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Di solito i testamenti si fanno a mente fredda e pacata. Mettendo, come soglion dire i saggi di queste campagne, il nero sul bianco, bisogna andar guardinghi.
Narrano le storie di un tale che soffriva di gotta, non di quella che i medici dicono serena, ma di quella torbida, che si attacca alle punte dei piedi come la stoppa alle zampe dei pulcini, e che, dopo aver lavorato a comodo suo ed aver occupato tutti i piani del corpo umano, arriva al petto e ci s'allarga a suo agio. Costui veniva sollecitato dai suoi parenti a fare testamento.
– Ma sicchè voialtri credete ch'io sia prossimo a cibarmi del pan bianco, cioè dell'Ostia consacrata?
– Vedi, zio, cotesto tuo non è un male che prete canti; se n'è visti di peggio cento volte, cavarsela, non di meno, con poco e in breve tempo; ma io, fossi in te, metterei il nero sul bianco.
Le gambe dell'infermo intirizzite immobili erano come quelle del Biancone (lo statuone scolpito dall'Ammannati, che è sulla piazza della Signoria in Firenze); bianca era la carta protocollo già ammannita dal parentado sul comodino. Con tutti questi toni bianchi, anche la gotta, da perfidiosa che era, pareva diventasse serena. Di nero c'erano l'inchiostro e l'umore dell'infermo, quando sentiva le sollecitazioni a fare il suo bravo testamento.
– Ma non lo sapete che lo zio è un gran bel tipo, – diceva il nepote dell'infermo che si era preso l'ardire di parlare allo zio dell'argomento delicato. – È un gran bel tipo, – ripeteva in coro tutto il parentado deluso.
Gli amiconi dell'infermo, i quali sentivano tutti delle morsicature di cane ai nodelli e alle anche, visitandolo, si sforzano di consolarlo con proposte e suggerimenti. Chi ne diceva una, chi ne diceva un'altra; e l'infermo si sollevava, perchè nessuno di loro parlava di mettere il nero sul bianco. Chi lo faceva sperare nelle bistecche, nel vino vecchio, nelle erbe, nella stagione buona; chi nei cataplasmi, chi nelle mignatte, chi in unguenti e frizioni di mille generi.
Quando uscivano gli amiconi, l'infermo, invece che biasciarci una gotta torbida, pareva che fosse soltanto tormenticchiato da una gotta serena.
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Il nepote che si era preso l'ardire di parlare allo zio del testamento si recava spesso da lui, per divagarlo con la lettura di libri ameni. Per raggiungere il suo scopo, portò un giorno seco le lettere del Giusti e lesse allo zio la lettera scritta dal poeta di Val di Nievole ad Andrea Francioni, dove gli descrive, per filo e per segno, il carattere dei contadini lucchesi e dei valligiani del Serchio. Un vetturale, essendosi fermato ad uno stallaggio sulla via e visto il tempo un po' rotto, si risolse di riprendere il cammino. Tirò fuori il barroccio, menò fuori il cavallo; sul punto d'attaccare eccoti una piena che, crescendo mezzo braccio ogni ondata, non lasciava luogo a fuggire. Prima gli fu portato via di mano il cavallo, poi subito travolto il barroccio dalla corrente. Egli si salvò a fatica sopra uno degli altogatti (chiamano così i valligiani del Serchio il pioppo d'Italia) di sulla strada. Vedeva il fiume rovesciare, ad uno ad uno, gli alberi della fila, ed egli aspettava la morte, guardando al fondo del tronco, già lambito dalla corrente. Intanto un prete, da un'altura vicina, l'esortava a morire santamente; e il pover'uomo riceveva l'assoluzione in articulo mortis e, gridando, faceva testamento: – Sono del tal luogo, avanzo venti scudi dal tale, ne ho in tasca altri quattro; lascio tutto il mio... (I debiti, o non li aveva, o in quel frangente se li scordava).
– Ho capito l'arcano della tua lettura; ma, per metterti l'animo in pace, rècati nella mia biblioteca e porta giù una busta gialla ceralaccata, che è sul tavolo di consultazione – disse serio l'infermo.
Il nepote corse trafelato nella biblioteca dello zio, di cui aveva inteso tante volte parlare, e la busta gialla, fiammata dai sigilli della ceralacca, spiccava sul nero tavolo delle consultazioni. Mai il nepote aveva invidiato l'occhio alla lince come quando s'affissò sul bustone giallo.
Uno sportello della famosa biblioteca, mal chiuso, s'aprì come per miracolo: – Sarà una indiscrezione, ma gua'! Iddio mi perdoni – disse il nepote, e agguantò subito il primo volume di un'opera, che contava un cento e più volumi di miscellanee rarissime. Dalla furia il volume gli cadde in terra e andò in due pezzi; era un mattone camuffato a libro. A un breve esame la biblioteca risultò composta di parecchie migliaia di mattoni, o mezzi, o interi, e di tavolette di legno messe per costa con carta di colore impastata sopra. Smiracolato, il nepote andò dallo zio e gli consegnò il bustone.
– Qui c'è il mio testamento; vivete tranquilli or dunque!
– Sì.
– A te, per le fatiche che hai durato nelle diuturne lunghe letture (ma questo lo dico proprio perchè sei amante dello studio) ho lasciato la biblioteca. Se vuoi, là dentro ti farai un uomo.
Lo scaltrito nepote disse contrito: – Grazie di cuore del pensiero, mio caro zio, grazie per la varietà della raccolta; sono sicuro che là dentro non vi sarà nessun mattone.
– Libri pesanti di dottrine sì. Ecco perchè io ho avuto sempre una grande avversione a presentare i miei volumi alla gente volubile. Teste ferrate ci vogliono, per ponderare sulla mia raccolta. Immaginati, ci sono dei tomi che, ti cascassero a coltello su di un piede, sarebbero capaci di schiacciartelo.
– Ma non lo sapete che il nostro zio è un bel tipo, – disse il nepote a tutto il parentado, che lo aspettava nei pressi della casa. Ha già fatto il suo bravo testamento!
– Tu l'hai visto?
– Adagio, ho visto un gran bustone giallo ceralaccato; è lui che ha detto: – Qui c'è il mio testamento; vivete tranquilli or dunque.
– Ma non hai trapelato niente?
– Nulla.
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– Ma non lo sapete che il nostro parente, infermato dalla gotta, è un gran bel tipo, –– dissero tutti i parenti alle rispettive famiglie, rientrando la sera alle loro case. – Ha fatto il suo bravo testamento e non lo confessava a nessuno. Oggi, con uno strattagemma, gli è stato levato il segreto di bocca.
– Ma si sa qualche cosa?
– No; per ora si sa che il nero è stato messo sul bianco.
Tutti i parenti, che avevano i figli agli studi, pensavano ai marenghi stivati nei coppi; ma dissero: – Farei tanto caso della biblioteca non per me; ma per il mio ragazzo. Pensare che non si è mai potuto avere da lui un libro in prestito. Se fosse stato ammogliato, non sarebbe stato geloso così nemmeno della moglie.
Il nepote, che aveva avuto la confidenza segreta che la biblioteca era sua, dovette imbrigliare suo padre, che voleva il domani recarsi dal parente, per pregarlo di lasciare a suo figlio soltanto la biblioteca.
– I quattrini vanno e vengono; ma lì si picchia sodo.
– Aspettate, – disse risoluto il figlio al padre. – L'uomo propone e solo Dio dispone.
Un giorno gli amici confortatori si portarono al capezzale dell'infermo e lo trovarono in uno stato da far compassione a un santo. La gotta, torbida come un fiume in piena, aveva occupato tutti i piani e si era allargata, e sdraiata quasi, nel petto opprimendo il cuore. Non ostante ciò gli amici tentarono di confortarlo: – Coraggio or dunque. L'ultima a perdersi è la speranza, e finchè c'è fiato c'è speranza!
– Grazie amici, mi sono ricordato di voi nelle mie orazioni.
– Ora pensa a svantaggiare il male.
Una notte l'infermo con un Credo passò a miglior vita. Il dimani il parentado, tutto nero, – tutto vestito di nero, – contrastava col candore delle coltri e i ceri accesi che lacrimavano goccioloni di spermaceto, come il pino tagliato cola la ragia. Anche il parentado lacrimava come i ceri. Dopo i funerali i parenti si adunarono intorno a un tavolone su cui era centrato il bustone giallo, che lacerato diventò come una fiamma. L'infermo, leggi leggi, aveva lasciato eredi universali i suoi amici confortatori.
– Noi non ci ha voluto degnare nemmeno di un ricordo, – disse un parente contrito.
Delusi come i parenti del famoso Abate Giulio di Octave Mirbeau, anche quelli del povero gottoso dissero in coro: – Ma non lo sapete che il nostro parente era un gran bel tipo?
Quello che aveva la confessione della biblioteca soggiunse: – Sì, un gran bel tipo, salvando l'anima, di funambolo.