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Se il presidente Torre, ossia, volendo essere esatti, il conte della Torre, era partito giubilante per l'effimero trionfo della sua vanità che non dava ombra ad alcuno, ubbriaco degli incensi romanescamente canzonatori che gli avevano bruciato sotto il naso nelle sale dei loro circoli gli ottimati della Confederazione Piana e, nei loro ricevimenti e alla loro mensa, principi e cardinali, agli occhi d'ognuno il trionfo ottenuto dall'avvocato Visdomini si manifestava ben altrimenti serio e di ben altra importanza. L'avesse o no preparato da lunga mano la sapienza d'un lento lavorìo, il successo teatrale della filippica contro i conciliatori non sarebbe stato che un fuoco di paglia, se in pubblico non avesse avuto dalla parola del Santo Padre una solenne conferma, divulgata ai quattro venti dagli organi ufficiosi del Vaticano, e se, ammettendo uno solo fra i promotori del pellegrinaggio a un lungo colloquio segreto, escluso lo stesso marchese Cybo che ne aveva fatta domanda, Sua Santità non avesse prescelto appunto l'avvocato Visdomini. Insigne favore, prima e dopo tenuto gelosamente nascosto per evitare tra i capi malumori e puntigli, consigliato da ragioni assai più gravi d'un sentimento di simpatia, e del quale una volpe, come Visdomini conosceva troppo bene il privilegio per non saperne disporre le conseguenze.
Niuna meraviglia che al momento d'imbarcarsi, quando la notizia del colloquio era già diffusa e l'avvocato partito un'ora prima per Bologna, tutti volessero argomentare a loro modo che cosa gli aveva detto il Papa e quale missione speciale gli aveva affidato; massime Cantabruna e monsignor Brasile pretendevano spiattellare il segreto dei muri, imaginando scomuniche e ira di Dio, almanaccando moniti severissimi a questo o a quel vescovo dell'alta Italia in voce di rosminiano o di conciliante, sulla proposizione, nientemeno, della nuova eminenza laica. Le fantasie galoppavano a rotta di collo fuori del credibile, ma se non altro, l'opera di Visdomini era stata tanto efficace da precludere al conte ogni mezzo di farsi intendere da chi poteva rendergli giustizia; tutte le porte erano chiuse, tutte le orecchie sorde; lo stesso padre Cornoldi, che sulle prime si era lasciato indurre dal suo vecchio discepolo Marco Cybo e pareva risoluto a tentare direttamente col Papa di chiarire l'equivoco, trascinava alle calende greche l'adempimento della sua promessa.
E mentre il Castelborgo, aspettando l'esito, abbandonata ogni idea di scandalo e di rivolta dopo i primi impeti d'ira, quasi rassegnato si accasciava nel suo dolore, Marco Cybo, rimasto a Roma per lui e per aiutarlo, non voleva darsi vinto. Sebbene la riverenza e l'obbedienza passiva all'autorità superiore non gli consentissero d'attribuire il dissidio ad altro che a un malinteso, non pertanto, nella sincerità candida dell'anima sua, gli sembrava che l'ingiuria patente di cui il conte era vittima, gettasse un'ombra sulla bandiera, una macchia che i nemici non avrebbero tardato a rivelare, e più gli ostacoli si moltiplicavano e più pertinace tornava all'assalto, deliberato di superarli.
Pertinace. Ogni pensiero che non fosse rivolto al suo scopo, gli era svanito dalla mente. Se l'imagine d'una creatura, accarezzata un istante e certo non per consenso della volontà, gli sorrideva ancora nella memoria o di tratto in tratto gli svegliava nell'anima l'amarescenza d'un sogno perduto, non aveva neppure da lottare colla tentazione: si dileguava da sè, l'imagine esigliata, come l'alito sul cristallo. E da Pisa una lettera del padre Albis l'infervorava a rimanere e a patrocinare con ogni suo sforzo l'onesta causa, e nei corti e calmi intervalli, quando la morte già penetrata dentro la cella di vigna Sabina, pareva che giuocasse a rimpiattino col condannato, nascondendosi dietro l'uscio, il novizio Voltagisio lo stimolava dal suo letto d'agonia.
Non aveva più visto Carbonara nè il senatore Tommaseo. Una mattina, assai presto, passando in via delle Convertite per recarsi al telegrafo, lo chiamarono alcuni colpi ripetuti nei vetri del caffè Aragno e i gesti semaforici d'un redattore dell'Araldo romano. Entrò. Quel giorno si riapriva il Parlamento, inaugurandosi col discorso reale la nuova sessione; da San Lorenzo in Lucina a piazza Venezia era un andirivieni festaiuolo di gente che due ore prima si accalcava pel Corso sotto le bandiere sventolanti alle finestre, in attesa delle truppe che dovevano schierarsi lungo il passaggio del Re e della Regina, un transito continuo di vetture affrettate, un gridìo lacerante di strilloni. Appena entrato nel caffè, zeppo, insolitamente clamoroso a quell'ora di voci politiche, Marco si vide venire incontro il giornalista come se non aspettasse che lui nell'ansietà di dargli o di averne una notizia: era vero ciò che diceva il Messaggero del marchese Carbonara? una turpitudine, una calunnia senza dubbio; non aveva letto il Messaggero?
No, Marco non l'aveva letto e non lo leggeva mai. – Dunque non sapeva niente? non sapeva della cagnara successa da Morteo? Bottiglie in aria, schiaffi, la collana di cameriere segreto perduta nel tafferuglio e depositata in questura, una fuga a precipizio senza cappello.... roba da chiodi! ammettiamo pure le frange del cronista, ma purtroppo qualche cosa di vero doveva esserci per stampare in lungo e in largo.... pazienza tra uomini, ma c'erano pure delle donne, di quelle donne.... c'intendiamo, anzi una donna era stata la causa.... almeno secondo il giornale, la famosa Angiolina dei Quattro Venti.... roba da chiodi, insomma! Ecco: "la notte sopra ieri un'allegra comitiva di giovinotti, tra i quali il marchese P. C. appartenente alla più alta aristocrazia ligure e cameriere segreto di cappa e spada di S. S...." – cameriere segreto, s'intende; la testa si sarebbero lasciati tagliare piuttosto di scordarsi il cameriere segreto! – "....in compagnia di alcune notissime e allegrissime frequentatrici...."
Marco afferrò la gazzetta e uscito fuori sul marciapiede per levarsi di mezzo agli indiscreti che se la godevano un mondo, voltò dapprima verso San Silvestro, con avidità dolorosa leggendo il fatto di cronaca. Nel venirgli dietro piano piano, il giornalista scandalizzato seguitava i commenti:
– Speriamo che ci sia dell'esagerazione, ma ad ogni modo è sempre una vergogna. Sentiremo ora il baccano e il trionfo dei giornali liberali, vedremo le vignette del Fracassa; quindici giorni di baldoria, e questa volta avranno centomila ragioni e noi dovremo bravamente inghiottire e ritirare le corna. Siamo tutti uomini, un giramento può capitare a tutti, ma costa così poco aver prudenza! Non sarà vera, io non ci credo e più ci penso meno ci credo, ma se fosse vera, la storiella della collana.... domando io: che necessità di portarsi la collana in saccoccia? per farla vedere ai vassalli e alle sgualdrine? Lei ci crede, marchese?
Ci credesse o no, le variazioni sul tema erano inutili e le palinodie c'era tempo a farle più tardi; il giornale parlava chiaro, troppo chiaro e troppo sicuro di sè per lasciar dubitare che almeno in parte le cose narrate non fossero vere: terminava l'articoletto preannunziando un duello come conseguenza indiscutibile, e la più spiccia e la più semplice era di correre subito all'albergo Milano dove Carbonara stava d'alloggio.
– Debbo accompagnarla, marchese? – ripeteva a Cybo il giornalista, accompagnandolo già di fatto pel Corso tra gli spintoni della folla, reporter impenitente, quantunque elevato al grado di redattore, e punto disposto a lasciarsi scappare la buona occasione – mi metto ai suoi comandi in tutto e per tutto, pronto anche a rinunziare alla seduta reale.
Forse l'ingannò la cortesia d'un grazie a fior di labbra, risposto distrattamente nella preoccupazione d'altro pensiero, ma giunti che furono alla porta dell'albergo ed ebbero notizia positiva che il marchese Carbonara quella mattina non era ancora uscito, un nuovo grazie altrettanto cortese l'inchiodò in fondo alla scala, mentre si accingeva – diritti della stampa – a salir sopra anche lui.
– È vero? – interrogò Marco Cybo, appena, venutogli incontro sull'uscio, si trovò faccia a faccia con Paolino Carbonara e dentro la stanza vide una farragine di roba sparpagliata sulle sedie e sul letto e le valigie aperte riempite a metà. – È vero quel che si dice? – E la voce gli tremava peritante, come se l'atto che egli veniva a compiere, quasi d'inquisitore, gli facesse ribrezzo.
Colto all'improvviso, Carbonara rimase un istante senza verbo, gli occhi grigiastri spalancati, fissi in quelli di Marco; poi, balbettando, volle provare la simulazione:
– Vero?... che cosa?
– Quello che si dice per Roma, quello che stampano i giornali sul tuo conto.
– Non so niente, sto per partire, come vedi; i giornali dicano quel che vogliono, non so niente, io non mi occupo dei giornali.
Marco entrò risoluto e chiuse la porta:
– Non negare, è inutile. Hai paura di me? – gli domandò con dolcezza, piantandoglisi davanti e sforzandosi di vincere il tremito della sua voce – hai vergogna di me? non sono nè giudice nè confessore, sono qui per aiutarti; qualunque cosa sia avvenuta, riguarda la tua coscienza; posso aiutarti? eccomi: vediamo insieme, con calma, se ancora sono giunto a tempo.
– Non c'è bisogno d'aiuto – rispose Carbonara coll'acredine d'una finta rassegnazione – te l'ho già detto e del resto lo vedi, a momenti parto.
Era in maniche di camicia; sul volto sparuto e più bianco del solito le lentiggini apparivano più frequenti e più larghe come macchie livide, specie sotto gli occhi gonfi dall'insonnia; la barba, tanto accarezzata, la stupenda barba color di fuoco, aveva perso la lucentezza consueta. Andò davanti allo specchio per rifarsi il nodo della cravatta, in realtà per non sostenere lo scrutinio d'uno sguardo che l'umiliava, ma le dita si ribellavano in un moto febbrile e convulso; fece due o tre giravolte per la stanza come un ubbriaco che cerca qualche cosa e tornò all'operazione interrotta d'affastellare la roba sua dentro le valigie.
Scintillante nell'astuccio di velluto che conosceva assai bene e rimasto aperto sul camino, Marco aveva visto, entrando, la collana d'oro a dischi di smalto rosso tra un anello e l'altro, e almeno su questo punto era sicuro che il giornale o avesse mentito o fosse stato male informato.
– Hai proprio deciso di partire? pensaci, sei in tempo; non ti do un consiglio, ti supplico di pensarci; se, come spero, c'è dell'esagerazione, e molta, in quello che si racconta, la tua partenza improvvisa potrebbe somigliare a una fuga e la fuga non sarebbe altro che un'implicita confessione....
– Vorrei vederti nei miei panni! – saltò su Carbonara, però senza accostarsi e più che mai premuroso di dar sesto al bagaglio per nascondere il proprio imbarazzo – sai cosa c'è di nuovo? la confessione eccola qui, in due parole: l'altra notte mi sentivo appetito; vado da Morteo a mangiare un boccone; non ho più diritto d'avere appetito? A un tavolino vicino al mio c'erano diversi signori che non conosco e non ho mai visto sotto la cappa del cielo, persone per bene, persone di mondo, almeno a giudicarle dall'apparenza, invece.... basta, si attacca discorso; dovevo cucirmi la bocca? si attacca discorso.... i discorsi soliti; da una parola all'altra, non so come, viene in ballo il Papa, il Vaticano.... puoi imaginarti , spropositi da sessanta! cosa avresti fatto, tu? avresti rettificato, e così feci io, e per mostrare che sapevo il mio conto non ebbi vergogna di dire che sono cameriere segreto; essi cominciano a punzecchiarmi, io, naturale, rispondo, essi rispondono e si scaldano.... il sangue mi monta alla testa.... cos'abbia detto, non lo so; per evitare un alterco, pensai che il meglio era d'aver prudenza e andarmene; difatti presi il cappello e filai via tranquillamente; ieri dormii fino a. mezzogiorno.... sai, ero molto stanco.... non pensavo neppure per ombra a quello ch'era successo, perchè in definitiva non era successo niente, quando, mentre facevo colazione, due altri signori che non conosco e non ho mai visto sotto la cappa del cielo, anzi due ufficiali, vennero a sfidarmi! capisci? ecco i loro biglietti di visita: sai chi sono? io no: due tenenti. Sissignore, a sfidarmi!
– E tu?
– Io?... ho risposto prima di tutto ch'ero ammalato, e lo sono, se mi tasti il polso ho la febbre; in secondo luogo che io non sapevo d'aver mancato di rispetto a chicchessia; in terzo luogo che i miei principî religiosi non mi permettono d'accettare un duello. Si son messi a ridere, naturale. Non me ne importa un'acca, ridano pure quanto vogliono, coi miei principi io non transigo! – E ora che sai tutto, mettiti nei miei panni: debbo restare a Roma perchè questi spadaccini mi facciano per la strada, di notte, e anche di giorno, qualche brutto tiro? Sarei partito ieri sera, se la Questura non ci si fosse mischiata e non mi avesse pregato di differire.
Bene o male, a precipizio, l'insalata nei bauli era finita. Paolino suonò il campanello e si fece portare il conto.
– E a nome di chi vennero i padrini?
– Chi lo conosce? pare d'un altro ufficiale che si trovava anche lui da Morteo, nella combriccola, vestito in borghese. Un certo Giannino Monte Vergine, tenente di cavalleria: dev'essere un napoletano.
– Io non lo so. Pretendevano nientemeno che io pure nominassi i miei padrini, e siccome, fra le altre cose, essendo forestiero non avrei saputo dove pescarmeli, furono molto condiscendenti e mi diedero tempo fino alle dieci di stamane. Hai capito? oggi, alle dieci, saranno qui, all'albergo; saranno qui, cascasse il mondo, e questo è quello che non mi comoda: se non trovano i padrini, mi fanno una scenata? capacissimi. Fuga o non fuga, me ne vado, e subito! mancano non so quanto ore alla partenza del diretto per Genova, non importa niente, avrò tempo a far colazione al buffet, e se sarò stanco d'aspettare prenderò il treno omnibus fino a Civitavecchia, purchè io possa levarmi di qui. – In coscienza, non faresti lo stesso anche tu?
Marco non avrebbe fatto lo stesso: eppure non sapeva rispondergli nè opporgli una ragione. Intuiva nello strano racconto inverosimile un cumulo di bugie, capiva che quest'uomo non era dominato che da un sentimento solo, dalla paura, e nell'eterno timore del giudizio temerario si faceva violenza per crederlo sincero quest'uomo e compatirlo e giustificarlo. Dalla piazza sottostante di Montecitorio veniva per la finestra aperta il clamore dell'impazienza popolare; si affacciò un minuto e vide la folla cacciata indietro dai soldati che si allineavano al di là dell'obelisco, facendo fronte al Parlamento.
– Ecco Tommaseo in gran gala, che non riesce a farsi largo – disse astrattamente.
Paolino Carbonara aveva finito di vestirsi e, inalberato un cappello nuovo fiammante, sfasciato allora allora dalla sua scorza velina, stava chiudendo le valigie; la curiosità non lo punse, bensì il nome del senatore:
– Bravo, giusto lui! sapevo che non ha i nostri principi, ma non avrei mai creduto.... alla sua età, con un piede nella fossa!... mi capita ieri sera nella stanza, quand'ero già a letto con una febbre da cavallo, mi tempesta di domande, vuol sapere cos'è successo; gli racconto il fatto come l'ho raccontato a te, tale e quale, e mi spiffera una predica coi fiocchi, e pel mio onore e pel mio decoro e pel nome della mia famiglia vuol persuadermi che a qualunque costo bisogna che io mi batta. Anche lui, sicuro! E la religione che proibisce il duello!? e il rischio di pigliarmi una sciabolata sul cranio o nello stomaco e andarmene dritto a casa del diavolo!? Quando c'è di mezzo la pelle degli altri, questi vecchi liberali hanno un coraggio da leone. Ma il Delegato invece, il Delegato di pubblica sicurezza, che venne a restituirmi.... ossia, che venne a informarsi.... basta, il Delegato, invece, una persona molto seria e molto compita, mi disse che facevo benissimo a cambiar aria e a non aver vergogna delle mie convinzioni cattoliche. Un Delegato di pubblica sicurezza, sissignore!
Venne il cameriere col conto. Domandò Carbonara:
– Sono comprese anche le undici lire del cappello?
Nell'accennare di sì, il cameriere che senza dubbio quella mattina era stato uno dei primi a leggere nel giornale la narrazione piccante dell'avventura e forse per altre sue vie particolari conosceva la storia vera e genuina assai meglio di quanto la conoscessero gli stessi cronisti, domandò a sua volta colla più rispettosa malignità:
– Se per caso.... ci riportassero l'altro, dobbiamo spedirglielo a Genova, signor marchese?
Borbottata fra i denti, nella premura simulata di far discendere abbasso le valigie e il plaid e le canne e l'ombrello, la risposta, se pure ci fu, si perdette come un soffio nel ceduo della barca.
– Avete pensate a chiamare una carrozza? – soggiunse subito Carbonara alzando la voce – una carrozza coperta, mi raccomando; non ci mancherebbe altro che mi buscassi un malanno! – E pel corridoio avviatosi con Marco Cybo verso la scala:
– Ti do la mia parola d'onore che ho la febbre; non saprei dire dove me l'abbia presa, ma ho addosso una febbre da cavallo; già, col clima di Rorna non si scherza.... e poi.... non vorrei incontrarmi con certa gente.... con quei due signori, per esempio, che saranno qui intorno a girandolare, aspettando l'ora. Quanto manca alle dieci? sarebbe bella che avessero avuto l'ispirazione diabolica d'anticipare e me li trovassi nei piedi in fondo alla scala! Come me l'aggiusto?
Si attaccò al braccio di Marco, quasi per sentirsi più forte e sicuro.
– ....Prima che mi mettano le mani addosso.... vorrei vedere anche questa! con tanta gente che c'è sulla piazza, ci penseranno due volte. Tu vai all'apertura della Camera? Dovevo andare colle Brancovenu nella tribuna dei senatori.... Vuoi il biglietto? Me l'ha dato Tommaseo; avevo promesso a Nicoletta e a sua madre d'accompagnarle, dopo la seduta eravamo intesi di andare a far colezione fuori porta da Bonitatibus.... se hai occasione di vederla, Nicoletta Brancovenu, dille.... non dirle niente, già tu non la vedi e Tommaseo a quest'ora si sarà preso il disturbo di spifferare a lei e alla principessa....
Gli parve d'udire appiedi della scala un rumore di sciabole. Trasalì.
– L'ho detto? sono essi! – mormorò con un tremito di voce, appoggiandosi alla ringhiera.
Marco non perdette la pazienza:
– Scendo io prima. Intendiamoci bene: non vado come tuo rappresentante, vado come tuo.... amico. Non muoverti. Se essi son giù, al loro preteso appuntamento, farò in modo che non ti vedano uscire e verrò subito a chiamarti.
Con mirabile costanza il redattore dell'Araldo romano nel frattempo era rimasto abbasso in sentinella, risoluto di non abbandonare il campo senza precise informazioni. Dai discorsi col portinaio aveva saputo che a momenti il suo uomo sarebbe partito, e, svelto e audace, tentò un colpo da maestro per assicurarsi l'intervista.
– Venga presto, marchese – già installato bravamente in carrozza, gridò forte a Paolino Carbonara appena lo vide comparire nell'atrio al braccio di Marco – ho un incarico per lei, urgentissimo; se mi permette l'accompagno alla stazione; salga subito, discorreremo strada facendo.
Un'ora dopo, Marco usciva molto edificato da una lunga conferenza coi due ufficiali dentro la sala di lettura dell'albergo. Il maggiordomo, in vedetta, gli si fece incontro tutto riverenze e lo fermò sulla soglia: voleva incomodarsi di salir sopra un momento nella stanza già occupata dal marchese Carbonara? in un tiretto erano rimaste delle carte che il marchese aveva certamente dimenticato; potevano essere carte d'affari, lettere di famiglia.... nessuno le aveva toccate; c'erano pure altri oggetti minuti.... ad ogni buon fine, se come amico intimo del marchese credeva bene di ritirar tutto o prendersi il fastidio d'incaricarsi della spedizione....
Non erano carte d'affari nè lettere di famiglia.
La piazza di Montecitorio tumultuava nell'imminenza del corteggio reale.
– Ora scendo, andate pure – disse Marco Cybo al cameriere che l'aveva accompagnato.
In una mescolanza di lettere spiegazzate e d'immonde reliquie esalanti l'odore acre della tentazione e della nausea, mazzolini avvizziti, nastri di seta, guanti sparigliati, giarrettiere senza fibbia, alcune fotografie saltavano agli occhi, imagini ignote di femmine, quasi tutte arabescate dallo sgorbio d'una dedica più o meno amatoria. Immnonde, se non oscene.
Essere scherno o ludibrio del mondo, Signore, è il pane quotidiano di chi professa la vostra fede, ma perchè permettete che taluno di noi meriti l'ignominia che gli è gettata addosso a piene mani? Quei signori avevano ragione: quando si accampa la bandiera sotto la quale si milita, per sottrarsi alle conseguenze della propria stoltezza, occorre non averla macchiata quella bandiera; rammentarsi d'essere cattolici solo nelle feste pontificali per aspirare l'incenso del turibolo o davanti ai pericoli per non rischiare la pelle, non è altro che una vigliaccheria verso Dio che si vuole ingannare senza temerlo e verso gli uomini che si temono e si vogliono ingannare lo stesso.
Avevano ragione quei signori; tirate in ballo i vostri principi religiosi ora che noi vi abbiamo portato una sfida, e cotesti principi che impongono il sacrificio dell'onore in faccia al mondo, non erano gli stessi che imponevano in faccia a Domineddio il sacrificio dei vostri appetiti? Non dite d'essere credente e praticante, voi che l'altra notte – dal venerdì al sabato, notte d'astinenza precettuale – eravate a crapula in compagnia di baldracche e insieme ad esse facevate scempio delle insegne del vostro grado nella gerarchia vaticana. Ci fate ridere; se come a noi altri di manica larga, anche a voi danno nel genio le brune e le bionde, finite di stracciarlo del tutto quel pezzo di catechismo che vi serve soltanto per mascherare la vostra paura; siete vile e bugiardo, e vi disprezziamo e vi faremo disprezzare in pubblico da tutti gli onesti!
E siffatti vituperi Marco Cybo sentirli scagliare a un suo fratello! per quanto larvata dalle forme glaciali d'una cortesia perfetta, sentirsi coinvolto nella stessa ignominia! lo capiva bene: agli occhi di quei signori, egli pure era un sacristano coll'aspersorio alla cintola, coniglio come tutti gli altri, meglio o peggio camuffato da volpe.
Sì? Non si smentisco il buon sangue. Che direste se a sua volta il sacristano vi chiedesse ragione dei vostri sarcasmi, del vostro disprezzo così malamente coperto? Il buon sangue non si smentisce: credete davvero che l'andare a messa conferisca il privilegio della paura? Lasciate che fugga quel disgraziato, c'è chi risponde per lui: io rispondo, rispondo per lui e per me, io, marchese Cybo, che vado a messa e non vado a cena da Morteo in compagnia di male femmine. Vi basta il mio nome? eccomi: se finora non ho dato prove di me se non in chiesa o coll'aspersorio, giudicatemi sopra un altro terreno!
Miserabile! la tentazione dell'orgoglio, la tentazione della razza e del sangue era venuta repentina ad assalirlo, senza dargli il tempo di difendersi o di resistere, era venuta a tradimento, potentissima, gli aveva messo la benda sugli occhi, l'aveva atterrato. Un gesto, forse involontario, un frizzo vagamente allusivo di quei signori, erano bastati perchè dalla pianta dei piedi alla radice dei capelli si fosse sentito un brivido di fiamma guizzargli per tutto il corpo, e da un impeto irresistibile abbattuto in un attimo l'altare di mansuetudine, d'umiltà, d'abnegazione eretto con tanta fatica nell'anima sua. Quali parole avesse proferito non si rammentava; si rammentava d'aver visto i due ufficiali sbalorditi da quelle parole che suonavano così diverse dalle prime con cui era entrato in materia, tentennante, desideroso d'ottenere per grazia che il nome di Carbonara non fosse esposto alla berlina in un verbale di diserzione; si rammentava d'essere rimasto sorpreso egli stesso dell'improvviso mutamento a suo riguardo e delle dichiarazioni che gli vennero fatte, cortesissime, dappoichè non c'era motivo tra gentiluomini di suscitare una nuova questione cavalleresca.
Rammentati d'essere in peccato mortale, miserabile! È il buon sangue che non si smentisce o piuttosto la viltà della tua carne? Guai a te: ti giovano assai le compiacenze e le strette di mano di cui ti furono prodighi quei due, attoniti delle tue spacconate da rodomonte, ora che un soffio di orgoglio ha distrutta l'opera intera della tua vita! Gran merito resistere agli inviti notturni d'una vagabonda e piegare come un fuscello davanti alla parvenza di un'ironia! E sei tu quello che accusa gli altri e li giudica, tu che hai dato scandalo anzichè essere tenuto in concetto di sacristano! Sei meno vile di Carbonara? non hai avuto paura come lui, non sei fuggito come lui? peggio di Carbonara, sei fuggito dalla Chiesa, vergognandoti di appartenerle; non hai diritto alle scuse ch'egli può invocare: se non altro, sia pure per sottrarsi a un pericolo, si è dichiarato cristiano, e tu invece, miserabile, hai rinnegato Gesù Cristo!
Squillarono le fanfare annunzianti l'arrivo della Regina.
Dacchè in quel momento l'uscita sarebbe stata disagevole per la folla agglomerata in piazza davanti alla porta e nessuno dell'albergo si faceva vivo, tanto valeva rimanere finchè la cerimonia fosse compiuta. Lettere, fotografie, cianfruscole, Marco aveva raccolto e legato in fascio ogni cosa, premuroso di nasconderne l'obbrobrio anche alla vista dell'aria; il fuoco doveva farne giustizia. Unico, il ritratto di Nicoletta Brancovenu vestita di zingara, lo stesso involato alcune sere prima nel salotto della duchessa d'Olevano, aveva trovato mercede, e tolto all'impuro consorzio degli altri, sorrideva sul marmo del caminetto.
Di tempo in tempo, affacciandosi alla finestra senza curiosità e senza astio nel cuore per lo spettacolo della Roma italiana, Marco guardava sotto di sè la folla stipata intorno al quadrato delle truppe e più in là, nello spazio ampio tenuto sgombro dinanzi al padiglione rosso frangiato d'oro che copriva l'ingresso del Parlamento, i gruppi d'ufficiali d'ogni arma, i magnifici corazzieri statuari, i carabinieri irrequieti, gli staffieri scarlatti. Precedendo il Re d'alcuni minuti, la Regina era giunta nella benedizione del suo sorriso, accolta da un lungo fremito popolare di benedizione e da un protendersi di braccia, poi il Re era giunto, in berlina di gala, accompagnato dal Duca d'Aosta e dal Duca di Genova, il Re, canuto e giovine sotto il volo araldico delle piume di cigno che adombravano l'elmo, nella maestà del suo nome, accolto da un immenso saluto di voci e di musiche esultanti gli evviva e l'inno reale tra i rintocchi del campanone di Montecitorio e il rimbombo delle artiglierie di Castel Sant'Angelo – il Re!
Pure a Roma, a due passi dal Vaticano, la gloria dinastica sfolgorava meravigliosa agli occhi di colui che in ogni ora dell'infanzia e dell'adolescenza aveva appreso dalla madre fervente la religione dei gigli cristianissimi: italiano di razza e di nascita, davanti al Re – che era il suo Re – si sentiva fluire nelle vene il sangue vandeista della fedeltà, e quasi inconsapevole, anche lui, il cattolico pellegrino, se non col gesto, se non colla voce, partecipava coll'anima alle acclamazioni d'un popolo.
E ogni volta che Cybo si scostava dalla finestra, involontari i suoi occhi tornavano subito all'imagine di Nicoletta, la quale, dolcissima, lo richiamava collo sguardo fatto vivo dalla gratitudine d'essere stata riconosciuta e d'aver trovato mercede; fuggivano e tornavano i suoi occhi, come fuggiva l'anima sua dalla tentazione e come il suo cuore tornava verso l'incanto. Il perpetuo dubbio gli rodeva la coscienza: l'aveva salvato quel ritratto per tenerlo presso di sè, forse, e per avere dinanzi, continua, un'occasione di peccato? voleva restituirlo? come avrebbe potuto restituirlo senza palesare il nome del vero ladro o senza accusare, a torto, sè medesimo? era in tempo: condannato, condannato esso pure insieme agli altri ma al momento d'afferrare quel pezzo di cartone per unirlo al fascio, un desiderio l'assaliva, invincibile, di attendere ancora fino all'ultimo minuto prima di partire, sopraffatto da una grande pietà che l'astuzia del demonio e la miseria della carne gli travestivano in un nuovo scrupolo di non ricacciare l'innocente nell'esiglio inverecondo. Tornava indietro, rimaneva qualche istante appoggiato al davanzale, e vincitrice, Nicoletta continuava a sorridere.
Friscka piuttosto. Egli la chiamava Nicoletta nel suo cuore, rievocando la spensierata visitatrice di San Lorenzo e la pellegrina ubbidiente ai piedi di Papa Leone, giacchè non riusciva a dissiparla, ma come in effigie così la rivedeva suo malgrado in carne ed ossa immodestamente denudata, una torque e un diadema di zecchini al collo e sulla fronte, i capelli sciolti giù per le spalle, altrettanto rea di seduzione quanto le notturne dionisiache, e nella confusa reviviscenza della danza zingaresca di Brahms e nel ritorno ostinato di quella cantilena
Jek, ta dui ta trin, ta stâr....
già imparata da lui, non sapeva più dove nè quando, sparita tra le nebbie d'un dolore remoto – gli sembrava che il fantasma di Friscka lo avviluppasse in un sortilegio.