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IL PIONIERE D'ARARUPE | «» |
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Viareggio si spopola; raffiche gagliarde di libeccio addossano nubi temporalesche sul grande schienale del monte Carchio; una greggia tumultuosa pare il mare scalpellato dai turbini; Monte Corvo e le isole stanno al largo, come possenti navi d'acciaio disalberate; le palme sventagliano tanto forte che pare rinforzino l'impeto del vento.
Uccelli di tempesta remigano, le grandi ali intrise di turchinetto e d'inchiostro, e calano verso le lame della palude, su cui le ciuffaie dei falaschi sembrano pescare i pesci sguiscianti nel loto. Sulle strade luttate dall'asfalto arrancano uomini che il temperale ha stanato dai covili della Pinciana, uomini assetati d'aria salmastra e di silenzi sepolti entro le grandi arche dei marmi stivati presso i pontili d'attracco.
Anche il pioniere d'Ararupe, dalla robusta ossatura e dalla fronte dura ed arcuata come una doga, con gli occhi di basalto, naso uncinato simile a quello dei volatoi rapaci, bocca all'ingiù come le divinità crucciate, pare sia stato stanato dalla sua casa solitaria. Qualche goccia di piovasco tamburella la sua pelle conciata nelle foreste paurose del Chaco: «Siamo la pioggia, siamo la tempesta». Il solitario d'Ararupe, sotto quel tatuaggio, sembra ringagliardire e disdire gli ottant'anni, che lo hanno reso bianco come lo statuario.
Il pioniere d'Ararupe è l'esploratore Adamo Lucchesi che, abbeverato di sogni, lasciava, or sono sessantacinque anni, la Pieve dei Monti di Villa per avventurarsi, senza sicuro destino, nelle lontane Americhe, dove sofferse tutte le tribolazioni.
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In questa giornata temporalesca, che pare spalanchi le vie del cielo all'algore invernale, sono stato a trovare l'esploratore Adamo Lucchesi, il quale, per le vetriate della sua casa, fuse dalla pioggia, esplora il cielo nubiloso. Un grande uccello ingabbiato mi è sembrato oggi l'audace violatore degli spaventosi silenzi delle foreste del Chaco, musicati di bramiti. L'uomo dalla robusta ossatura e dal fiero sguardo aquilino ha in mano una tazzina di «mate», piccola come quelle in cui si abbeverano nelle gabbiette gli uccellini volatoi: ma nella bevanda egli sazia la sete nostalgica della foresta tropicale. Annusa il «mate» come Incitato (il cavallo di Caligola) annusava per l'aria l'acre profumo della battaglia. L'odore del «mate» gli incurva le ciglia, gli aggrottesca tutto il viso gagliardo: sembra che da un momento all'altro le vetriate debbano frantumarsi sotto una spallata di questo vecchio gigante ingabbiato.
Vedo appesi alla parete dei ritratti sfuocati dal tempo. – Sono i pionieri, – dice crucciato il solitario d'Ararupe, Giacomo Bove, Guido Boggiani, Luigi Zalzan. – Nelle narrazioni tremende e pacate tragittano nomi di altri pionieri, che qui non sono ritratti.
Adamo Lucchesi, mentre parla, si affissa nella fotografia di una casa bassa e larga: una «tettoia» annientata sotto alberi millenari. È la «chiusa» d'Ararupe, dispersa nelle boscaglie del Paraguay: «Ararupe», che il pioniere mi dice significa: piccolo padre del tempo: – La «chiusa» paraguayana era stata battezzata così dagli indigeni, ed io ho lasciato il suo nome.
Parlando, il pioniere d'Ararupe ritorna col pensiero laggiù ai margini della foresta, sulle sponde friabili di un fiume aculeate di salicastri, tra i quali si vede attraccata una zattera.
Adamo Lucchesi ha scritto un libro di ricordi. Se il pioniere d'Ararupe ha scritto come parla, il suo libro sarà una cosa viva. Il favellare di Adamo Lucchesi, puro, assennato, riflessivo, biblico, qua e là inzeppato di sentenze latine e di proverbi nostrali, ha l'intonazione casalinga, ondeggiante, di quello che si parla su, verso i pendii della Pieve dei Monti di Villa. I suoi fondamentali caratteri sono sempre rispettati, anche se, qualche volta, si slitta sulle regole grammaticali.
Il libro, di cui il pioniere d'Ararupe è gelosissimo, sarà dedicato ai pionieri (alle loro anime): – Essi soli possono giudicarmi – e il profetico Adamo Lucchesi, quasi benedicente, alza il braccio verso le loro effigi.
A un certo momento, l'esploratore fa arco delle sopracciglia, roncola del suo naso grifagno, batte un pugno sul tavolo, gridando: – Vorrei poter convertire in penna l'acciaro del mio «machete», per poter descrivere al vero l'alta poesia della foresta vergine. – Al mio stupore ammirativo e contemplativo l'esploratore chiarifica: – Il «machete» è la scure, senza la quale non ci si può avventurare nelle intricate foreste vergini: il castigo dei rami, degli abbracciaselve e dei serpenti.
Adamo Lucchesi, nel Chaco, conobbe Guido Boggiani, il singolare pittore di Omegna, della provincia di Novara, che fu compagno di Gabriele d'Annunzio e di Scarfoglio, quando i due veleggiarono su di un fragile naviglio verso la Grecia, che con l'ardore delle passioni che si sviluppano tardi, già incamminato verso la gloria, s'avventurò nelle boscaglie inesplorate del Chaco, dove fu, dopo traversità inaudite, massacrato.
Il pioniere d'Ararupe mi mostra, con mano che trema, ma con saldo cuore, la Laude di Gabriele, in cui l'episodio di Guido Boggiani prende alto rilievo:
gli affaticava, desìo
esperienza di genti
Lo scarno profilo del pittore esploratore si adegua al pallore della parete. Quasi esangue appare il suo volto, ma i suoi biondi capelli sorgevano senza mollezza su la robusta ossatura della fronte, nata a cozzare contro l'impedimento.
Il pioniere d'Ararupe mi racconta di Guido Boggiani cose fierissime. Il pittore cereo, dai piedi delicati, per assuefarsi ai travagli degli spini e delle morsicature delle serpi, che s'adeguano al colore della vegetazione insidiosamente, passeggiava a piedi nudi sopra i pruni. L'orme si macchiavano del suo sangue vivo; i piedi suppliziati, piagati come quelli di un martire cristiano, si cicatrizzarono lentissimamente, risuolando le piante di un cuoio, battuto e ribattuto dai poderosi martellamenti del cuore.
Dopo il supplizio, Guido Boggiani solo, con un sacco, delle fiale, una siringa, una penna, dei lapis, della carta, e una bandiera italiana (sotto cui furono rinvenute le sue ossa) si avventurò nel Chaco pauroso.
– Loro sono giudici del mio scritto: loro soli! – E il solitario d'Ararupe rimane sul saluto, dirimpetto alle forti teste dei pionieri.
Da un usciolo piccolo piccolo, sul far della sera, è apparsa una servente piccola come una bimba, con la voce di bimba; ma è una donna già fatta, ed ha parlato al solitario d'Ararupe dimessa, ma con voce sonora. Adamo Lucchesi, più alto vicino alla servetta, ha alzato le lunghe braccia al cielo, gridando: – Tutto a tempo e luogo! – ed ha scaricato intorno delle occhiate terribili. Sullo sfondo della vetriata, arrossata da un livido tramonto, mi è apparso come un uomo che volesse gettarsi dentro una voragine di fuoco.
Maledizione alle case. L'esploratore sta cambiando alloggiamento; cento case gli sono offerte, case comode, fornite di tutte le cose necessarie. Sensali e sensale di case parlottano, piano pianino, con la servente: pare che si confessino segretamente in cucina.
– Odio le case, odio le case – tempesta l'esploratore. – Datemi un albero smidollato, uno schioppo, il mio «manchete», le boscaglie, il Chaco, il Chaco, il Chaco!
Il mare rompe al di là del muro; le palme sventagliano sulla fornace del tramonto livido, immane incendio su una boscaglia squassata dal libeccio.
– Volare, volare, volare! là, lontano.
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