Remigio Zena
L'apostolo

VIII.   Jek, ta dui, ta trin, ta stâr.

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VIII.

 

Jek, ta dui, ta trin, ta stâr.

 

Quella sera nella palazzina della duchessa d'Olevano, al Macao, le ore di Marco Cybo trascinavano un piombo con lentezza infinita.

Mutata idea, deliberato di non partire da Roma finchè i buoni uffici del padre Cornoldi , già suo maestro di filosofia e ora consigliere aulico segreto in Vaticano, non avessero intercesso al conte di Castelborgo, per giustificarsi, la grazia d'un'udienza particolare, di ritorno all'albergo aveva trovato un secondo biglietto della duchessa, più insistente e più caloroso del primo, che gli rinnovava l'invito a pranzo per la sera, tale da non potersene esimere senza manifesto sgarbo. E una volta tanto si era rassegnato, quantunque si sentisse del tutto estraneo alla società della quale la vecchia duchessa si compiaceva per una stravagante scissura coll'aristocrazia romana fin da quando era rimasta vedova, società esotica in gran parte, raccolta ogni anno su per gli alberghi di piazza di Spagna e rinnovata ogni anno. Tra gli altri commensali, il sonatore Tommaseo e la principessa Brancovenu con sua figlia.

Dopo il thè, dalla sala attigua al salottino dove destramente Marco aveva potuto rifugiarsi, eludendo il senatore che gli era sempre alle calcagna e togliendosi ai colloqui vani delle signore, veniva il ritmo d'una Danza ungherese di Brahms. Era solo: gittate via le sigarette, due o tre personaggi sconosciuti si erano alzati ai primi accenni del pianoforte, impazienti d'applaudire alla suonatrice; ritto sull'uscio, le mani dietro il dorso, Paolino Carbonara seguiva, approvando, il movimento melodico, approvando con vera compunzione, finissimo intelligente di musica, come d'ogni altra cosa.

E la musica si svolgeva tarda e timida dapprima, sonnolenta, coll'accidia d'una biscia intorpidita che si risveglia.

Ben venga Brahms e la sua Danza, ma Cybo non si era mosso dal divano sul quale riposava, affranto dalla notte procedente passata in bianco, dalle fatiche della giornata, dal lungo digiuno forzato. Attendeva che la padrona di casa si risolvesse a dare il segnale del coprifuoco, ma purtroppo non sembravano disposti a gradirlo così presto i cavalieri e le dame e le damigelle che durante la serata avevano popolato l'appartamento.

Una miscellanea di tipi e di linguaggi, accomunati per poche ore dall'ambiente e da un francese grottesco, uomini e donne a cui egli era stato presentato senza intendere altro del loro nome se non la pompa del titolo e un accozzamento ostrogoto di sillabe, e che anche tra essi, nella rigida osservanza esteriore delle forme, trapelavano la diffidenza, commedia delle tavole rotonde d'albergo. Pellegrini essi pure, ma tratti a Roma dalla fantasia o dalla curiosità, cristiani forse, ma ignoranti della vera Roma cristiana.

E la musica si svolgeva allegretta e vivace, flessuosa, colle ondulazioni d'una biscia risorta che si arrischia al sole nel mezzo della strada.

L'aveva rubato a una banda di zingari, Brahms, cotesto tema bizzarro? Tema bizzarro, incostante nei toni e nella misura, tutto lubrichezza e zigzag, rettile ed errabondo. Ma le palpebre di Cybo si chiudevano suo malgrado e in un dormiveglia cosciente i pensieri gli attraversavano il cervello come imagini sotto una carta velina, errabondi anch'essi a zigzag, suggestionati dal ritmo.

Era Nicoletta Brancovenu la suonatrice. Nicoletta: sua madre non la chiamava Nicoletta, la chiamava Friscka. Per quale capriccio del caso o quale insidia del demonio, dopo averlo perseguitato durante il giorno, costei gli era tornata dinanzi, quando meno se l'aspettava? Pure non vedendola, nell'ascoltarne sul pianoforte il sapiente armeggio, agilissimo, egli indovinava quella grazia serpentina onde era rimasto colpito in San Lorenzo e poi nella sala vaticana al cospetto del Papa. Friscka! che nome era Friscka? Non voleva pensare a lei; non certo per lei, Friscka o Nicoletta, si era indotto a differire la partenza; piuttosto tentava di richiamare alla memoria il colloquio preliminare avuto col padre Cornoldi negli uffici della Civiltà Cattolica a Ripetta, troncato a mezzo dall'arrivo di monsignor Della Stanga. Appunto monsignor Della Stanga, perchè quella mattina, colle sue parole misteriose, gli aveva propinato nell'anima un sospetto sul conto della principessa Brancovenu, persuaso che la conoscesse?

E la Brancovenu madre e Nicoletta non volevano credere che monsignore si fosse dato premura di spedire un suo famiglio al loro indirizzo in via Gregoriana col biglietto per la cerimonia papale, e Tommaseo da principio stava sul burbero. Gran tempo del pranzo non si era parlato d'altro: il biglietto esse non l'avevano ricevuto mai, prima dopo, e aspetta aspetta alla Porta di bronzo il marchese Cybo, avrebbero dovuto tornarsene a casa mortificate e a bocca asciutta, se incontrandole come anime erranti sotto il colonnato, quel buon Carbonara non le avesse fatte salire per una scaletta secondaria, forse quella della Segreteria di Stato, scendere, risalire, e smarritosi anche lui nel viluppo dei corridoi, finalmente un gendarme poco scrupoloso non si fosse preso l'arbitrio, mediante il solito argomento persuasivo, d'introdurle di soppiatto. Eppure coi suoi occhi Marco aveva visto scrivere l'invito o spedire il piego, poteva supporre uno sbaglio: troppo bene si rammentava d'aver dettato il recapito preciso a monsignor Maestro di camera: via Gregoriana, numero 31 – giusto il suo numero dell'albergo – e il disguido non era altrimenti esplicabile se non riversandone la colpa sul messaggero. Ad onta delle sue proteste, Nicoletta e Tommaseo si mantenevano increduli, l'accusavano lui di dimenticanza volontaria per liberarsi da ogni impiccio con signore che non aveva mai visto, anzi Nicoletta....

Ma non voleva pensarci a Nicoletta. Lo turbava il pensiero d'essere stato troppo familiare con lei. Dopo pranzo, nell'ascoltarla lungamente, a poco a poco non si era lasciato sedurre dalla sua vivacità e dalla sua grazia chiacchierina? A sentire Tommaseo ella parlava tutte le lingue del cielo e della terra, s'intendeva di scienze sociali, era pittrice e scultrice, musicista e letterata. Parlava di tutto, questo sì. Non era a Roma che da due giorni, prima d'allora non vi era stata che una volta, alcuni anni addietro, quasi bambina, rimanendovi poche settimane, e discorreva di Roma come se l'avesse sempre abitata: Roma latina nelle sue rovine, Roma cristiana nelle catacombe e nello basiliche, Roma papale del Rinascimento nei monumenti e nelle chiese, nei palazzi, nelle fontane, nelle gallerie e nei musei. Avventava giudizi, lanciava in fatto d'arte i più bizzarri paradossi e le critiche più spropositate, ma con tanto scoppiettio di grazia, ed ella stessa ne rideva con tale allegria, che per poco, ridendone con lei, non veniva voglia di darle ragione; dell'arte vera cristiana ignorava lo spirito come la formula, ma nel proposito di ricredersi o di imparare, quello due mattine, appena arrivata, si era messa in moto e in giro avanti l'alba, tirandosi dietro nella scorribanda di chiesa in chiesa una famiglia d'americani, conosciuta per , a tavola, nel miscuglio della pensione Cook in via Gregoriana. – Aveva viaggiato mezzo mondo, l'istinto nomade la conduceva da un paese all'altro per mare e per terra: ultimamente, in yacht, sola, con una pazza baronessa svedese che pretendeva a capitano di lungo corso, partita da Salonicco era andata a naufragare sulle coste della Spagna presso il Grao, e scampata in virtù d'un miracolo, sola, per via di terra, se n'era venuta a Roma da Valenza, a raggiungere sua madre.

Non madre e figlia, due sorelle piuttosto, libere e indipendenti l'una dall'altra, o due straniere, se la somiglianza visibile dei lineamenti e della carnagione, i medesimi capelli d'ebano e i medesimi occhi notturni non le avessero rivelate. La principessa parlava meno e con minor brio: chiusa in un sussiego d'alterigia, o forse di tristezza, le sillabe aspre e i dittonghi gutturali davano alla sua voce un'inflessione selvatica, come duramente selvatico aveva un bagliore nello sguardo, ma tra lei e sua figlia l'apparenza prodigiosa della gioventù dissipava la differenza degli anni, e se una bellezza scapitava nel confronto era certo quella della figlia. – E l'anima? pensava Marco: c'era affinità d'anima tra queste due donne, che così manifesti recavano i segni d'una razza obliqua, diversa da tutte le altre? Se non cattoliche, erano cristiane? e nel turbinio dei loro viaggi e delle loro avventure, oggi riunite per caso, domani a mille miglia l'una dall'ultra, l'una noncurante della sacra custodia che le incombeva, l'altra desiderosa di non essere custodita, sospettavano l'eternità?

La musica si era fatta carezzevole, quasi lasciva di soavità, agonizzante e vivibonda in un lungo sospiro di tentazione.

Ecco: alle poche frasi che la principessa Brancovenu madre gli aveva rivolto, interrogandolo sempre, e alle sue occhiate scrutatrici non abbastanza caute rapide a divergere altrove per non essere avvertito, Marco si era sentito ribelle, ma quando Nicoletta gli parlava, suo malgrado si compiaceva d'ascoltarla e d'armeggiare con lei in botte e risposte. – Gli stava di fronte a tavola, ignuda il collo e le braccia, nella luce piena dei candelabri. – Non sapeva conciliare l'ironia delle sue parole colla dolcezza della voce e tanto meno dello sguardo, ironia persistente, indolente talvolta, che non lui mirava a pungere, bensì le cose sante venerate da lui, le cose sante di Dio; non voleva persuadersi, vedendola e tremando nel vederla, che fosso lei – l'immodesta! – quella che poche ore prima, non cattolica, si prostrava ai piedi del Padre dei cattolici, umile e composta nel suo velo, le mani giunte, e non ardiva palesare altro desiderio se non quello di Samuele: parlate, Signore, la vostra serva vi ascolta! Così presto aveva dunque dimenticato l'evocazione dal sonno, la promessa spirituale che Cristo l'avrebbe illuminata e fatta risorgere?

Bugiarda! bugiarda senza motivo, senza la parvenza d'un pretesto: chi l'aveva costretta a uscire dall'ombra, a farsi avanti, a inginocchiarsi? mentiva al vicario di Cristo per schernirlo, come avrebbe mentito a Cristo sulla croce.

O Signore, l'infanzia di quell'anima non vi conosceva. Una bimba: non conosceva il veleno delle sue parole le lusinghe della sua carne. Avventizia a Roma come lui, Marco non l'avrebbe vista mai più: creature che giungono, passano, spariscono; ma se trovandola ancora sulla sua via, invece di fuggire per paura di medesimo, si fosse sentito così saldo da affrontarla, e come a una sorella bambina prenderle le mani e sfiorarle le mani colle labbra, e dirle tante cose che nessuno le aveva mai detto, quanta pietà per quell'anima! O Signore, l'infanzia di quell'anima, l'infanzia di quelle mani così bianche!

Ed ora, divenuta selvaggia ad un tratto e più rapida, precipitando il movimento come se descrivesse nella sua celerità i giri crescenti d'una ruota, la musica turbinava sempre più rapida.

La Nicoletta soave era sparita, un'altra Nicoletta pareva a Marco che gli turbinasse davanti, selvaggia, in uno strepito di sonagli e di cimbali. Non più Nicoletta, Friscka, travestita bizzarramente, tale quale come dianzi l'aveva riconosciuta in una fotografia tra le mille del salotto, memoria certo di qualche ballo, una torque e un diadema di zecchini al collo e sulla fronte, i capelli notturni sciolti e diffusi per le spalle. Turbinava sulla punta dei piedi, vertiginosa, in un barbaglio di colori, in uno strepito di sonagli e di cimbali, guizzando lampi dai carboni degli occhi, descrivendo in aria coi cerchi delle braccia un mistero di segni cabalistici, colle mani frenetiche tempestando sui cimbali.

La musica si arrestò, netta. La sensazione che ebbe Marco, allucinato dal suono e dal silenzio improvviso, fu quella d'un colpo di scure che a Friscka le avesse mozzato le mani.

 

Lo scossero gli applausi che venivano dall'altra stanza, udì un trambusto di sedie e di voci, e nella fiducia che da quello si potessero arguire i preliminari della partenza, balzato in piedi, si affacciò sulla soglia. Niun indizio. Ad ogni modo era risoluto: accomiatarsi subito dalla duchessa, e quanto agli altri, svignarsela: ma da una parte volendo schivare il senatore, dall'altra timidamente perplesso d'attraversare un gruppetto di signorine che nella larga coppa giapponese pescavano e sparpagliavano le fotografie, non fu pronto a cogliere il momento opportuno e solo si decise quando un nuovo preludio cominciava. Nicoletta era ancora al pianoforte, sua madre, vicino a lei, ritta, in attitudine di cantare.

L'avevano tanto pregata, la principessa Brancovenu, e di buon grado ella aveva finito per accondiscendere, senonchè, invece d'uno di quei pezzi classici, magistrali, cui tutti si aspettavano, richiamò per capriccio dalle lontananze transilvane dei suoi paesi una monotona cantilena, barbara per la musica e per le parole, eppure stranamente caratteristica nella povertà del ritmo. Nicoletta l'accompagnava sfiorando i tasti a lenti intervalli, col secco martellio sviscerando dall'istrumento la voce d'un istrumento nuovo, barbaro come la canzone.

Non sapeva dove quando, ma un'idea confusa d'averlo già udito altre volte quel motivo, si svegliò nell'animo di Marco, una vaga reminiscenza di quel ritornello e di quelle parole incomprensibili:

Jek, ta dui, ta trin, ta stâr;
Tirno muj me ciumidâv!

Ad ogni strofa la principessa le ripeteva, tinte di mestizia e d'ironia, nella loro languida cadenza, ed egli ora sorpreso di saperle a memoria, imparate, gli sembrava, in mezzo alle nebbie d'un dolore remoto, e nel volerne rintracciare il filo si smarriva in un laberinto.

Jek, ta dui, ta trin, ta stâr;
Tirno muj me ciumidâv!
Jekvar gudro ani tut
Mi pirani ta trin sciut.

E quando infine congedatosi dalla padrona di casa, si trovò all'aria aperta, quella cantilena gli ronzava sempre nelle orecchie con accanita persistenza o l'asprezza rimata di quei vocaboli veniva incessante a lacerargli le labbra.

Per vie solitarie camminando verso Termini in cerca d'una botte, si rallegrava d'essere stato pronto a scusarsi e irremovibile nel diniego di partecipare cogli altri a una gita che le Brancovenu avevano divisato pel giorno dopo alla villa Adriana e alle cascatelle di Tivoli. Si rallegrava e nel fondo del cuore sentiva il rammarico doloroso della sua fermezza come se avesse troncato per sempre una speranza, fuggiva vincitore da quella casa di vanità dove avrebbe voluto non essere entrato mai, e rimbombando nella notte sul marciapiede sonoro, i suoi passi affrettati gli pareva che lo conducessero verso l'esiglio.

Jek, ta dui, ta trin....

Anima vana, non ti basta d'aver pagato al mondo per un'ora il tuo tributo e rimpiangi d'esserti fatta libera dai lacci delle creature? alla grazia di Dio devi la tua liberazione, la grazia di Dio è con te, ti assiste, e rimpiangi il pericolo, e rimpiangi le misere creature che te l'avrebbero tolta?

Non le giudicava, ma era tempo di accelerare la fuga senza volgersi indietro: il fantasma di colei che era la tentatrice, gli correva alle spalle per raggiungerlo. Miseria dell'anima sua! egli fuggiva da colei, impetrando sinceramente che anche l'ombra del ricordo si dileguasse, e un sentimento d'ira e d'invidia gli travagliava lo spirito, vedeva medesimo sciocco, impacciato nel rispondere come un collegiale, quando invece Carbonara, colla sicurezza arrogante degli idioti, stabiliva il suo regno tra le signore, gran maestro di complimenti, e le damigelle se lo disputavano e la stessa Nicoletta ne accettava volentieri l'assiduità e gli omaggi. Lo vedeva, Paolino Carbonara, appoggiati i gomiti sullo schienale della poltroncina, chinarsi verso Nicoletta seduta, con familiarità inaudita chinarsi sempre più fino a sfiorarle la spalla coi pungiglioni della barba e susurrarle piano all'orecchio qualche cosa di curiosamente gaio, poichè ridendo ella si serviva d'un suo guanto come di flagello per farlo tacere; lo vedeva, durante la musica, cogliere il momento in cui pensava di non essere osservato e con una destrezza da mariuolo trafugare un ritratto dalla coppa giapponese!

Jekvar gudro ani tut
Mi pirani....

Il ritratto di Friscka, forse? il ritratto di Friscka!

Un impeto di collera lo assalì e interruppe l'ostinata cantilena che lui nolente gli veniva alle labbra, ma fu istantaneo.

Frizzava un'arietta gelida d'inverno. Per buon tratto di strada Marco non si accorse delle gocce minute che piovevano attraverso le tenebre, come piovevano nel suo cuore le lagrime di un rimpianto.


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