Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

LA BENEDIZIONE DELL'ULTIMO ROMBO

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LA BENEDIZIONE
DELL'ULTIMO ROMBO

 

 

 

 

 

Un secolo fa, come lo attesta una targa di bronzo, il mare placido rompeva a cento metri dalla gradinata della chiesa di Sant'Andrea che il popolo di Viareggio, composto allora solamente di pescatori, vide costruita per provvedere ai bisogni spirituali della ognor crescente popolazione del paese, elevato alla dignità di città dall'augusta Maria Luisa di Borbone poco tempo prima ch'ella fosse sepolta all'Escuriale.

In quei tempi, dalla soglia del tempio, di sotto al bel colonnato dell'ordine dorico addossato al muro e sostenente un frontespizio triangolare, poggiato su tre campate rettangolari, – quelle laterali sostenevano due grandi anfore con le simboliche faci, e quella del mezzo una statua trionfale del Santo, – con un solo volger d'occhi si dominava il mare aperto. Le nude fiancate del tempio e il muro terminale del convento, nei giorni di tempesta, arginavano le onde infuriate, liberando il paese acchiocciato dopo con le sue casupole, i suoi orticelli, e le andane dei suoi gozzi pescherecci.

Di sull'attico, le statue della Speranza e della Fede, con l'ancora e la croce di ferro battuto, segnavano il cielo turchino. La croce, dipinta con la negra pece sulle gialle vele di fortuna, aliava per il mare, e l'ancora di speranza rampava a pruavia delle paranze, pronta ad essere gettata ad arare nei fondali marini. Nella stiva s'accendeva il lanternino all'imagine della Madonna dei sette dolori e in vetta all'antenna aliava un ramo d'olivo benedetto. I pescatori rivieraschi, solenni e pensosi come quelli di Galilea tra cui Gesù Cristo scelse gli Apostoli, navigavano senza bussola, chè le loro prue s'orientavano sempre sulla statua marmorea di Sant'Andrea visibile dalla foce della Magra a quella del Serchio.

 

 

La festa del Santo protettore dei pescatori cade in questa estatina dei defunti, quando il vento novembrino espande sul mare l'acredine delle selve, e nel cielo tramano seccumi di brenti e fogliame.

Un secolo fa intorno alla maestà di questo tempio i campi fiatavano l'umidore autunnale e muggivano roche le vacche, e vi stazionavano le mandre delle pecore che dall'alpe di San Pellegrino scendevano a svernare nelle Maremme. I pastori attruppavano le cavalcature ai tronchi dei favellando d'arcane cose coi pescatori stuporosi. L'argenteo tinnire dei campani delle mandre s'impastava coi doppi festevoli delle campane di Sant'Andrea.

«Nei casolari delle Pizzorne e su quelli inerpicati sullo schienale della grande Pania, e da tutti i monti che avvallano tra chiostre sonanti d'acque, la gente raccolta intorno alle pietre del focolare ascolta lo schioppettìo della scorza del pino verde e la romba del vento che porta, di forra in forra, ululi umani e bramiti di belva. I vegliatori si stringono uno tocca l'altro, si addossano alla parete bollente come quella di un forno, e la brace tinge i lor volti di carminio e le ombre son calde di fuliggine».

Un secolo fa correvano i tempi della carestia e i rivieraschi temevano l'approssimarsi di gruppi, di manipoli, di orde di derelitti montani richiamati dal verdore delle pianure, indice di vegetazione doviziosa.

La gente della montagna era andata in perdizione per le annate che si erano susseguite piovasche e tristi, con guasto continuato di temporali, si scerpevano selve, tagliavano boschi, e la gente famelica stava sui cigli dei torrenti aspettando che la piena trasportasse qualcosa per isdigiunarsi.

– Voi qui avete il mare, – concludevano i pastori; – quello che non oggi domani.

Tristo è chi deve vivere sull'onda istabile marina; il mare non ha rami da potercisi agguantare. Il mare non vi porge altro che schiuma; a noi non resta che stare in continua pace col nostro Santo protettore, Andrea amato, – dicevano seri i pescatori ai pastori, – e quando torniamo dal mare si bacia la terra, ci si lava e ci ricettiamo nel tempio.

 

 

Il giorno della festa del Santo protettore dei pescatori le ciurme delle paranze ormeggiate in darsena, in segno festevole, mettevano l'antenna e la stuzza a guisa di un colossale X, che sarebbe la famosa croce di Sant'Andrea, e se qualche paranza era sullo scalo in costruzione prossima ad esser varata questo giorno si mandava al tempio l'ultimo rombo di castagno stagionato che sembrava per miracolo fosse fiorito delle più belle rose degli orti. Due giovani carpentieri lo portavano a benedire davanti all'altare del Santo.

Se il rude scalpellatore paesano stava per dare le ultime sgorbiate alla statua del Santo, tratta da un tronco di odorifero cipresso, vigorosa polena che doveva essere bullonata sul tagliamare della paranza, la ciurma di quel naviglio la portava a consacrare sull'altare di Sant'Andrea.

Come nella favola pescatoria d'Alceo, per quel giorno avevano tregua, coi pesci, anche le reti, e le canne e le barche, amavano il lido, e s'inghirlandavano d'edere silvestri i capiruota di prua. Se i pescatori versiliesi non destavano le cetre e sampogne mitiche, abburattavano però le chitarre, e flautavano le ocarine; e sulle onde d'argento e le arene d'oro andavano i loro canti:

 

Dimmi, qual pesce ha nel suo grembo il mare?

 

I cori numeravano tutti quei pesci che svariano sul celeste e lo smeraldo. Il congro, il ciortone, l'acciuga, la sarda, l'ombrinotto, il sàrago.

 

Qual è quel pesce, e ti concedo il vanto,

ripieno d'alga la cui pelle mostra

da qual parte del ciel spirano i venti?

 

I nocciuoli, la tracina, l'aguglia.

 

Qual è quel pesce, e ti concedo il vanto,

del qual la destra penna forma e mostra,

posta sul cuor di chi dorme, alti spaventi?

 

Tutti i coristi si conturbavano e tacevano. Quando quel pesce di sinistro presagio sguisciava nei nostri mari i merghi stridevano, i ricci si nascondevano tra le arene, e i marinari si ritiravano al porto prestamente.

 

Ritiratevi al porto, o naviganti,

chè freme il mar dal fondo, e dei lor terghi

fanno i curvi delfini archi per l'onde.

 

Urlavano così i guardiani dei barchi atterriti.

Quando i neri delfini mugliando come tori marini, apparivano all'orizzonte e s'attuffavano a pruavia delle paranze, per assommarsi a poppavia, insidiando il sacco colmo di pesci arati in tutto il santo giorno, i pescatori dirottavano la barca al desiato porto, vigilando coi forgoli e le fiocine che il mostro non s'approssimasse alla carena. Perchè, un secolo fa, i pescatori di questa riviera non conoscevano quasi la circolazione della moneta; le ciurme venivano retribuite con un riposto di pesce pescato durante la giornata; la misura del riposto era la votazzòla di legno che serviva ad oggottare l'acqua dalla stiva, una specie di cucchiaione; si faceva una incugnatella di pesce vario che il pescatore permutava col fornaio e il vinaio. Per i pescatori tenevano una scodella di cacciucco, che durante la pesca cucinavano sulla coverta, e mangiavano all'osteria in compagnia della moglie e dei figli.

Ma se i delfini insidiosi potevano avventarsi sulla rete e lacerare il sacco tutte le fatiche se le ringollava il mare, e la sera i pescatori e le famiglie facevano tristi digiuni.

Se le ciurme delle paranze potevano infiocinare un delfino e trarlo in coverta, quando s'ormeggiavano nel canale era uno spettacolo: la notizia si spargeva per tutto il paese in un baleno, e tutti, uomini donne ragazzi e vecchi, correvano verso il pietrato ove il mostro era stato sbarcato e tutti volevano calciarlo e ingiuriarlo.

Il delfino, della dimensione di un toro, col grugno del porco, nero pece sul tergo e madreperlato sotto, con la coda a doppia elica seghettata, era stravaccato sulle pietre, a denti sgrigniti, con il buzzo gonfio di pesci divorati, e tutti ci pigliavano sopra il perdono con pedate, calcagnate e schiaffi.

– Sei stato tante volte la nostra rovina.

– Ci hai mandato tante volte in perdizione le nostre fatiche.

Grugno di porco che altro non sei.

Quella cattura era riguardata dai pescatori come una grazia fiorita fatta loro dal Santo protettore, e di sul pietrato, scorgendo la statua di Sant'Andrea ritta sull'attico del tempio, gli mandavano le loro benedizioni.

Se a queste scene si trovavano presenti i pastori rimanevano di pietra. Essi, non cogniti che anche le greggi dei pesci che si muovono a grandi armate nei fondali del mare erano insidiate da questa specie di lupi, non sapevano capacitarsi di tutte le offese che i pescatori e le loro famiglie lanciavano al mostro di cui avevano spavento e paura, ed ascoltavano estatici il canto votivo dei pescatori:

 

Sorelle e giovani, di pace un canto

sciogliamo al Santo

che ci salvò.

 

Dopo il canto votivo, i pescatori, con ebrietà quasi feroce, si avventavano sulla belva dell'oceano e la squartavano coi loro tagani affilati come rasoi riducendola in rocchi sanguinolenti; se la scompartivano, e il dimani se ne sdigiunavano, e la davano in pasto volentieri ai ragazzi perchè ritenevano che la carne del delfino liberasse dal mal di mare.

Se qualche rocchio veniva profferto ai pastori, questi si sconturbavano tutti.

Libera i vostri ragazzi dal mal di mare, isdigiunatevene.

Piuttosto di quella del luporispondevano con ribrezzo i pastori.

– Ma questo è traditore come il lupo. Se non altro cibatevene per ispregio.

– Non si può dispregiare quel che ha fatto il nostro Signore.

– Ben diceste, fratelli. Perdonanza delle male parole, – dicevano mortificati i pescatori. – Ma sia laudato il Santo che ce lo ha fatto infiocinare.

– Così sia!







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