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SCENA VIII.
Pirino. Non vi dogliate, vita mia, che, se ben i frutti d'amore nel principio son amari, sempre nel fin la radice è dolce. E perché in tanti travagli la fortuna non ha bastato a scompagnarci, fo fermo augurio che i Cieli v'abbino servato per me, e che saremo nostri.
Melitea. Io non mi affligo per me ma per voi, stando io sicura che mi aiutarete, se non quanto io, almeno quanto merita l'amor mio; e travaglimi la fortuna quanto gli piace.
Pirino. Vita mia, con tanta cortesia piú m'obbligate e mi sforzate ad esser piú vostro che mio, e se il destino facesse che non avesse ad esser vostro, almeno non sarò d'altri. Questo allontanarci da casa nostra non è per altro che per schivar una burasca che n'è sovragionta, ché portavamo pericolo di affogarci nel porto.
Forca. Or che nôtate nel golfo delle dolcezze, non si fa piú memoria del povero Forca, cagion del vostro giubilo.
Pirino. Forca, sta' sicuro che mentre arò core arò memoria di tanto beneficio, accioché venendo l'occasione possa premiar l'amor e la fede verso me.
Melitea. Ed io riserbo la ricompensa, quando sarò in miglior stato; ché adesso non posso mostrar segno del mio buon animo.
Forca. Ed io pregherò Iddio che mai scompagni cosí bella coppia di sposi i quali, per etá, per nobiltá e costumi e bellezza, son degnissimi l'un dell'altro. Intanto, entrate in casa di Alessandro, e il passato pericolo vi renda assai piú cauti e diligenti: ché qui, di fuori, vi potrebbe vedere il dottore o Mangone o il padre istesso, e ad una tempesta se ne aggiongerebbe un'altra. Informate Alessandro di quello che abbia a dire a vostro padre e inviatelo fuori; fra tanto io m'armerò d'una corazzina di falsitadi e di bugie, che possa star saldo ad ogni gran bòtta di veritá: e gli farò credere che voi siate il piú onesto figlio che si trovi, io un santo e i nostri emuli traditori. Ma la sua porta s'apre: sgombriamo tosto.