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Oggi in Pietrasanta di Versilia, sotto la rossa torre di Donato Benti, c'è gran baldoria per la solennità di San Biagio, protettore della gola.
Non si creda che gl'impetuosi versiliesi invochino, oggi, una giornata di sole dichiarato. Per questa festa grande è preferito, invece, un tempo piovigginoso, perchè i balli all'aperto riescono più movimentati con schizzi d'acqua e di fango.
Dopo le funzioni solenni, il popolo si dà alla danza spiritata e ai peccati di gola: le tentazioni non mancano. Sui prati si strozzano galletti di primo canto e si accuorano agnelli di lana primaticcia, la mannaia e il ceppo fanno una loro danza particolare, le padelle sfrigolano aglio e rosmarino, l'olio bollente schizza. Il vino si sbotta al calcio di un albero e lo zipolo s'incanna a mescita perenne.
La folla vuol godere pienamente, e per godere pienamente ha bisogno di essere martirizzata: la piazza bolle come un gran caldaione e per mangiare è d'uopo farsi strippare.
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A due tiri di schioppo da qui, sui clivi ceneri argènto, sotto gli uliveti, ci sono le famose osterie versiliesi: tavoloni da refettorio, panconi corali in cui anche un omo badiale può assidersi pacificamente, e l'oste con il cuore largo come una via maestra: pane di grano e di un giorno, vino d'uva e di un anno. Ma oggi la folla deve darsi, vicendevolmente, urti e spallate, e tutti insieme sergozzoni ai cavalli che il mercante di bordatino vuole istradare sulla piazza piena come un uovo. Lì pane integrale e vino di strizzo. I maligni, quelli non mancano mai, insinuano che quel che frigge in padella è gatto invece di abbacchio e che l'olio è rifritto, e nel vino c'è stato messo l'acido tartarico, ma tutti vogliono bollire nella medesima contentezza sgangherata.
Ha un bel da fare l'insinuante a mormorare che il ripieno dei tortelli è fatto di pancotto e cacio pecorino stantìo e che l'involucro si potrebbe paragonare al vaso di Pandora, ma così bene unti e incaciati di parmigiano scivolano giù per il canal della gola che è un piacere.
– E poi, se caso fosse vero, sono meno indigesti, – commenta un festaiuolo ottimista.
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L'oste della taverna, nascosta tra gli olivi, tutto ieri, insieme alla sua legittima consorte, ha tritato carne di vitella e fegatelli di pollo e li ha amalgamati con cervello, bieta e ricotta, aromando il ripieno con erbucio e prezzemolo, e ha fatto il condimento con un cappone e un bel rocchio di girello. Il suolo di pasta per ravvolgerli lo ha spianato l'ostessa, e quante volte ha dipanato il suolo sulla spianatoia e quante volte lo ha aperto sul tavolo come una tovaglia di lino: Dio solo lo sa.
L'oste e la sua moglie hanno stordellato tutta la santa notte; la donna, a punta di forchetta, ha frangiato ogni tortello; ora son lì come tante coccarde di pasta frolla e dicono: «Mangiami, mangiami». Ma nessuno li degna, perchè tutti son là in fondo di piazza.
– Li guardi! – dice melanconico l'oste.
– Vogliono festeggiar la gola, e tutto gli ritornerà alla gola, – dice impermalita l'ostessa.
Giù, nel fondo di piazza, ci sembra la guerra. I palloncini di gomma lacca che la folla festevole lancia per aria sembrano bolle di vino sgallate dalle teste infiammate.
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Memento homo: la gola, che non ha orecchie, non ode avvicinarsi la gotta dal piede elefantino: inguvia giù e spera in Dio.
La gotta si cura tappando la bocca. Ma la gola fa spalancar la bocca come un forno e l'acido urico s'accumula nel sangue e deposita nelle articolazioni.
E i rimedi?
Far voti a San Biagio? Forse a San Regolo.
Cardon, medico, matematico, chimico filosofo, letterato, dimenticava i dolori della gotta sprofondandosi tutto nella lettura di qualche libro. Gottosi, in biblioteca è il lenitivo.
Il taverniere che ha aperto rivendita sotto i tigli dirimpetto alla grande Alpe del Carchio, che oggi sembra un colossale triangolo di cacio trivellato dai topi, e al Gabberi, enorme boccale capovolto e coperto di una stoffa sottile di seta celeste, e alla Ceragiola, i cui ravaneti rossi precipitanti sembrano cascate di vino rovesciate sugli assetati, piglia per la gola i fiaschi e gli uomini che prima si pigliavano alla parola.
– Questo è dello Stinato.
– E questo è del monte di Ripa.
– Sveglia anche la Salamandrina, il rosso dello Scosciato.
Se un fiasco schizza rubini, l'altro lampeggia d'oro. A tal tentazione i «Sanbiagini», – chiamano così da queste parti i ghiotti, – fanno dei tagli, ma tristezze e guai son riservati a chi fa muovere guerra, dentro di sè, a un bianco e un nero.
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Dopo aver celebrata la festa v'è chi passa la notte come nel pallone: posa col corpo, ma col capo cammina nei regni siderali e la mattina il capo pesa come il Mappamondo e i pensieri sembrano diventati ghiaiuottole di fiume. Tragittando il capo, da una spalla all'altra, sembra che questi diano di cozzo nelle tempie e le spacchino. Gli orecchi bugnano come conchiglie e portano il murmure del mare nella tazza del cranio. La Fata Morgana danza davanti gli occhi ottusi e tenta chiappare delle mosche impalpabili.
– Pensarci pria per non pentirsi dopo.
Ed entra in scena il medico: – Lei ieri è stato a San Biagio.
– Sì.
– Lei beve?
Il bevitore, il cui capo gira come una trottola, insinua:
– Beviamo tutti!
– Lo so, – commenta arguto il medico, – beve anche il prete all'altare.
– Già.
– Senta: combinai degli amici.
– Sì.
– E con ciò?
– Si fece un fiasco.
– Poi?
– Poi c'incastrò dell'acqua...
– Meno male...
– ...vite...
– Con l'uricemia ch'ella ha adosso?.. Doveva masticare anche un tralcio di vite.
– Veramente dell'uricemia me ne ha parlato lei, – dice mezzo intontito il «Sanbiagino».
– Tò, o bella. O non lo sente lei quel continuo morso di carne alla rota delle ginocchia?
– Veramente un limìo ce lo sento. Ma io ritenevo si trattasse di una cosa passeggiera... Una inquietuccioncella.
– Ma un uomo di una chiara intelligenza come la sua non potersi astenere: ne uccide più la gola che la spada! Ricorda il Vangelo?
– Sì.
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Alla fiera di San Biagio ci sono anche i librai di Montereggio, quelli che sparpagliano i libri in tutto il mondo. Campanili di libri s'alzano sugli scaffali ambulanti: dalla Vita di Cipriano La Gala a quella del Passatore, dal Dante a Carolina Invernizio. Libri dei sogni e dei cuochi, del cielo e della terra, del paradiso e dell'inferno.
I librai sono dotti come gli scaffali.
Un «Sanbiagino» corpulento si accosta al banco.
– Desidera?
– Un libro.
– Questo è per lei!
– Troppa grazia.... – Si tratta di un tomo alto come un mattone di quarto: «Trattato di chimica, medicina, chirurgia, veterinaria, farmacia, storia naturale, botanica, fisica. Di Regin, Boisseau, Jourdan, Montgarni, Richard, Sanson e Dupuy. Ridotto ad uso degli italiani».
– Ma lei ignora, signore, che Cardon dimenticava i dolori della gotta sprofondandosi tutto nella lettura?
– O chi glie lo ha detto che io sono afflitto dalla gotta?
– Io, per esempio, ci ho i miei dubbi.
– Ma il dubbio, caro signore, non distrugge la verità.
– La verità è senza varietà, caro signor libraio impaccioso.
– Ma, ottimo signor mio cliente, con la verità, lontani si va.
– Allora sappia, signor libraio impaccioso e impertinente, che «verità intempestiva è simile a bugia».