Lorenzo Viani
Il nano e la statua nera

LE «MACCHINE VOLANTI» DI DUE SPIRITI BIZZARRI

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LE «MACCHINE VOLANTI»
DI DUE SPIRITI BIZZARRI

 

 

 

 

 

Uno lo chiamavano «Zizzania» e l'altro «Bisunti». Entrambi conoscevano a memoria il poemetto di «Amarilli Etrusca», viaggio aerostatico ai pianeti.

 

Mentre il globo aereo innalzo,

mia caduta non pavento;

e col piè le vie del vento,

e le nubi calcherò.

 

D'altra forma è il globo sferico

che, vincendo sua natura,

lieve più dell'aria pura,

ove chieggo approderà.

 

Lucchese fu Teresa Bandettini, «Amarilli Etrusca», poetessa estemporanea d'ardente imaginativa, ammirata qual miracol nuovo, corteggiata quasi come decima musa dai due Pindemonte, Giovanni e Ippolito, dal Cesarotti, dal Bettinelli, dal Parini, dal Passeroni; lucchesi «Zizzania» e il «Bisunti». Il primo era della teoria del più pesante dell'aria, il secondo era della teoria del più leggero. «Zizzania» voleva approdare in seno a Febo, il «Bisunti» voleva approdare nel grembo a Selene.

 

Dal pianeta della terra

nella luna tragittar:

 

canto steso, che intonava il calzolaio «Bisunti», quando col martello batteva il cuoio sulla pietra per rinsaldarlo.

Un giorno lontanissimo degli ultimi anni dell'ottocento, il «Bisunti», affumicato un pezzo di vetro e guardato, traverso quello, il sole, disse al suo padrone che lo osservava stupito: – O ora o mai! – e tolti su una gavetta da soldati e un vecchio cannocchiale senza lenti si avviò verso il mare.

Sul monte Quiesa lo sorprese la notte; le nubi randagie passavano come vele di sulla luna in quindicesima: giù dal lago s'udiva il zampognare delle folaghe

 

Ma qual odo di zampogne

boschereccio inculto suono?

della luna forse sono

tutti i popoli pastor?

 

E tolto di tasca il vetro affumicato fissò la luna e disse: – O ora o mai!

La macchina volante, che il «Bisunti» aveva già tutta montata nel capo, per sollevarsi necessitava della distesa grandissima della spiaggia e del mare e doveva essere attrezzata di una corda della lunghezza dello spazio che separa la luna dalla terra.

 

Se è satellite la luna

della terra, ove siam noi,

debbon pure i figli suoi

a noi piccioli sembrar...

 

Presta il mistero sarà svelato, – commentava il «Bisunti».

 

 

Sulla spiaggia di ponente, i funai, che nell'oprare camminano all'indietro come i granchi, ordivano canapi per bastimenti. La bionda canapa ricolta sull'asta sembrava nel sole una grande fiamma.

Il «» li fissava estatico, e più estatico fissava le colossali matasse di corda già pronte per essere portate sulle navi in partenza.

Un giorno osò fare la domanda che da settimane gli rimaneva impeciata sulla lingua: – Se la mia domanda non v'attedia, quanto costerebbe un canapo lungo dalla terra alla luna?

Quella domanda segnò la fine della sua follìa in incognito. Dopo, egli, beffeggiato dai ragazzi, chiamava i loro padri: asini distinti. Ma non ristavano dal molestarlo.

Nella disperazione il «Bisunti» si attaccava a Galileo: – Anche Galileo fu sbeffato, ma poi? – e, centrandosi sopra il tacco di una scarpa, faceva una piroetta e urlava: – E pur si muove.

 

Con tal gente che folleggia

e l'umor tien della luna

far non vo' dimora alcuna;

altro mondo vo' cercar.

 

Una notte stellata il «Bisunti» vide come saldato sul monte di Quiesa il disco lunare. Il domani notte egli, attrezzato di tutto punto, gavetta, cannocchiale e un fagotto di panni, era sul crinale del monte su cui aveva veduto la sera avanti saldata la luna: – Un salto e ! – Ma l'astro d'argento, quella sera, pareva saldato sulle vette delle Pizzorne lontane lontane. Il domani notte il «Bisunti» s'inerpicò sulle Pizzorne; ma di vide la luna saldata sugli Appennini. E il «Bisunti» corse e forse corre ancora, nel mondo di , dietro al suo sogno.

 

 

Più complicato il macchinismo di «Zizzania»: aste d'ontano ricurve, teli e lenzuoli, ed eliche fatte con legno di faggio e spalmate di certe sostanze, chè il fuoco di Febo non facesse alla macchina ciò che fa il lume alle farfalle.

A «Zizzania», più che la distesa del mare conveniva la cima di un monte ripidissimo. Di lassù egli fissava Febo e, benchè spenti nel grand'arco del cielo dalla sua luce, «Zizzania» vedeva altri astri:

 

Forse son di Palla e Cerere

gli scoperti or or pianeti

che, vagando irrequieti,

vansi irati ad incontrar?

 

Sì, son dessi: io li ravviso,

qual li addita a noi il Germano

e l'Astronomo Sicano

che il loro corso misurò.

 

I monti, che visti da lontano sembrano ripidi e taglienti, avvicinandosi hanno vaste ondate e profondità di piane insospettate. «Zizzania» girò su pei monti per trovare quello da cui spiccare come un falcaccio il volo.

Ma non trovò mai la vetta che s'ergesse come una muraglia sull'abisso. E allora decise di montare sul tetto del casone, nel quale abitava, la sua macchina volante. E sul tetto, in compagnia dei rondoni, attrezzando l'ordigno, cantava:

 

Mia caduta non pavento;

e col piè le vie del vento,

e le nubi calcherò.

 

Negli orti sottostanti alla casa di «Zizzania» si vedevano sfaccendare le donne, ridotte dalla distanza piccole come uccelli posati sopra il verde delle insalate.

Di lassù egli vedeva anche la Cattedrale alabastrina di San Frediano, che ogni tanto pareva esplodere con tutte le statue: erano i colombi che ad armate vi volteggiavano sopra.

 

E da questa amena sede

quanto l'occhio intorno vede

dolce incanto tende al cor.

 

Una mattina di sole la macchina era sull'orlo del cornicione sotto cui erano aggrappati i nidi delle rondini. «Zizzania» v'era seduto sopra con il cipiglio di una divinità aerea.

I passanti s'eran tutti fermi a veder colui che con tanto ardimento s'era seduto sul precipizio. E «Zizzania» si gettò nel vuoto e si sfiaccolò sul selciato.







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