Remigio Zena
L'apostolo

IV.

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IV.

 

Nella sede dell'Unione cattolica promotrice, in via della Scrofa, l'adunanza era stata piuttosto burrascosa e aveva durato fino a notte assai tarda. Erano convenuti i generalissimi e i centurioni e i decurioni, aventi voce in capitolo, dei vari comitati settentrionali, e i presidenti o i membri più autorevoli delle associazioni romane, per discutere e approvare l'indirizzo da leggersi il giorno dopo a Sua Santità nell'udienza solenne concessa ai pellegrini, laici in grande maggioranza, patrizi, uomini d'affari, giornalisti, e come sempre e come dappertutto, buon numero d'avvocati, ma altresì molti ecclesiastici, insigniti per la maggior parte del titolo di monsignore; e in quella miscellanea i tipi più spiccati e caratteristici, le più curiose inflessioni dei dialetti dell'alta Italia, le opinioni più arrischiate, combattute e difese a spada tratta, tutte le sfumature del partito militante, dai così detti conciliatori ai pii accaniti intransigenti.

Di ritorno all'albergo, Marco Cybo s'era messo a scrivere e aveva scritto quasi fino all'alba, solo interrompendosi ogni tanto per passeggiare in lungo e in largo nella stanza, preoccupato da altri pensieri e lontano le cento miglia dalla discussione accademica o poco meno, alla quale aveva assistito senza prendere la parola. A che pro? questioni bizantine, vaniloqui, vaniloqui! A suo talento, l'indirizzo non avrebbe dovuto essere che un omaggio puro e schietto di devozione alla Santa Sede, spoglio d'arzigogoli, bianco d'ogni politica, senza livori, senza sarcasmi, umile e risoluto, risoluto fino all'effusione del sangue, il gemito dei figli diseredati dalla società al loro padre; invece si era voluto farne un articolo ampolloso di giornale, una protesta belligera contro i governanti, cattolica forse ma non cristianamente evangelica, scritta in nome degli operai pellegrini e dimentica affatto degli operai, all'unico scopo di appagare la vanità di chi doveva leggerla e dei grandi promotori che, soli, avrebbero potuto accostarsi al trono.

Questo pensava Marco Cybo durante l'assemblea, nel mentre la voce dell'avvocato Visdomini signoreggiava fra tutte, prepotente, impaziente, e questo avrebbe detto in pubblica seduta, senza umani rispetti, quei rispetti che non conosceva, se non l'avesse trattenuto lo scrupolo di errare nel suo giudizio. Chi era lui, temerario, che presumeva di giudicare gli altri? lui solo era l'infallibile o per quale miracolo i suoi occhi vedevano chiara la verità, ottenebrata agli occhi di tanti più degni di lui? ecco che in suo cuore accusando gli altri di essere vani nel loro zelo e poco evangelici perchè opinavano altrimenti da lui, cedeva egli stesso a un sentimento d'orgoglio e non si peritava d'offendere la carità del Vangelo.

Poichè nell'indirizzo si voleva a qualunque costo intromettere la politica, obbedendo a un impulso repentino della sua coscienza era scattato in piedi per appoggiare un'ardita proposta manifestata dal conte Appiani di Castelborgo presidente del Comitato subalpino, ma i clamori d'indegnazione tosto sollevatisi da ogni parte, non gliel'avevano consentito. Tutti, salvo pochissimi piemontesi e lombardi, s'erano levati protestando, dall'uno all'altro scambiando a voce forte i loro commenti di biasimo.

– No, no! – tuonava in mezzo al tumulto l'avvocato Visdomini, più pallido e più gigante che mai nella maestà del suo sdegno – non siamo venuti a Roma per mire politiche! siamo venuti a Roma col bordone del pellegrino per inginocchiarci sulla tomba degli Apostoli o per offrire al Santo Padre l'espressione della nostra obbedienza cieca, della nostra immutabile fedeltà, non per dargli dei consigli! Il Vicario di Cristo non accetta consigli dai falsi sapienti, come Cristo non ne accettava dai Farisei!

E al tumulto degli indegnati era succeduto un silenzio ecclesiale d'attenzione intorno al nuovo missionario, la cui parola nemmeno le approvazioni osavano turbare, nemmeno quelle, sempre intempestive, di monsignor Brasile. Seguitava l'oratore:

– Dei Farisei, mi si permetta il vocabolo amaro, ed è con profondo cordoglio che insisto e lo ripeto, deplorando che purtroppo non manchi tra costoro, illuso o colpevole, taluno a cui lo vieterebbe il rispetto dell'abito che porta. Rinnoveremo le dolorose scissure del congresso di Bergamo? Quanti qui siamo, tutti c'inchiniamo con riverenza al venerando patrizio, del quale troppo ci è nota l'opera indefessa e feconda, ma nella mia coscienza di cattolico, io ultimo gregario, parlando a lui veterano illustre, sento il dovere di metterlo in guardia contro i lupi in veste d'agnello, sieno pure monaci, filosofi, uomini di Stato, che ebbero l'arte di circuirlo e d'ingannare la sua buona fede. Non ignari che la voce delle loro effemeridi, dei loro opuscoli, dei loro conciliaboli, ormai è un grido d'arundine nel deserto e i loro maneggi non ottengono altro effetto che di stringerci maggiormente alla Sede Apostolica, provarono d'introdursi fra noi mediante lo stratagemma, abusando d'un nome preclaro per virtù e per zelo, nella fiducia insensata che quel nome venerabile, altamente rispettato anche nel campo dei nostri nemici come il nome d'un glorioso avanzo della Destra subalpina, quando in Parlamento la Destra significava ancora difesa acerrima della religione e della moralità, quel nome, dico, avrebbe servito di facile salvacondotto alla loro malizia!

Uno scoppio d'applausi aveva salutato l'allusione dei Farisei, dei lupi in veste d'agnello, quantunque non abbastanza chiara intesa da tutti, e senza guardar tanto pel sottile in fatto d'encomi più o meno lusinghieri, i torinesi in ispecie avevano con lunghi battimani accolto l'omaggio diretto al loro presidente, che per pochi mesi, verso il '54 o il '55, era stato deputato a palazzo Carignano e avversario di Cavour, al fianco di Federico Menabrea, del conte Camburzano e del conte della Margherita. Ed ora l'avvocato entrava nel cuore della questione, e dopo essersi accinto a dimostrare con preziosi argomenti che la proposta Appiani sarebbe stata inopportuna, irriverente, temeraria, perniciosa, dopo aver enumerato i danni che ne sarebbero derivati, fulminava di nuovo, esplicito questa volta, i cattolici liberali che per mezzo dei veri cattolici tentavano insinuare stolti o perfidi suggerimenti al Romano Pontefice e consigliarlo a mutare ex novo quella sapiente linea di condotta tenuta da lui e dal suo immortale predecessore, di fronte alle usurpazioni del potere civile.

Vadano essi alle urne, vadano essi se così loro piace, fautori d'una impossibile conciliazione e non s'ingegnino di trascinare anche noi a compiere un atto di figli ribelli agli ammonimenti del padre! Vadano essi alle urne, predicando come Lutero l'inobbedienza e la rivolta, e poichè le loro prediche non sono ascoltate, non dicano a noi di tradurle al cospetto del Papa! Da quando in qua i discoli alunni presumono di insegnare al maestro e le tenebre di dar la luce a prestito al sole? Il Papa è dalla sua cattedra il maestro unico, il Papa è dal suo trono il solo che illumina le nostre tenebre e mentre essi, indocili, vogliono ostinarsi a sorreggere un edificio d'iniquità che già traballa sulle fondamenta, noi stiamo col Papa, nel Vaticano che è il nostro monte Aventino, a piangere o a pregare con lui, aspettando l'ultimo crollo!

A varie riprese il conte di Castelborgo s'era attentato di interrompere per ritirare la sua proposta e spiegare come l'idea d'un cenno rispettoso nell'indirizzo al possibile concorso dei cattolici alle elezioni politiche fosse un'idea tutta sua, non suggerita da alcuna combriccola faziosa o farisaica, ma ogni volta l'atteggiamento dell'adunanza l'aveva ridotto al silenzio. Non badando a lui a due o tre altri, fra i quali Marco Cybo, che domandavano la parola per chiarire un equivoco forse non involontario, scaldato dalle crescenti approvazioni, l'oratore si era messo sulla via del trionfo, risoluto di giovarsi d'un nemico che non esisteva e proseguire fino all'ultimo, senza dar tempo alla discussione di scemargli l'effetto. E il trionfo era stato intero e se prima d'allora il nome di Severino Visdomini era già conosciuto nel partito militante, da quel momento si era accaparrato la fama e l'autorità d'un generale di battaglia. Tra i plausi dell'assemblea in visibilio e le ammirazioni e le congratulazioni, quando il principe Romoli, presidente, stentava col campanello a calmare l'entusiasmo per imbastire un fervorino di chiusura, e monsignor Brasile e Luigi Cantabruna e i giornalisti della Voce e dell'Osservatore e dell'Araldo romano continuando a spolmonarsi, non volevano saperne di mettersi a sedere, avrebbero potuto insistere i rari oppositori e combattere punto per punto quel discorso, secondo essi aggressivo senza ragione, vano rimbombo di frasi timballesche alle orecchie d'un'assemblea tumultuosa, che in senso opposto emulava altre intemperanze giacobine?

Irritati e mortificati, quei due o tre se n'erano usciti alla chetichella subito dopo la seduta, evitando per prudenza inutili spiegazioni che avrebbero suscitato nuovi diverbi, non mascherati questa volta dall'ipocrisia parlamentare. Nell'intento di far recedere il Castelborgo dalla determinazione presa per di non assistere all'udienza pontificia e partirsene da Roma appena pubblicata sui giornali una lettera di protesta, Marco l'aveva accompagnato a casa, in una pensione piemontese presso Sant'Andrea delle Fratte, cercando, quanto meglio sapeva e poteva, di persuaderlo. Inutilmente: il conte, al quale, fra le righe, l'avvocato Visdomini aveva rinfacciato l'antica amicizia che lo legava a parecchi tra i principali e più noti fautori della conciliazione, l'abate Tosti, l'abate Stoppani, Augusto Conti, il marchese Alfieri di Sostegno, e che non ignorava il motivo segreto d'un attacco meditato e preparato sotto mano da un pezzo in attesa che lo giustificasse un'occasione favorevole, si era creduto ferito nella sua dignità, non tanto dalla violenza delle parole come dall'insinuazione melliflua e cerimoniosa che egli per dabbenaggine senile si fosse fatto portavoce d'un manipolo farisaico. Se era rimbambito, se il suo nome, se l'opera sua che durava da quarant'anni nel giornalismo, nel Parlamento, nelle amministrazioni comunali, nei sodalizi cattolici, diretta sempre alla difesa del Papato e della religione, non erano una guarentigia sufficiente e non lo salvavano dal sospetto d'essere divenuto un vecchio zimbello incapace di ragionare colla sua testa, tanto valeva finirla subito e che questo zimbello si levasse una buona volta dall'ingombrare la strada ai nuovi venuti!

Dopo una lunga discussione, Marco l'aveva lasciato sulla soglia. Nel tornare tutto solo verso la Minerva, risalendo il Corso già quasi deserto a quell'ora, dapprima si era imbattuto con Paolino Carbonara, in lieta compagnia, che all'adunanza non era intervenuto, aveva fatto le viste di non riconoscerlo e si disponeva a tutt'altra adunanza meno burrascosa, poi in piazza Sciarra una donna l'aveva fermato, impudente, piantandoglisi davanti per sbarrargli il cammino:

– Non ha paura d'annoiarsi così solo solo? venga con me, lo terrò allegro.

Era la stessa che usando lo stesso frasario aveva tentato d'accalappiarlo la sera prima sull'angolo di via della Vite: facile riconoscerla dal tabarrino amaranto e da un acre profumo avvelenato che la sua persona esalava.

– Venga con me, – insisteva, accostandosi fino a toccarlo, resa audace non saprei se dall'assenza di guardie e di curiosi o da una certa perplessità che le era parso di ravvisare nell'attitudine del suo prigioniero – .... qui a due passi....

D'un balzo egli si era liberato, fuggendo via, fuggendo via, timoroso di non affrettare abbastanza il passo, nel mentre quella creatura gli scagliava dietro un improperio.

Era scappato davvero come un povero seminarista a cui fosse apparso Satanasso, con tutta la sua gran corte infernale, sopra un trono di serpenti o di bragia viva, e appena nella stanza dell'albergo, s'era buttato ginocchioni, supplicante, implorante alla sua debolezza quell'ausilio dall'alto che si sentiva mancare, o poichè, nemmeno la preghiera l'affrancava dalla tentazione e le turpi imagini gli passavano scellerate davanti agli occhi, attraverso le lagrime, e il suo corpo, se non l'anima sua, stava in balìa del maligno, s'era messo a tavolino per distrarre la mente dall'assedio, costringendola al lavoro, senza requie, senza misericordia, fino a tanto che fosse tornata la pace.

 

Tregua forse, non pace. Nell'angoscia che l'opprimeva, domandava a Dio perchè dopo averlo tenuto immune dagli assalti del peccato pessimo fino alle porte della virilità, ora, compiacendosi di vederlo in una lotta tanto più accanita quanto più era stata ritardata, non gli perdonava la prova terribile del fuoco.

Da parecchio tempo le occasioni spontanee si moltiplicavano intorno a lui; ciò che prima lo lasciava freddo, indifferente, e di cui non pensava ad occuparsi nemmeno per involontaria distrazione, ora l'abbruciava di desiderio: una forma bastava, una forma muliebre che passasse per via, una pittura blanda, una musica, un mazzolino di fiori, bastava un'ombra perchè il guizzo d'un pensiero immondo gli attraversasse la mente. Anche in chiesa i quadri e le statue assumevano davanti a lui parvenze nuove, dalle loro cornici, dalle loro nicchie, perfino dall'altare gli sorridevano trasfigurandosi, come per invitarlo al peccato; anche tra lo pareti domestiche l'imagine di sua sorella! E lui che cento volte, in cento città, aveva proseguito impassibile la sua strada, massime a Vienna e a Parigi, senza curarsi del lenocinio sfoggiato pubblicamente, senza quasi avvedersene, e con un gesto si era sbarazzato delle male femmine che gli venivano giorno o notte tra i piedi e si attentavano a lusingarlo o invitarlo cogli sguardi e colla voce, ecco che oggi, a Roma, quegli sguardi, quella voce, quelle stesse parole udite le cento volte, l'avevano percosso, e un momento, lui, lui che oramai si credeva tetragono, era stato in procinto di lasciarsi trascinare da una vagabonda!


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