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Una venticinquina di anni fa ho studiato psicologia sulle storiche spallette del Ponte di Pisa. Le lezioni le impartiva Ruffo Moggia, laureatosi, diceva lui, alla Sapienza della vita, – i pisani chiamano sapienza l'Università, – lezioni sperimentali, fatte d'acute osservazioni: penetranti e taglienti, direttamente dal vero. Sulle spallette medesime, levigate da un secolare sfregamento d'indumenti, avevano stazionato, ai tempi dei tempi, il Giusti e il Leopardi, il Carmignani e il Carrara, e seguiteranno a stazionarvi tutti gli studenti, che sono e che saranno, a cui piace alternare la severità della cattedra con la meravigliosa curva dell'Arno soleggiato che dal Ponte di Mezzo s'incurva fino alle Cascine reali.
Dirimpetto a noi c'era la statua di Garibaldi con i bassorilievi raffiguranti l'Eroe quando, per il corso dell'Arno, dal mare raggiunse Pisa per rimettersi, nel clima tepente, delle ferite d'Aspromonte. A destra lo storico caffè dell'Ussero – ora in parte trasformato in cinematografo – a sinistra un libraio antiquario e moderno di Montereggio d'Apua: molti libri di psicologia sono stati stivati negli scaffali trivellati dalle tarme e sotto un velo di ragnatele.
Ad un amico, studente anch'egli di psicologia sperimentale sulle spallette dell'Arno, il quale aveva permutato i libri di testo con carta monetata, senza avere prudentemente scancellato dal frontespizio il proprio nome, accadde che durante le agognate vacanze si vide recapitare un ben confezionato pacco di libri; egli lo aprì e con gran meraviglia, e sua maggior vergogna, rivide i libri commerciati con su scritto nervosamente: «Di questi libri, rinvenuti tra le anticaglie di un rigattiere, te ne fa omaggio tuo padre».
Durante le vacanze estive le lezioni di psicologia sperimentale continuavano sul pietrato del molo di Viareggio: la famosa Università degli apuani, di cui era magnifico rettore il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Allo sperone del sole d'agosto, su quelle pietre infuocate della Gonfolina, resistevano soltanto i peripatetici psicologi, i pescatori di traina e i «consumatori d'ossigeno»: chiamavano così nel paese una congrega di signori ben portanti, in su con l'età, puliti e garbati, sempre insieme e d'accordo come i maiali di macchia, i quali, per la corporatura ragguardevole, sembravano tante antiche bombole d'ossigeno ripiene. I «consumatori d'ossigeno» si sedevano, uno tocca l'altro, sul muricciuolo della diga sotto il fanale rosso; il primo ossigeno, il più puro, il più fresco e compatto era di loro. Dal viso dei «consumatori d'ossigeno» si arguiva che la loro vita era trascorsa in archivi, anagrafe e tra inserti logori dal tempo, perchè la loro pelle aveva preso della pergamena.
Vicino ai «consumatori d'ossigeno», sempre misurati, sobri, con un tiraggio di fiato medesimo, c'erano gli sperperatori d'ossigeno, gli psicologi i quali nell'enfasi della discussione talvolta aprivano bocca e lasciavano parlare lo spirito. I pescatori di traina, con tutta l'anima agganciata all'amo aescato di baccalà molle, denominati per ispregio «governatori di pesci», stizziti dal cicaleggio psicologico proverbiavano, da vecchi marinari ridottisi in terra ferma: – Quel fiato asserbatevelo per quando sarete ridotti al pan bianco, che sarebbe l'ultimo viatico, – ma gli psicologi parlavano, parlavano, parlavano.
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In due sale distinte dello stabilimento, qui presso la Madonna del ponte, si raccolgono per aspirare acque spolverizzate entro una grotta tufosa ove si scorge ascendere vapore sì come avviene quando al fuoco ribolle una caldaia, i consumatori e gli sperperatori d'ossigeno. Nella sala ove si raccolgono i consumatori d'ossigeno è rigorosamente vietato di parlare; molto elegantemente è stato scritto sui vetri appannati: «Sala di lettura». In quella ove si raccolgono gli sperperatori d'ossigeno si può parlare, gorgheggiare. Con la consueta eleganza sulla porta di questa sala è stato scritto: «Sala di conversazione».
Sono entrato circospetto e devoto come in un convento di stretta clausura nella «Sala di lettura»; la grotta di sasso tufoso spolverizzando l'acqua naturalmente medicata fa il rumore medesimo che fa una segheria di marmi a filo elicoidale, i cui denti son fatti di rena di quarzo e vetrina. In quest'ora di cura – nella «Sala di lettura» ci si può attediare, annoiare, addormentare, ed è tollerato lo sbadiglio. – Ho fatto commercio con gli antichi studi di psicologia sperimentale: il prelato ravvolto in lungo camice nero, lustrente come verniciato di fresco, con un bel tono di lacca sotto il collare di celluloide, è stato certo un predicatore le cui corde vocali si sono discretamente logorate, lo attestano l'enorme cranio polito, cui sono vivi due occhi acuti e penetranti, e la vasta fronte corrugata sotto bocca sigillata che posa sulle mani bianche come lo spermaceto; egli vaga col pensiero lontano lontano, forse tra Giaffa e Gerusalemme nelle terre sante di Gesù e degli infedeli. Vicino a lui è seduto un signore obeso dal naso adunco giudaico, su cui egli ha appinzato le lenti sulle quali si liquefanno gli occhi; dall'inserto voluminoso, e dalle postille che egli vi fa con un lapis acuminato come uno stile, e dal volger violento e secco delle pagine, sì come suol fare chi spenna un pollo, non istento a individuare nell'ignoto signore un avvocato il quale sta riparando i guasti della voce per dar più forza agli argomenti della sua futura arringa. Presso l'uomo che arguisco principe del foro c'è una signora bella, tenera come un pastello del Settecento francese, che ogni tanto ella stessa ritocca e restaura specchiandosi, entro il rovescio di una borsetta di cuoio, le dita dalle unghie rosse ed acuminate – i polpastrelli delle dita le fanno da sfumino. – Le gatte quando si carezzano hanno la virtù di far sparire gli unghioli. Di poi ella sospira languida come Mimì e si slaccia – negli arti – sulla gran poltrona; le braccia ciondolano giù inerti e il capo scardinato par dica lentamente no; da un attimo all'altro sembra di dover udire nella sala di stretta clausura il canto lene: «Soli d'inverno è cosa da morire». Ma siamo d'estate e le finestre del salone claustrale sono chiuse come quando uno tenta di asfissiarsi; una illusione di fresco la danno le cime di certi pioppi mossi dal vento e il chioccolìo delle fonti rinforzato da quello del Reno. Vicino alla ipotetica «Mimì» c'è un signore severo dalle larghe mandibole, dal naso volto in giù come gli uccelli di rapina, dall'espressione fiscale, il mento rattorto giù nell'apertura di un gran colletto inamidato, – di quelli doppi andata e ritorno, – un cravattone vellutato su cui spicca un gocciolone di perla gelata; egli tiene i pugni chiusi color dell'anilina e guarda la gente seduta dirimpetto fissamente nel bianco degli occhi sì come soglion fare i pubblici ministeri quando si affissano sui rei scaltriti. Più giù un cappuccino dal saio marrone logoro e stinto, dalla lunga barba eremitica, crocifisso quasi su queste grandi poltrone che par dica agli astanti ammutoliti: «Povertà non fa vergogna, è il vizio che fa vergogna e paura». Una filata di pingui fattori della pingue terra dell'Emilia ansima, soffia risoffia, la cosiddetta fame d'ossigeno gli fa aprire la bocca come ai pesci quando son distesi sulla coperta di una paranza. Gente di varia dimensione, di diversa statura, ma di identica espressione consuma silenziosamente la sua parte di ossigeno solforoso. Sulla grotta tufosa, su di uno spruzzo pietrificato, c'è la statua di Mercurio, un Mercurio illustre, quello del Giambologna, che col piede alato par prenda largo nel cielo. E la statua medesima che, riprodotta in gesso, in marmo, in bronzo, si vede, elevata su delle colonne di statuario in mezzo ai mercati tra lo strepito delle fiere; qui il giovine efebo alato non vede che una lunga stenderia di gente sonnacchiosa dall'apparenza nottambula e sonnambula.
Mercurio sarebbe stato bene centrato nulla sala delle conversazioni. Lì avrebbe avuto la vaga idea di un mercato in cui talvolta non mancano le sonnambule che predicono il destino; invece al centro della sala di conversazione c'è un putto di marmo, ma roseo, sostenuto da quattro pesci che sono l'immagine del silenzio.
In questa sala, per scoprire l'anima della gente, non è mestieri ricorrere all'indagine psicologica; tutti l'hanno sulla bocca; quando la discussione è del tutto accesa per i contrasti e le rappresaglie sembra d'aver davanti il celebre quadro di Telemaco Signorini Le agitate, perchè la sala delle conversazioni è massimamente frequentata dalle signore le quali non vogliono consumare nemmeno quest'ora in silenzio come le sepolte vive. Verrebbe voglia di ripetere a loro il proverbio marinaresco: «Questo fiato asserbatevelo per quando sarete ridotte al pan bianco»: monito inutile. È nota la storia della donna che soleva stare, forbice forbice, a tu per tu, col marito, il quale un giorno, irato come un toro, la scaraventò nel pozzo, ma siccome l'acqua non riusciva a coprirle del tutto le braccia, protese in un estremo gesto vendicativo contro di lui, si vedevano le dita, l'indice e il medio d'ambo le mani, fare il gesto delle forbici quando tagliano, che, tradotto in volgare, vorrebbe significare: innanzi di cedere, piuttosto la morte.