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Da giovinotti, le visite agli infermi le facevamo all'or di notte, dopo il Credo. A quei tempi, si era gravemente infermato il gobbo accattone Alberto Nicoletti, che i malevoli avevano soprannominato Carnot. Egli era il secondo dei quattro figli di un uomo ammalazzato: il maggiore, magro come un paravento, con dei baffi di saggina, il terzo, aggrottato e di pelame biondo sopra una pelle cotennosa, l'ultimo, nato sordomuto, il quale guattiva come un cane, ciancicandosi la lingua e stralunando gli occhi ottusi. Di Carnot si scorgevano soltanto gli stangoni delle gambe e il viso incagnito, con due occhi ceruli e i capelli rossi fiammati, visto davanti; visto di dietro, si scorgeva soltanto la gobba, piantata su due stanghe.
Tutta la famiglia albergava in un casone enorme, dove si erano rifugiati gli accattoni del paese e dove trovava ricetto la mitraglia della strada, zingari e viandanti. Si accedeva ai piani buoni del casone per una scala ampia, ma terremotata, fiancheggiata da una balaustra bella, ma sdentata, porte e finestre scardinate da anni e bruciate. Il piano nobile, capace salone, con larghe stanze laterali e un'alcova ridotta tana di gatti, era abitato dai più prepotenti, alcoolizzati confinanti con la demenza, e le loro famiglie; quelli di mezza tacca abitavano il piano di mezzo e i mortificati le soffitte, col tetto sul capo.
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Ai piani di sotto, – larghi voltoni spaziosi, dove un dì c'era, con lo sfondo di lecci e lauri, un teatrino granducale, – ci facevano le marionette in quei teatrini portatili: un telaietto di un metro quadrato, foderato di aleppo rosso. Le marionette erano meccanicate da un'intera famiglia data in etisia, e quel male lo attaccavano, nella voce, anche ai personaggi. Biglietto d'ingresso: «Cenci o ossi». La moglie del capocomico stava sull'uscio con una balla, dove metteva i biglietti. «Questa sera Genoveffa, storia degli antichi tempi».
Carnot era allettato (ammattonato potrebbe dirsi chè era lungo disteso sui mattoni) col tetto a due braccia dal capo, con un sacco di paglia sotto la gobba, e un altro sotto la testa, e coperto di un vecchio cappotto d'artiglieria, celeste, con la mantellina.
Noi si guardava l'infermo come se fosse stato in un pozzo e lui ci fissava di sotto in su, supplichevole: «Ditemi la verità; sarò tubercoloso?». Noi sembravamo tanti medici che facessero consulto. Uno di noi gli disse: «Tu campi trecent'anni, e poi muori, quando ti pare a te». «Se muoio io, lo sapete, è lo stesso che muoia una bodda (un che di simile di rospo), ma non vorrei dar soddisfazione al dottore». «Perchè?». «Stamani il vile ha detto che sono tubercoloso». «Sei un acciarino». «Speriamo. Mi dispiacerebbe morire a credenza». «Mangia questo; ti rimette in sella» e uno di noi gli porgeva un castagnaccio di farina dolce, con la ricotta.
In corte rappresentavano Genoveffa e la voce delle marionette arrivava fino alle soffitte:
Che dell'oscuro bosco entro all'orrore,
forse dei lupi sazierà le brame,
o qual languente ed assetato fiore,
col figlioletto morirà di fame.
Nelle «Tragedie» le ore vanno in fretta; a un tratto il marionettista urlò con tutta la sua voce: «Genoveffa, è mezzanotte in punto». Carnot, che fin allora divorava allupato il castagnaccio, udì del dramma solo il grido e: «Come, è già mezzanotte?». «Macchè, sarà le nove appena». «Come farò a passar la nottata?». Gli altri della famiglia erano coperti con dei teli neri. «Coraggio». «Sì».
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L'autunno del 1820 il casone era sfolgorante. Palazzo Santini, via Pinciana, Viareggio: ivi dimorava il vecchio arcivescovo di Lucca, Sardi, recatosi a Viareggio per il suo ufficio. Egli aveva per la musica un gusto fine e delicato e da giovane aveva suonato il violino. L'aveva una volta suonato anche da vecchio per compiacere al desiderio della principessa Baciocchi.
In quei giorni doveva approdare nel canale di Viareggio la nave che conduceva dalla Sardegna la Principessa Maria Teresa Fernanda Pia Felicita, accompagnata dal padre Vittorio Emanuele I, Re di Sardegna, per celebrare le nozze con l'Infante Carlo Lodovico, figlio di Maria Luisa. Le vele delle navi sarde furono lontanamente in vista di Viareggio sull'imbrunire del 2 settembre; ma Vittorio Emanuele, per l'ora tarda e il tempo cattivo, fe' ripiegare il timone verso la costa, retrocedendo e gittando l'ancora a Porto Venere.
Tutta la Signoria di Lucca si era traslocata a Viareggio. La vecchia Viareggio, – ora stallaggi vi sono, e casupole di pescatori e rimesse, – era come il piccolo Faubourg Saint-Germain, il quartiere nobile della città. Palazzo Santini, dove aveva preso stanza l'arcivescovo, era il ritrovo serale di tutta la nobiltà dei Principi e dei Sovrani.
Anche i cantanti del Teatro del Giglio di Lucca, tra i quali una celebrità di quel tempo, il tenore Bonaldi, si erano traslocati a Viareggio e la sera si organizzavano concerti nel salone del palazzo Santini; quel medesimo dove, per molti anni, la demenza avvinghiò i suoi urli al miagolio dei gatti scarniti. E la Duchessa Maria Luisa saliva, sfolgorante, lo scalone lucente dalle balaustrate come l'avorio, e tutti si inchinavano e la riverivano, e i nobili, tutti bianchi e neri, venivano al seguito, con le dame superbe.
In quel salone, – dove più tardi il «Biaccaccio», uno che in Barcellona gli avevano staccato un orecchio con un morso e levato un occhio con una ditata, equilibrandogli così il testone di macigno, aveva svituperato e maledetto, – in quelle memorabili sere, il tenore Bonaldi fu peritante a pronunziar la parola: amore.
«Perchè non cantate?» chiese premuroso l'arcivescovo al tenore. «Mah.... Eccellenza, c'è una certa parola!». «Che parola c'è?». «C'è l'amore». «Eh, via! cantatela pure; l'amore non è mica un'eresia», disse l'arcivescovo. E la romanza fu cantata.
Il maltempo continuando a far guasto sul litorale, le navi del Re di Sardegna erano costrette all'ancoraggio di Porto Venere. Narrano le storie che la Duchessa Maria Luisa, stanca di aspettare, spedisse per le poste un corriere di gabinetto al Re sardo per dirgli che qualora, la mattina del 4, il mare non si fosse calmato, la facesse finita con quella penosa navigazione e venisse a Viareggio per la via di terra.
Si attese invano che facesse senno il mare: questo elemento minaccioso e perverso che non conosce riguardi e cortesie, da Serse in poi, a nessuno. E finalmente anche il Re, annoiato per il lungo indugio, spedì lettera alla Duchessa per dirle che il giorno 5, alle 3 pomeridiane, sarebbe giunto a Viareggio.
Quando il cannone del Forte annunziò che le carrozze reali, giunte a Montramito, avevano voltato per la Via Regia, l'entusiasmo dei viareggini non ebbe più limiti. Il popolo corse, staccò i cavalli dalle carrozze; e se l'impeto tumultuoso di gioia non fosse stato moderato dalla cavalleria, quelle dimostrazioni, – dice uno storico di quella giornata, – potevano essere simiglianti a quelle di un cagnaccio che, per far festa al padrone, lo butta per terra e lo pesta.
Ma, come Dio volle, la bella Maria Teresa potè giungere in trionfo al padiglione reale e porsi in ginocchio davanti alla suocera.
La Reggia era l'attuale Palazzo Comunale, sul quale dell'antico splendore è rimasto soltanto il superbo colonnato sulla Via Regia: antichi restauratori l'hanno adeguato a modesta sede di uffici; si potrebbe, con un po' di buona volontà, ridargli l'antico lustro?
Magnifica visuale doveva dominarsi, il 1820, dalla balconata reale, la pineta a un tiro di schioppo (oggi ce ne sono anche dieci), tutta la Via Regia ombrata da platani secolari (abbattuti una ventina d'anni fa per dar aria a delle casupole lungo il canale) e le vele delle paranze allineate nelle darsene.
Quel giorno, fuori al palazzo reale era schierata la compagnia dei granatieri, tutti giovanotti in ottimo arnese, in uniformi nuove, impettiti e lucenti. Li comandava il capitano Fabio Gabrelli. Re Vittorio li notò con un senso di compiacenza, volle vederli da vicino, andò davanti all'ufficiale e domandò a bruciapelo: «Che reggimento è?». Il capitano non si perse d'animo: «Maestà: primo reggimento, primo battaglione, prima compagnia!». C'erano quelli soli. «Bene, bene!» replicò il Re, «bel reggimento, bei soldati; cerea, capitano!» e rimontò le scale.
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Il palazzo Santini, che in quel tempo ospitò l'arcivescovo Sardi e la Signoria di Lucca, con la Duchessa e i Principi, per molti anni ha mostrato alla notte fonda i denti cariati della sua balaustrata in rovina, e il portone ad arco sotto il verone ha inghiottito tanta poveraglia, sbandata dalle tribolazioni e dai tormenti. Ora ivi si aggira l'ombra implacabile del gobbo Carnot che strutto dalla tubercolosi, non poté prendere la rivincita sul dottore che lo aveva condannato.
Salutandolo per l'ultima volta, gli amici gli dissero, uno dopo l'altro:
«Addio, Quasimodo! – Addio, Aristarco. – Salute, Giacomo Leopardi!».
Alberto Nicoletti, che era analfabeta, ma vivo d'intelligenza, chiese agli amici:
«Dite la verità, son tutti gobbi!».