verso il Gallinaro? Rena e mare, mare e rena, e sulla rena non scrisse mai nessuno, e se qualcuno ci scrive, un soffio di vento lo scancella.

Il «Duro», rinfocolato da un bicchiere di vino di buona pasta, racconta che in «Vignetta» l'avevan fatto tutti morto nell'Africa, perchè lui non ha confidenza con la penna, e che, quando vi riapparve vestito di tela gialla e col fez rosso, lo presero per lui, sì, ma che ritornasse dagli eterni riposi. Aveva messo una barba nera e lunga come quella d'un romito ed era diventato nero come i mori che facevano vedere nei baracconi, che un tempo alzavano proprio in «Vignetta». Nemmeno suo padre lo riconosceva.

Il padre di Alessandro, uomo provato a tutte le traversità, si faceva animo a chi gli domandava: – Ma del tuo figliolo si sa nuove? – No! – Sarà morto? – Eh figlioli, – rispondeva filosoficamente – senza rompere uova, non si fa frittata!

«Pezzo duro» trovava grande conforto nella poesia; a quei tempi egli era uno dei più appassionati improvvisatori della «Vignetta», e ce n'era di bravissimi. Anche per la guerra d'Africa aveva fatto una poesia, che cominciava:

«È l'Italia nostra una centrale, che in tutto il mondo non si trova uguale...»

Avendo un figlio nell'Africa, assediato a Adigrat, lui così fantasioso cominciò a lavorar di fantasia. Mentre lavorava al tornio, un vecchio tornio a pedale («Il tornio cammina, e mai si stanca, – però si ferma quando un pie' gli manca»: anche questi versetti sono di «Pezzo duro»), torniva rime roteanti sulla puleggia rovente del proprio cervello: «E con Tunisi, ove fu Cartago altera, – emula già di Roma acerba e fiera... più giù Cafreria giace sul lito, – e di Buona Speranza il capo addito. – Dello Zambruccagam mira la costa; – l'Abissinia bollente al norde è posta». Il «Duro» è : che Dio l'assista!

Dirimpetto alla bottega di «Pezzo duro» c'era l'officina di Tonin Giorgetti, fabbro, il quale sull'incudine sonora martellava versi che parevano incisi: «Rise tre volte il cielo ed altrettante – fin dai cardini suoi, tremò l'Averno». I figli di Tonin Giorgetti, Telemaco, Pindaro, Omero, Mentore, fabbri come lui, l'ascoltavano fieri e talvolta gli facevano il coro. Dopo l'abbozzo e la martellatura, Tonin Giorgetti, poeta di più vasto impegno di «Pezzo duro», sottoponeva il getto all'opra paziente della lima; ma la lima dirugginiva i versi (lima dell'intelletto, naturalmente), nella rimescita dell'Assuntina di Darsena, o alla Marianna di Fredianetto, o ai tavoloni della «Piera di Sagrino», dove facevano i ponci alla fiamma, ardenti come le faci che i giovani Greci si commettevano da una mano all'altra: i ponci che stanano la poesia anche se s'è ricettata nelle tufose ossa del teschio.

Tonin Giorgetti, fabbro, limava i suoi versi in cima di tavola; e «Pezzo duro», tornitore, li torniva in fondo; lima e tornio andavano a spirito, zucchero bruciato e caffè tostato.

«Acque lucenti sterminate e chiare... – e a poppa stava il celestial nocchiero – e più di cento spirti entro siedero», si borbottava in cima di tavola; e in fondo, in corpo a «Pezzo duro», pareva bollisse una pentola: «E mi avvicino lemme lemme, – fino a le porte di Gerusalemme».

Dopo, testimoni Tonin di Tista, Fortunato di Papazzino, Drea di Tramonte, Giovanni delle Bettole, Giando di Sorbano, Rosso di Patacchino, il Vandalo, avvenivano le «singolari tenzoni».

Bada che ti sfido a singolar tenzonediceva Tonin Giorgetti.

– E io accetto la disfida di Barlettarispondeva «Pezzo duro». E Barletta richiamava il vino ferrato di Trani e di Bisceglie.

 

 

«Domine non son degno – la poesia ha rovinato più di un legno».

– Sono gli ultimi versi scritti da tuo padre – ha detto un vecchio ad Alessandro di «Pezzo duro», che ascoltava attento il racconto.

– È vero: quando a mio padre gli sfrullavan per il capo i versi, torniva, e torniva tanto che di una puleggia faceva una trottola. Una volta mio padre accettò la sfida di rimare con fegato e nessuno di noi ci faceva più vita. – Trovatemi una rima con fegatodiceva egli concitato.

Segàto – si rispondeva noi. – Badate che v'accento il capo con un nocchino. –– O che noi siamo poeti?

Un giorno, mio padre torniva con la zampa e col cervello legno e versi; a un tratto, dette una pedata al pedale e il vettone d'ontano percosse il soffitto: – Se al delegàto si potesse dir delègato, – Avrei rimato con fegato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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