Remigio Zena
L'apostolo

III.   Diario.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

III.

 

Diario.

 

"Roma! è la patria o piuttosto il simbolo della patria? è il suo fascino che ci incanta, o la speranza d'un'altra Roma, città eterna e vera del sole, quella che ci infonde nell'anima una tristezza soave di nostalgia quando ne siamo lontani, e ci sorride imperialmente man mano che i nostri occhi vedono sorgere nella nebbia e risplendere sempre più vicina la cupola della santa Basilica? Non saprei contare le volte che venni a Roma, vi soggiornai lunghi mesi, m'addentrai nelle sue viscere, ne conobbi la miseria e lo sfarzo, le rovine e le risurrezioni, il peccato degli uomini e la santità delle memorie, e ogni volta nel partire vi lasciavo un pezzo di cuore, e ogni volta, tornando, la rivedevo coll'ansia di un novizio. Ditemi il mistero di Roma, il mistero della sua luce spirituale! Se i vandali tornassero e distruggessero nell'incendio gli ultimi ruderi del Foro e gli archi gloriosi e tutte quante le chiese e il Vaticano, e i sette colli rimanessero nudi e deserti come sette calvari, Roma trionferebbe ancora, risorta e sfolgorante nella sua luce. Cristiani, ditemi voi il miracolo di questa luce!

"Non m'importa di non saperla descrivere sulla carta – a che gioverebbe, signor mio Gesù Cristo, se per voi ho rinunciato volentieri alle mie vanità e l'opera della mia mente e delle mie mani nulla aspetta dagli uomini, ma tutto da voi? – questo io so: è la luce di Roma, di Roma soltanto; la vedo cogli occhi corporei, la percepisco cogli occhi dell'anima, la riconosco, sempre quella, sempre la stessa, gloriosa e cristiana, nelle piazze intorno alle fontane e agli obelischi, nelle ville dei principi, nei rioni della plebe, nel deserto foraneo sotto le arcate fuggenti degli acquedotti; la riconosco, sempre quella, sempre la stessa, taumaturga e cristiana, dalle alture di Monte Mario, quando in lontananza illumina l'Urbe e l'avvolge come in un conopeo, scintillante sulla stola d'oro del Tevere.

"Ecco il miracolo. Nel silenzio delle Catacombe, davanti a un altare ignudo, eretto tra i santi sepolcri sul sepolcro d'un martire e rischiarato appena da qualche lampada, ho assistito ai riti che mi rammentavano quelli della Chiesa primitiva, e una soavità si trasfuse nel mio spirito e un desiderio ineffabile di morire, quando il sacerdote impartì la comunione dell'ostia ai pochi fedeli genuflessi con me nelle tenebre, ma quella evocazione non era il miracolo; nella gloria ardente della Cappella Sistina, in mezzo a una folla che parlava tutte le lingue, ho visto tra le alabarde e i cerei, salutata dal canto gregoriano, la processione delle porpore, e in alto apparire tra i flabelli la figura bianca del Pastore, e mi sembrò di raggiungere i termini della beatitudine, ma quella visione non era il miracolo. Il miracolo si manifesta non per l'intervento degli uomini e senza il soccorso suggestivo dell'artificio, anche santo, bensì quando per stesso alle forme ideali dell'anima rispondono le forme esteriori con segno sensibile del pensiero di Dio, confermando le fedi e vivificando le speranze.

 

"Da ieri i nostri pellegrini sono in giro per Roma. Stamane, dopo la messa al Gesù, ho guidato anch'io il mio piccolo drappello. Una giornata piamente serena, itinerario assai lungo e faticoso da Aracœli e dal Campidoglio, passando pel Foro, a San Pietro in Vincoli, poi al Colosseo, a San Giovanni Laterano, a Santa Croce di Gerusalemme, a Santa Maria Maggiore. Durante il tragitto i buoni operai mi attorniavano famigliarmente, interrogandomi spesso ma poco ascoltando, ogni momento distratti da cose nuove e forse non sempre dalle più meritevoli d'attenzione. Uno solo era compreso di sincera meraviglia: un apprendista nella tipografia del Quotidiano; assorto, contemplava lungamente, come se avesse voluto carpire un segreto e scrutare la ragione intima dei prodigi che gli passavano davanti agli occhi. Mi disse, strada facendo: io penso che se Gesù Cristo tornasse ancora sulla terra, non più per essere crocifisso dagli uomini ma per regnare, la sua città sarebbe Roma. E disse pure: guardo il cielo, nient'altro, e come m'accorgo dal cielo quand'è domenica, così m'accorgo dal cielo d'essere a Roma.

“Non ho trovato alla vigna Sabina, come speravo, il padre Albis; è partito ieri l'altro per Pisa dove predica gli esercizi spirituali, passerà a Lucca e non sarà di ritorno se non dopo la Concezione, fra un mese circa, quando io sarò in Francia. Gli scriverò domani.

"No, non gli scriverò, è inutile. Ciò che gli direi a viva voce in uno slancio filiale di verità, soccorso dalle sue parole, incoraggiato dalle sue domande, non saprei metterlo sulla carta; rispetto o vergogna, mi perderei in un laberinto di frasi, tormentandomi il cervello perchè egli indovinasse solo col leggere tra le linee e non otterrei di spiegarmi come voglio. Poco o tanto, nella preoccupazione di ciò che si scrive, anche in momenti commossi, la sincerità è tradita dalla penna, si esagera o si smorza pensando all'intento cui miriamo, all'effetto che i nostri periodi produrranno sull'animo di colui che leggerà, e lo stato vero di coscienza rimane come offuscato da una nebbia; le parole che si pronuncerebbero in uno sfogo di pianto e di confessione, gettate sulla carta mutano colore e forma, ci fanno ribrezzo o spavento, e io me ne accorgo, io che scrivendo queste pagine per me solo, vado tergiversando, in cerca di pretesti, timoroso di toccare la bragia. E se, vinto l'ostacolo, riuscissi nella mia lettera non soltanto a farmi intendere, chè il mio padre Albis non penerebbe di molto, ma a persuaderlo che io dico la verità e non si tratta di scrupoli vani e di fisime, il conforto immediato mi mancherebbe, unico compenso alla mia schiettezza dolorosa.

"Inutile scrivere; pure sollecitandola quanto so e posso, non avrei la risposta che fra quattro o cinque giorni, e dopo domani invece, tornando via da Roma, mi fermerò a Pisa dalla mattina alla sera.

"Un confessore mi disse: la vita sulla terra è milizia, il ferro è provato dal fuoco e l'uomo dalle tentazioni, pregate e combattete; un altro più pratico: sceglietevi una compagna secondo il vostro cuore. – O Signore, le mie preghiere insistenti, diurne e notturne, non giungono fino a voi? vi siete ritirato da me ancor prima della caduta, che sarà immancabile e irreparabile se non v'affrettate a venire in mio soccorso, mentre sto combattendo? Non rifiuto la lotta, non voglio fuggire arrendermi, ma è lo sgomento, oso dire il presentimento della disfatta, che mio malgrado mi soggioga, allorchè basterebbe tanta fiducia in me stesso quanta ne ha nelle sue forze un atomo vivente, per affrontare l'esercito delle tentazioni e sentirmi invincibile. Perchè, Signore, io che credo, che spero, io che vi amo e non amo che voi, perchè son ridotto in tanto travaglio a guardare con misera compiacenzainvidiando quasi! – coloro che non credono in voi, nulla sperano al di , non amano se non le cose e le creature, e da voi son lasciati nella pace serena del loro peccato? – Scegliere una compagna! non questo mi avrebbe detto e non questo mi dirà a Pisa tra due giorni l'uomo che non m'inganna e per cui consiglio paterno esercito nel secolo i miei anni di probazione prima di rifugiarmi nell'arca. Scegliere una compagna secondo il mio cuore! Dunque dichiararmi vinto, pur lusingandomi di conservare l'ipocrito onore delle armi, venire a patti col nemico: do ut des; io ti abbandono le mie promesse segrete, le letizie spirituali e rinuncio in perpetuo alla vocazione della grazia, tu mi butti nelle braccia una femmina e in apparenza, finchè a te piacerà, mi concedi qualche ora di tregua; così l'istinto della carne è mansuefatto in giuste nozze e la coscienza tranquilla. – Ma della donna, che i prudenti vorrebbero farmi scegliere per compagna, basteranno i tesori di bellezza, d'amore e di verecondia, a compensarmi del bene perduto, a esorcizzare per sempre l'ossessione delle turpitudini? Il mio cuore è morto, o meglio non fu mai vivo, non saprebbe scegliere, come non saprebbe amare: la compagna che vorreste darmi, l'abborrisco fin d'ora, l'abborrisco senza conoscerla, qualunque ella sia, e intanto mi dibatto, flagellato il corpo da fiamme d'acciaio che non perdonano.

"Basta!

 

"Cogli occhi fatti chiaroveggenti dalla morte, che purtroppo non tarderà, tu me l'hai letto nell'anima il segreto, mio povero Voltagisio, e fissandomi, il tuo sguardo ebbe un lampo di tristezza. Hai divinato la mia caduta prossima, imminente forse? Hai visto Dio ritirarsi da me e chiudermi in faccia la porta della sua chiesa?

"Eccoti presso a morire, beato di morire. Io non ho ancora salito il primo gradino e son qui genuflesso nello sgomento, ignoro se i miei gemiti mi otterranno la perseveranza, facendomi degno della milizia di Gesù Cristo, e tu, benedetto, sei già al sommo della scala, e tu, giovine come me, mio compagno e fratello, hai scritto sul tuo libro le tue eterne vittorie. La malattia lenta che ti consuma, terrore di chi ne vede lo spettro affacciarglisi incontro sulla soglia della vita o si abbranca ai fili d'erba, fra tutte ha il privilegio d'essere implacabile; la cella d'elezione dove stai morendo giocondamente, illuminata dal sole di Roma, è un giardino chiuso al nemico, che oramai vinto, non tenta nemmeno più di penetrarvi.

Contemplando l'infermo nell'umiltà della sua tonaca, scarno e cereo, abbandonato senza mollezza sopra una poltrona, udendolo parlare con voce tutta nuova, che non rammentava più la voce d'altri tempi, non venivano i ricordi a stornartisi dall'amarissima soavità ond'ero compreso. Quel Gabriele Voltagisio della mia adolescenza, condiscepolo nel collegio di Monaco, restava laggiù insieme agli altri, dimenticato come in una pace lontana; il Voltagisio che mi guardava sorridente e del quale udivo la voce sorridente anch'essa, era un altro, un altro fratello conosciuto non so dove quando, sempre visto così, pallido, disfatto nel suo abito religioso, tra le quattro mura d'una cella. Fu lui il primo ad evocare le nostre memorie: ti ricordi? ti ricordi? e senza attendere che gli rispondessi, incalzavano le domande, i piccoli aneddoti si succedevano e le parole fluivano continue, cristalline, non interrotte da affanno e da colpi di tosse, e le guance a poco a poco si tingevano purpuree e una luce fresca gli trillava nello sguardo.

Tremando ero salito sulle alture di Monte Mario, avevo bussato all'uscio, persuaso di trovare un agonizzante che appena avesse la forza di rispondere al mio saluto e, già straniero sulla terra, estatico nella visione suprema, non mormorasse a fior di labbra che la litania degli angeli; stavo invece al cospetto d'un sereno cui l'idea dell'urgente morte non occupava se non per letificarsi dentro medesimo, e puro e disposto ma non ancora segregato da ogni consorzio, partecipava alla vita negli armistizi che il male gli concedeva.

"Volle che io assistessi al suo pranzo e pure assaggiassi un bicchierino di Bordeaux: il bicchiere della staffa, diceva sorridendo, magnificando per chiasso la cantina dei padri gesuiti, i quali andavano soggetti a distrazioni involontarie oppure avevano poca memoria, scambiavano qualche volta il Chateau-Laffitte col vinetto feriale dei novizi, e bisognava essere condannati irremissibilmente perchè si ricordassero di possedere in fresco delle vecchie bottiglie giacenti. Il bicchiere della staffa! E seguitava, lasciando quasi intatta quella misera ala di pollo che il fratello laico gli aveva messo davanti, e dopo avermi parlato di suo fratello, anche lui mio antico compagno, ora officiale di cavalleria, mi chiedeva delle nostre opere di propaganda, dei miei confratelli, dei miei studi, dei miei articoli sul Quotidiano, entrava in politica, discorreva di letteratura, ed io infervorato nel tema prediletto, invece di attutirlo perchè si riposasse, gli davo maggiore impulso con nuovi argomenti. Lo assalì un impeto subitaneo di tosse, poi un secondo più violento e più lungo, si alternarono sul suo volto le fiamme scarlatte e le pallidezze cadaveriche. Voleva ancora trattenermi; lo lasciai, supplicato da un gesto dell'infermiere. Nell'abbracciarmi, come abbracciano i frati, posando ambe le mani sulle spalle, mi domandò piano con voce divenuta affannosa, guardandomi fisso: e la vocazione? c'è sempre la vocazione? e fu in quel momento che una tristezza balenò dai suoi occhi, immersi nei miei, un lampo di pietà indefinibile, nel quale riconobbi i segni della seconda vista. Un lampo: mi sorrise di nuovo e mi strinse la mano lungamente, ma uscii dalla casa di vigna Sabina, vacillante come un ubbriaco.

“Il bicchiere della staffa! Beati i viaggiatori che lo bevono senza rimpianto e senza rimorso!!”


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License