Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

IL REFETTORIO DELLA CARITÀ

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IL REFETTORIO DELLA CARITÀ

 

 

 

 

 

Chi vuol far Pasqua deve, prima di tutto, far la settimana santa e la quaresima: digiuni e penitenze. Dice un antichissimo proverbio che i poveri hanno la Pasqua più vicina dei ricchi, perchè, per loro, è sempre quaresima. Oggi, al refettorio ammannito dalla carità si approssimano tutti quegli accattarotti che negli altri giorni stazionano sotto il porticato dei frati di San Gerbone, a ridosso del monte di Quiesa, che si dolgono fuori al portone dei «frati» verso Campo Maggiore, che salgono fino a «Colle Viti», nel Pesciatino, o scendono verso il mare dai frati francescani di Viareggio.

L'accattarotto non è il povero vergognoso, – povero vergognoso non porta tasca piena a casa – è lo spaesato che cala dai monti, risale dal mare e trova casa da per tutto, perchè la sua casa è il ciglio e il fienile, quello che tacita la fame dormendo sui gradini delle chiese, che schiva con ogni astuzia tutte le minacce di pena che intenderebbero respingerlo al proprio paese.

L'accattarotto sa a memoria ciò che gli spetta quando sconta la sua petulanza in «San Giorgio», o nella prigione mandamentale; conosce i codici a menadito e i sermoni del cappellano: «Povertà non fa vergogna; è il vizio che fa vergogna e paura».

Alla povertà poco manca. La povertà e piacevole. Chi vive in povertà deve contentarsi delle briciole come Lazzaro.

Oggi è giorno di perdono, e per assidersi sul pancone del Refettorio non è prescritto mostrare le carte in regola. Come nel paradiso il primo posto è dei poveri vergognosi, in questi pranzi pasquali il primo posto è degli accattarotti, i quali, rassodati dalle marce forzate, si fan largo a gomitate e a spinte e hanno subito ragione sui più timidi e deboli.

L'accattarotto in questi giorni sta, come suol dirsi, sulle sue; appicciato che abbia, questuando, cinque o sei soldi sufficienti a soddisfare il barbitonsore rurale, egli si fa mondare e zucconare e profumare con l'essenza e intorchiare anche i baffi serotini come i granturcoli.

Così mondato, anche i panni, rappezzati come quelli di Brandaro, sembrano più buoni; egli trova sempre un aggeggio di stoffa da annodarsi al collo taurino, rossa o celeste, e poi eccolo baldanzoso e fiero verso il Refettorio, con uno stomaco capace a contenere un capretto arrosto.

Il povero vergognoso s'approssima al desco pasquale timoroso, dopo aver ascoltato la messa, con una stanchezza mortale addosso che sembra gli abbia spezzato tutte l'ossa.

L'accattarotto, impancato ormai, appena si vede accanto il meschino, gli dice familiarmente: «Prosit». L'altro abbassa gli occhi e tace.

L'accattarotto, dopo pochi minuti, sa «cosa passa il convento», e commenta con un certo sussiego esperiente la lista. Al brodo di pollo, – che abbraccia lo stomaco del povero vergognoso, – egli dello «sciacquarone», o acqua bollita; alla fetta d'arrosto, steccata d'aglio e rosmarino, – che satolla il vergognoso, – dice «stiracchio» o suola da scarpe; le patate passate al colino e imburrate, che stuccano come calce viva gli strati del pasto, egli non le assaggia, le degna, chè per lui sono come un impiastro, o pasta da manifesti; il vino non lo trova degno della solennità.

, accanto ai due poli della povertà, c'è l'intermedio, quello che si tiene ancora su, con una giubbettina dal bavero tifoide, con un colletto piombaggine, su cui ha passato, nascosto dietro le «Mura», una mollica di pane accazzottata, con un cravattino strinto come un cordino, e un paio di scarpe le cui suole han piallato le scale della «Pretura», ove egli va a consumare il suo tempo. L'intermedio è uno di quei vecchietti che fin che non sono stati repellenti han fatto i «giovani di studio» da qualche notaro, e che nelle aule dell'Assise pronosticano, ora, gli anni che saranno affibbiati al prevenuto. Egli mangia di pro, e s'inzavorra per tre giorni.

Poi ci sono gli abbietti, quelli che non hanno più viso da mostrare, i più infelici della terra, storpi, ciechi, monchi mendichi, quelli che, come nel fresco dell'Orgagna, invocano a mani giunte e con lai sempre la Morte con quei versi che il pittore ha fatti inscrivere sopra di loro:

 

Da che prosperitade ci ha lasciati;

o Morte, medicina d'ogni pena,

deh, vieni a darne ormai l'ultima cena.

 

Oggi i meschini interdicono l'invocazione che tutti i giorni ripetono dopo aver bussato agli usci.

Volti terragni e di cera, occhi rammendati e strabuzzati, bocche armate di denti solidi, atti a tritolare la ghiaia, e bocche scalciate di tutti i denti, che digrumano con le gengive rincallite e rifrangono il pasto come i bovi e le pecore, si alternano a queste mense della carità.

 

 

Quando questo affresco dell'Orgagna, al tocco di un campano, si è animato, alzato, decomposto, e ognuno è uscito verso il proprio destino, tutta la città era deserta, tutte le porte stangate, anche quelle dei caffè e degli uffici.

Accosciati sui gradini delle chiese, fuori porta, ci sono i refrattari, quelli che nei giorni delle solennità desiderano la solitudine e disdegnano le comitive: i poveri orgogliosi come Lucifero, dalla camicia di fuoco, che odiano la povertà vergognosa o astuta, che invocano la morte con alterigia. Il cane loro s'è accucciato e guarda melenso il padrone ammusato: prima virtù l'orgoglio! Innanzi di cedere, la morte.

L'orgoglio non lascia l'uomo finchè non sia prostrato in terra.

Essi aspettano che la gente ripopoli la città per mischiarsi tra la folla dei felici.

Una Pasqua di molti anni fa, uno di questi mostri d'orgoglio fu invitato in una casa al pranzo pasquale. Quando ricevette l'invito, il refrattario era seduto sopra una colonnetta del porto e guardava i fondali con la perplessità di colui che ha sepolto nel capo un sì e un no.

– Vieni a far Pasqua con me?

– Sì.

Il refrattario aveva su tutto il viso una barba spinosa e i capelli lunghi e accordellati come Linchetto, – il mostro che intreccia le criniere dei cavalli, – e gli occhi piombati dalla perplessità.

– A mezzogiorno t'aspetto.

– Sì.

Il refrattario si fe' smacchinare il capo, radere la barba, intorchiare i baffi con la ceretta, profumare con la essenza di bergamotto, col fondo di una scatola si fece un colletto che pareva di marmo, s'aggeggiò al collo un cravattino, si spulizzì le vestimenta, s'ingrassò le scarpe con la sugna, si fece un bastoncino con un giunco.

A mezzogiorno in punto entrò nella casa dove era stato convitato, ma nessuno lo riconobbe.

Cercate?

– Niente!

Lo riconobbero alla voce e lo degnarono al pranzo pasquale.

Durante il pasto qualcuno accennò al pranzo che nel paese si dava ai poveri; gli occhi del refrattario, offuscati dall'età e dalla debolezza, lampeggiarono diabolici, la bocca ripercosse i denti presi da un convulso, gli occhi gli diventarono grifagni, le mani gli si uncinarono, alzò le braccia, che, agitando la cenciaia nera, parvero ali di pipistrello.

Gli dettero dell'aria e rinvenne

 

 

Tali uomini non s'impancano al tavolo del Refettorio gratuito.

E vi sono assenti quelli della povertà angelica: la povertà che si contenta di poco, che digiuna trecentosessantacinque giorni all'anno, quella che fa invecchiare innanzi tempo, che diventa col tempo madre di virtù.

Quella povertà che nei giorni solenni chiude la porta, socchiude le imposte delle finestre, girottola nella casa semibuia, dove, a volte, la carità penetra per il buco della chiave non veduta.

 

 

Ora è il pomeriggio di Pasqua: le nuvole portate dal vento spalancano le vie all'azzurro del cielo, un lungo suono steso di campane è nell'aria, le rondini volano alte, gli alberi dei giardini inverditi dall'uragano passato macchiano di grandi isole il cielo lattato.

In ogni luogo s'ode la Radio che porta un tripudio universale, voci di maghi con lingue diverse, organi, vespri, concerti, sermoni.

Gli accattarotti, sulle vie maestre, arrancano verso il convento di San Gerbone, che stasera c'è la zuppa di magro.

Il povero e il mezzo povero si lagnano per le vie; in questi giorni la gente ha il cuore più tenero e le guardie, – proibito l'accattonaggio, – chiudono un occhio.

Il «giovane di studio» smaltisce il pasto sulla passeggiata, dove si pavoneggia inebriato con uno stuzzicadenti piantato nel fiocco del cappello.

La povertà angelica spalanca le finestre agli effluvi della primavera che ritorna dal mare tra un aliar di farfalle coronata di primule e di grilli.

I refrattari battono il tacco spietato, il temporale pare abbia lasciato nei loro occhi uno strappo di nuvole nere.

– Il Signore è risorto! Di' non sorridi ancora, –  par gridargli dall'ombra una voce materna.







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