Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

LO SCIABICOTTO CIECO

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LO SCIABICOTTO CIECO

 

 

 

 

 

Dal genere di pesca che il marinaro, dopo la travagliata vita dei viaggi, predilige, ai tardi, s'arguisce il carattere ch'egli ebbe nei giorni del valore. Il marinaro si tira alla pesca soltanto quando ha detto addio al mare aperto, e, a fine mese, riscuote gl'«Invalidi».

Quelli raccolti, pensosi, sospirosi armano canne, arnesano lenze, congegnano sottili trame di fil di Spagna con rametti di lami lucenti, e diventano come ciocchi di sorbo ridossati lungo il canale ad una colonnetta d'attracco. Come i ceppi degli alberi essi prendono pioggia e vento, sole ardente e nevischio senza allarme veruno. I misantropi di membratura tarchiata, s'armano di una fiocina ed ambulano sul pietrato delle Cateratte o del Renaio e con lo sguardo acuto trapassano l'acque per scorgere dove sguiscia il muggine e fulminarlo con un colpo diritto e sicuro. Gl'insubordinati, i refrattari tra le ciurme, sparano torpedine di contrabbando e di nottetempo. I fantasiosi, i cantori dell'ottava rima, dell'Aminta e d'Alceo, vanno sui cigli delle ombrose fosse che collegano le acque salate con quelle dolci e tirano il giacchio, lo ventilano nell'aria, lo fanno cadere a ombrello, sul gregge dei pesci che in quel momento tragitta dal mare salso alle lame dolciastre. Quelli che furono a bordo insidiosi attrezzano i tramagli, li tendono ed aspettano astuti che il pesce vi s'ingarbugli per poi salparli e incunearli nella corba. Quelli che furono anche naviganti d'acqua dolce si buttano al bosco, tagliano rami intricati d'abbracciaselve, li affasciano, li caricano sul barchetto e li vanno a gettare al largo dove i gamberi pigri vi si appollaiano e non si staccano nemmeno quando il marinaro riassomma la fascina.

I marinari, e sono più, che nei giorni grigi degl'«Invalidi» desiderano continuare, come solevano fare all'ombra delle vele di fortuna nelle dinervanti bonacce dell'Oceano, i dialoghi fantasiosi, s'attruppano, costituiscono una ciurma e si danno alla pesca a sciabica.

La ciurma della sciabica non ha limitazione di numero; quanti rematori possono entrare in una imbarcazione sconquassata, tanti sono gli sciabicotti, dieci, quindici, cento. La ciurrna, prima di prendere il largo, carica qualche chilometro di corda, l'accercina nella stiva sulla rete e il sacco capace a cui è già congegnato un rustico vezzo di sugheri infilzati nella corda.

Appena l'imbarcazione è sboccata dal fossocanale e palpita coi grandi palpiti del mare, il capo ciurma volge la barca a suo estro dove crede più conveniente per tutti di gettare la rete, poi ingassa le cime alle caviglie, l'ordine di gettare il ferro e la rete e di remare a gran forza verso la battima.

Gli sciabicotti, dalla spiaggia, non scorgono più, tanto è stata gettata lontana, la rete, il vezzo galleggiante dei sugheri che ne descrive l'arco sulle acque chiare. La ciurma si divide e s'aggrappa alle due funi di testa e all'ordine del capo comincia simultaneamente a salpare la rete. Su quella morbida coperta di rena tepida del prima sole, tirando, tirando e tirando, si riprendono i dialoghi interrotti sulle coperte dei bastimenti durante i lunghi viaggi di fortuna. Intanto il sacco si approssima alla battima; se è colmo di pesce, alla sua altezza, v'è un sobbollimento d'acque, un bulicame di schiume candide, dei palpiti di vivido argento che dan lena e forza e ardimento alla ciurma estenuata; ma se all'altezza del sacco le acque sono pacifiche, oleastre, senza spicco di bollori, segno manifesto di fatica vana, la ciurma s'ammutolisce, s'attrista, e s'accascia sulla sabbia, delusa.

 

 

Tanti anni fa uno di questi sciabicotti era cieco, di corporatura salcigna, sodo e fulvo come un ancorotto roso dalla ruggine. Sagginato di pelame com'era, sulla carnagione cerea aveva quella specie di cruschello che sogliono avere gli uomini di quel pelo. Egli non vedeva affatto, ma gli occhi aveva intatti, bianchi smaltati e d'onice lucente, come sogliono vedersi sui freddi visi delle statue di Barberia. Il cieco fissava di continuo il mare e pareva lo scorgesse nella lontananza che aveva un tremito sui denti.

Gli altri sciabicotti parlottavano tra loro fantasticando di pesche miracolose: il cieco taceva sempre e oltre non vedere pareva nemmeno non udire.

Quando la barca era riportata all'ancoraggio nei cantacci della darsena vecchia, il cieco, come se vedesse, scendeva sicuro sulla calata e, senza la guida di nessuno, agevolato dal picchiottare di un bastone, si disperdeva nei labirinti portuari tra i baraccamenti dei guardiani.

Un giorno il cieco si dev'essere sdegnato della ciurma degli sciabicotti ciarlieri, chè non lo si vide più prendere il suo solito posto nella vecchia imbarcazione.

Dopo del tempo, lo si rivide sul pietrato del molo attaccato all'alzaia di un gozzo da nicchi, al cui timone era seduto un vecchio anchilosato. Il cieco aveva il cappio della fune avviticchiato al petto, e aggrevendosi sulla fune, con tutta la sua forza, il tagliamare del gozzo recideva le acque come un aratro la terra. I trabocchetti, degli scali, che sono sul pietrato del molo, entro cui il cieco avrebbe potuto macinare le sue ossa, non lo conturbavano, e nemmeno i lavatoi profondi; il cieco camminava sull'orlo di questi pericoli come un sonnambulo. Il cieco, invece che il pietrato, fissava il cielo.

Quando il gozzo da ponente doveva passare a levante per imboccare il canaletto che conduceva alle darsene, egli s'aggranfiava alle sartie del gozzo come un uccello di rapina, saltava sulla murata, e con impeto e slancio spingeva il gozzo a levante. Quando udiva l'attrito del fasciame con la calata, il cieco, con un salto da felino, ritornava sul pietrato, si ricongegnava l'alzata e portava il naviglio all'ancoraggio dei cantacci.

Nei giorni di tempesta il cieco andava nel bosco, e quando non udiva più il picchiottìo dei mazzuoli, segno che i cantieri erano lontani, si sedeva all'ombra di un intrico di lauri, di ginepri e di pinastri marini, per ascoltare in pace i possenti muggiti del mare.

Quando passava il cieco di sull'intrico selvatico, i boscaioli trattenevano il respiro, egli nel labirinto boschereccio talvolta si fermava e alzava il capo al cielo, quasi a chiedere lassù, soltanto lassù, una direzione al suo viaggio.

Nessuno poteva aiutarlo a districarsi dalla boscaglia a salvarsi dal precipizio degli scali, e dal terrore dei fondali paurosi. Egli era impassibile e freddo come una statua; ma v'era chi asseriva di averlo visto, talvolta, nel fondo della boscaglia piangere lacrime bollenti come lava.

Un albore di teschio trapelava dalle cartilagini del naso profilato e cereo: allora il respiro sobbolliva appena la bocca esangue, e i tremiti delle mandibole pareva tessessero il tedio e l'affanno che gli languivano nel cuore.

Dopo quel pianto egli si alzava guardingo, ma non prudente, come uno spettro che avesse interna veggenza schivava i tronchi degli alberi centenari, i bugnoni delle spine che potevano recidergli la carne, i fossati, le lame e riappariva come trasumanato nelle darsene; si sedeva fuori al suo baraccamento e con più pacatezza riascoltava l'eterno battito del mare.

Una notte che il ponte levatoio era rimasto, per negligenza, aperto, il cieco dalla impalancita da cui ci si saliva, cadde nel canale; precipitando d'impeto coi piedi andò a toccare il fondo, e ritornò a galla col capo inverdito da limo: pratico com'era si aggranfiò ad un palone aspettando di orientarsi verso la calata. Il tonfo destò un guardiano che corse verso il luogo da cui era venuto il rumore e si gettò nell'acqua per dare soccorso, ma quando il cieco udì remigar di braccia verso di lui, urlò risoluto: – Stai a te. Chi ti ha chiamato?

– Ma voi non siete il cieco di...

Ma il salvatore non potè terminare la parola che il cieco l'interruppe:

– Se tu cascassi di tant'alto per quanto io vedo, ti fiaccheresti tutte l'ossa.

 

 

Lo sciabicotto cieco nei giorni di Sacre che si celebravano sui monti vicini lo si scorgeva tra la folla dei pellegrini, spettrale quasi. Egli andava risoluto come vedesse, la sensibilità esasperata dal continuo fissare il breve ambito del teschio gli segnalava anche i crocchi delle persone che lo fissavano stupite; e gli occhi di lui impietrati s'aggrottavano sotto le ciglia nere.

Quando egli aveva raggiunto i piazzali delle chiese, sui cui pietrati sogliono dolersi gl'infermi accattoni, rasente il parapetto andava sui porticati e pareva mirare il mare, lontano lontano.

Una volta di udì un cieco randagio che dolendosi sermonava: – O cristiani, persa la vista persa la vita!

Lo sciabicotto, a quel piatire, si pose in ascolto attentamente e, determinato che ebbe la direzione dell'infelice che così si duoleva gli si avvicinò, aspettò che di bel nuovo egli urlasse: – Persa la vista persa la vita – e gli urlò: – Non è vero!







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