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Anticamente in questo giorno di «Santa Croce» turbe di poveri e di pellegrini confluivano a Lucca anche dalle più lontane regioni, cantastorie e poeti improvvisatori si mischiavano alla folla, e cammin facendo cantavano la miracolosa comparsa nel territorio della Lucchesia dell'effigie del «Santo Volto». Venditori d'ogni genere, mendicanti, infermi, accattoni esponevano alle turbe processionanti verso il tempio di San Martino, ove si venera il gran Simulacro, le loro piaghe e le loro tristezze. Il popolino, tutt'oggi, nomina quella via «Via dei Poveri», benchè sui cantonali sia scritto «Via della Croce».
La sera della Santa Croce, Lucca e i paesi finitimi, Nozzano, Minucciano, Segromigno, insieme ai quindici castelli delle Vicarie, ardevano di fantastiche illuminazioni. Sulla piazza di San Martino, dirimpetto al duomo, si costruivano sotto delle trabacche, specie di padiglioni di guerra, dei «castelli fioriti» sulle cui sagome taglienti erano disposte delle migliaia di candele in modo da formare il disegno luminoso di un poderoso maniero. Tali macchine luminose erano varie e molteplici, ogni anno nuove nel disegno fantastico, e sempre così irte di ceri che la spesa di ognuna saliva a cifre altissime come le loro moli che talvolta raggiungevano i tetti delle costruzioni più elevate.
Fra gli spari delle artiglierie, di cui eran munite le incrollabili mura, e le salve dei moschetti della torre del Palazzo sfilava il lungo processionante corteo, striscia di fuoco. Arrigo Heine, che trascorse la «Santa Croce» del 1828 in Lucca, abbacinato da tanta luce scrisse: «Le case alte e fosche avevano le facce illuminate da numerosi lampioncini. Drappi e tappeti d'ogni colore scendevano dalle finestre e dai balconi nascondendo le smattonature e i crepacci dei muri; e al di sopra di questi tappeti sporgevano bei visetti di donna, ma tanto freschi e fiorenti ch'io intesi subito che doveva essere la vita a celebrare le sue nozze con la morte, invitando alla festa la giovinezza e la beltà».
Ordini monastici e Compagnie ecclesiastiche, autorità civili e militari di Lucca e del territorio, secondo l'ordine gerarchico imposto dai cerimoniali e recando ciascuno il peso del suo cero, la Corte dei Mercanti con la Corporazione delle Arti tutti in livrea, le contrade, i pivieri, le Vicarie seguivano gli stendardi sonanti come vele latine al palpito dei venti.
Il tempio si lasciava aperto tutta la notte sorvegliato dalle guardie di Palazzo, non solo per evitare disordini, ma anche per custodire gli inestimabili tesori della cattedrale e i preziosi ex-voto.
I cantastorie, accordati dalle strepitose chitarre, narravano la miracolosa comparsa del Volto Santo nel territorio della Lucchesia: San Nicodemo, unitosi a Giovanni da Arimatea, dimandò il divino corpo di Gesù Cristo, ed essendogli stato concesso lo deposero dalla Croce. Il Volto Santo è stato scolpito nel bosco di Ramoth Galaad sul monte Cedron. Lo scolpì San Nicodemo in sogno e si venerò prima in Berito, città della Siria. Per le persecuzioni degli infedeli i cristiani imbarcarono le loro immagini e i simulacri su barchette disalberate e senza timone e le vararono di notte tempo in mare. Quella in cui fu caricato il Volto Santo fu straccata sulla spiaggia di Luni. I rivieraschi se ne contendevano il possedimento. Il vescovo di Sarzana e quel di Lucca, per la buona pace, decisero di caricare la statua sopra un carro trascinato da due indomiti giovenchi e dove i due mansueti si fossero fermati quegli abitanti sarebbero stati i fortunati.
O Lucca fra cento
– Mi sento accapponir la pelle – dicevano con un tremito nella voce i fedeli lucchesi.
Gli scaltriti cantastorie sermonavano allora in prosa: – O fratelli udite! Dopo la modellazione della statua del Santo Volto sul monte Cedron scaturì una prodigiosa sorgente d'acqua salutare. Qualunque infermo quell'acqua bevesse con ferma fede, o ne lavasse le membra martirizzate veniva all'istante risanato. Ma a cagione che il proprietario del monte Cedron, un rinnegato della fede di Cristo, volle cingere con una impalancita il luogo di dove scaturiva l'acqua miracolata, e farne mercimonio, la fonte inaridì all'istante e le umide grotte da cui pollava si trasformarono in roventi pietre focaie.
O Lucca fra cento
Il più addottrinato in queste sacre istorie era il nano Pellegrino, nativo delle Macendore, certi luoghi anfrattuosi e sterposi situati tra la Freddana e il Montesacrato. Il nano Pellegrino era stato pellegrino di nome e di fatto. Con un rustico carretto a due ruote, a cui aveva sacrificato due cani, un molosso scarnato, chiamato Tago, e un mastino tutt'ossi e nervatura denominato Incitato, fido l'uno, l'altro orgoglioso, tutti e due ubbidienti e veloci ai comandi di Pellegrino, aveva girato la terra – come diceva lui – universa.
– Intendo consumare il rimanente della mia vita in pellegrinaggi di propiziazione, – cominciava serio e grave il nano Pellegrino; i fedeli lo ascoltavano tra spauriti e ammirati, – recandomi in forestiere contrade, in isconosciute provincie, cibandomi di radicchiella amara, e dissetandomi d'acqua piovana, varcherò monti e mari, mi disperderò nei deserti della Berberia, mosso soltanto dalla devozione, solo con i miei cani, – diceva il nano Pellegrino, ma pareva dicesse, per la artifiziata pronunzia delle parole: – Solo come un cane.
– Come, disabbandonate i cani? – dicevano stupefatti i pellegrini.
– Non bisogna mai abbandonare le bestie fedeli ed utili all'uomo, lo dicono anche le Sacre Scritture. Ricordatevelo, e ricordatevi inoltre che tutte queste privazioni le faccio per voi poveri peccatori. Per voi soltanto, chè io, con tutte le tribolazioni che sopporto, sconosciuto per ignoti lidi, vagamondo, – non vagabondo, intendete bene, – affaticato, stanco, smarrito, perseguitato dagli infedeli, mortificato dai duri di cuore, umiliato dai maliziosi, deriso dai rinnegati, credo di propiziarmi un benevolo perdono alle mie colpe, che sono tante e varie, e diverse. – Terminava così a capo chino, il sermone, Pellegrino.
I fedeli facevano abbondanti elemosine al nano Pellegrino, che era odiato da tutti gli altri accattarotti, i quali non avendo la sua parlantina, rimanevano in una eterna negligenza. Qualcuno di loro insinuò che Pellegrino non era il nome di battesimo del nano delle Macendore, e che egli si era messo da se stesso il nome del figlio di Romano Re della Scozia, il Santo cavalier di Cristo Pellegrino, per intenerire di più i poveri fedeli.
– Quando ti chiamasti da te medesimo Pellegrino, ti bagnasti il capo con il salnitro – insinuò un accattarotto, un giorno che il nano era attorniato da una folla di fedeli i quali buttavano nel piattello denari come rena.
– Vi voglio levare anche questa curiosità, maliziosi del mondo che altro non siete – disse il nano volgendo con bel garbo dalla sua i fedeli turbati. – Chi è di lor signori che sa leggere?
Un fedele altolocato rispose secco: – Io!
– Pregola di leggere questo foglio a voce chiara ed intelligibile, come si fa per i testamenti – e il nano porse al signore il suo atto di nascita tutto sacrificato di bolli a secco e a fuoco.
Il signore altolocato lesse con chiara ed intelligibile voce: – A dì quattro del mese di marzo del milleottocentoquaranta, alle ore due della notte, nacque nelle Macendore, da Leontina Pece «un maschile» a cui furono imposti i nomi...
– Fiato! – urlò il nano ergendosi sul torso potente.
– ...di Pellegrino, Timante, Matteo.
– Favorisca leggere anche il nome e il cognome del defunto mio padre.
Il signore altolocato lesse: – Venanzio Pellegrini...
Il nano, pieno di galloria, stava per investire l'accattarotto malfidato, ma questo prima di lui gridò: –– Bei mi' nomi sciupati!