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Quo Vadis?
Sulle prime, giorni innanzi, quando si parlò di una colezione campagnesca da farsi insieme alla principessa Brancovenu e a sua figlia dopo la seduta reale, d'accordo era stata scelta l'osteria del famoso Bonitatibus fuori porta San Giovanni, poi, più che altro per ridere, il pittore abruzzese De Martino aveva tirato in ballo la gargotta dei Tre Ladroni, una bettolaccia sul Gianicolo molto al di là di porta San Pancrazio, o per la sua stranezza come per l'originalità del nome, la proposta era piaciuta.
– Andiamo ai Tre Ladroni – disse subito Nicoletta, infiammata dall'idea peregrina.
Roba da matti! Condurre due signore da Bonitatibus era già sembrata al senatore Tommaseo una confidenza soverchia: transeat: stravaganze d'artisti; ma i Tre Ladroni!? una bicocca fetida, affumicata, aperta alla rosa dei venti, dove non bazzicavano che i carrettieri, e la domenica tutte le peggio schiume di Trastevere!?
– Andiamo ai Tre Ladroni! – insistè Nicoletta, battendo le mani e anche pestando i piedi come una bimba nell'ostinazione del capriccio, e il senatore che non voleva darsi vinto, pertinace a sua volta nell'ostinazione dei vecchi, diventava rosso come una cresta di gallo, ma le sue ragioni volavano in Emaus o più spesso si perdevano tra i denti secondo il solito.
L'oracolo, che era il deputato Venceslao Rizzabarba, parlò lui:
– Una bicocca? che male ci sarà in fin dei conti se due signore forestiere, protette e difese da cavalieri come noi, visiteranno una bicocca romanesca? Siamo artisti alla ricerca d'un motivo: tanto di guadagnato per l'arte, se ognuno di noi questo motivo avrà l'abilità di rubarlo ai Tre Ladroni.
– C'est cela, pas autre chose – esclamò la ragazza approvando, come per giustificarsi cogli astanti della sua bizzarra insistenza.
– La signorina Friscka ha espresso il suo voto; contentiamola: perchè no? posdomani non è domenica, le schiume trasteverine non vorranno scomodarsi per noi, e quanto ai carrettieri, al giorno d'oggi siamo tutti fratelli. Il mio voto è pel sì.
– Anche il mio, anche il mio – gridò forte il coro ad eccezione di Tommaseo, che tentava le ultime resistenze.
– Non rammento bene, perchè l'unica volta che fui ospite dei Tre Ladroni non avevo tempo nè voglia di godere il paesaggio, ma mi pare, così in nube, che il sito sia pittoresco....
– Un vinetto bianco eccellente – interruppe De Martino.
– La moglie dell'oste, una moretta simpaticona!... vi raccomando la moglie dell'oste....
– Vada pel vinetto e la moglie dell'oste, però c'è una difficoltà: che si mangia lassù? non crediate di trovare tavola messa, figliuoli miei; siamo più o meno alle porte di Roma, ma facciamo conto d'essere sul picco di Teneriffa; sarà grazia se troveremo quattro rame secche da poter accendere il fuoco.
– Lasciate fare a me – disse il pittore De Martino – penso io a tutto: mi date carta bianca? va bene, ci penso io, e voi altri preparatemi un monumento.
Fuori porta, passato il Vascello, tra le Cave di creta e Villa Pamphili corre per un bel pezzo la strada detta Tiradiavoli, scende a Torre Troili dove si congiunge allo stradale grande, e come Dio vuole, per alti e bassi, lunga, triste, deserta, arriva a Palo, finalmente. Quando la comitiva smontò dinanzi ai Tre Ladroni, verso il Fosso della Galera, in piena campagna, un applauso di gioia salutò la mensa, imbandita alla rustica nel cortiletto. Quella tavola ben disposta sotto il pergolato, tutta linda e gaia, colle sue stoviglie di maiolica a larghi fiorami strillanti, colle sue fogliette alternate in simmetria, una bianca una rossa, una bianca una rossa, tutte con un ciuffo di foglie per turacciolo e una foglia per sottocoppa, fece il miracolo di rasserenare Tommaseo; ancora la vigilia egli protestava che non si sarebbe lasciato tirare a nessun patto, la mattina era stato il primo al convegno, e in carrozza non avea fatto che borbottare.
– Vi ravviso, o luoghi ameni – canticchiò Rizzabarba che dava il braccio alla principessa, entrando nel cortile, ma tosto si riprese – ....ameni, quando ci si torna in compagnia di belle signore e in una giornata splendida come questa che vi rovescia il lunario dal novembre al maggio – e qui battendo familiarmente sulla spalla di Marco Cybo – lei è ancora giovane, ma dovrà passarci anche lei; ....non tanto ameni, quando ai Tre Ladroni ci si capita in una mattina di gennaio, come ci son capitato io, umida, fredda, nebbiosa, scortato da un chirurgo che non parla e da due amici vestiti di nero, che per farvi coraggio dicono delle sciocchezze mortuarie.
Nel frattempo Claudio Priol e i suoi compagni, e mettiamoci pure Tommaseo, si erano ficcati in cucina alla ricerca del motivo artistico, vale a dire della moglie dell'oste; De Martino, che era lassù fin dall'alba, col grembiale bianco e il berretto da cuoco, faceva gli onori di casa a Nicoletta; il marito dell'ostessa s'impegnava a tirare una logora bandiera a guisa di tenda sul pergolato senza foglie e riparar la mensa dal sole.
Seguitando il discorso, Marco Cybo domandò a Rizzabarba:
– Lei si è battuto in questo luogo?
– Uno dei miei duelli avvenne precisamente qui dove siamo adesso, il più serio dei miei duelli per le condizioni gravissime e il più buffo per l'origine e per le conseguenze.
– Nessuna ferita?
– Tre colpi di pistola a quindici passi, avanzando: mi par di vedermi, ero qui piantato, proprio in questo punto, avevo in faccia quel fienile e riconosco sul cocuzzolo quel ramo secco, storto, legato a guisa d'insegna: vede? dunque, tre colpi di pistola: niente; un primo assalto di sciabola, furibondo: niente; un secondo, un terzo.... all'ultimo, per uscirne, una graffiatura da ridere al mio avversario. Ma il bello fu questo: lo scontro non si era potuto evitare per l'equivoco e la testardaggine d'un marito imbecille che credeva.... a torto, ma insomma era persuaso.... ebbene, ciò che prima era una sua fisima, ventiquattr'ore dopo il duello, divenne una realtà sacrosanta. Predestinazione! i mariti che si battono, o prima o dopo hanno sempre torto.
– Mauvais sujet! – disse la principessa con quel tono di severità e d'indulgenza faceta che spesso assumono le signore, fingendo di scandalizzarsi.
– Pourquoi, madame? pas plus mauvais qu'un autre. Est–ce que vouz prenez la défense des maris? Au moins, attendez le jour de mon mariage.
A tavola, fin dal principio, l'avventura di Paolino Carbonara fece in gran parte, non se ne dubita, le spese della conversazione, ma i commensali non sospettavano ch'egli quella mattina fosse partito da Roma a gambe levate, e Marco Cybo si guardò bene dal dirlo, per carità di fratello tenendosi nel riserbo forzato di chi non sa nulla, varie volte cercando invano il destro di sviare il discorso. Non tanto era stupito dei particolari scabrosi nei quali l'onorevole Rizzabarba si addentrava con insigne disinvoltura non ostante la presenza della principessa Brancovenu e più specialmente della figlia di lei, quanto della tolleranza di Nicoletta nell'ascoltarli e nel compiacersene.
Educato e vissuto in tutt'altro clima, dove la rigidezza delle forme esteriori era precetto, dove l'esistenza d'un'Angiolina dei Quattro Venti non sarebbe stata adombrata che in caso estremo e in nebulosa metafora, se il necessario consorzio nella vita con persone d'ogni stampo l'aveva per forza reso indulgente tra uomini a certe petulanze di linguaggio, chiedeva ora a sè medesimo quale triste privilegio suffragasse queste signore perchè i cavalieri in loro presenza si concedessero il diritto di mascherare le turpitudini appena quanto i limiti della creanza lo consentivano.
Guarentigia che la principessa e sua figlia non fossero due avventuriere, l'assiduità del senatore Tommaseo; tuttavia con un sotterfugio si era tentato escluderle dal ricevimento pontificio; questo era indubitato. Durante il tragitto in carrozza, Nicoletta aveva spiegato l'enigma: il biglietto d'invito, quello appunto che Marco aveva visto scrivere da monsignor della Stanga sotto i suoi occhi e consegnare al famiglio, era giunto per posta due giorni dopo l'udienza, senonchè l'indirizzo portava via Merulana invece di via Gregoriana; corso fin laggiù, non trovata naturalmente la principessa Brancovenu destinataria, il famiglio, a scanso di altre noie, si era affrettato a gettar l'invito alla posta. Semplice errore di scrittura o non piuttosto pensata astuzia del Maestro di camera per non scontentare il richiedente e in pari tempo tener lontane due forestiere, la cui fama non era immune d'ogni sospetto?
Senza dubbio Marco Cybo esagerava; nella sua volontaria ingenuità e nel suo perpetuo terrore del male, gli apparivano come espressioni oltraggiose alle orecchie d'una donna che voglia essere rispettata e ne sia degna, quei fioretti di letteratura parlata che se non crescono nell'orto dei certosini o dei trappisti, più o meno sono coltivati in quasi tutti i ritrovi mondani, anche i più austeri: letteratura a bassa o ad alta voce secondo l'aria o il colore del luogo, in forma di amene storielle o di romanze al cembalo, in forma di dialogo a botte e risposte, oppure di lieve susurro dietro i ventagli, frivola, maldicente, lasciva, insidiosa, ma troppo addentro penetrata e radicata nelle consuetudini per non poter forse pretendere il più delle volte alla scriminante dell'incoscienza, e per l'abuso stesso d'ammanire a tutto pasto i suoi veleni in dosi enormi, non così micidiale come dal pulpito la dipinge per altrui referto il rigorismo dei nostri padri Segneri; se non si fosse esigliato da tutti i salotti dove d'altro si parla che di opere pie e di tridui, Marco nel giudicare quelle signore sarebbe stato più benigno e più equo, l'esperienza gli avrebbe appreso a non incolparle esse solo nè a scandalizzarsi tanto per esse, quando non troverebbe pietre sufficienti chi volesse lapidare tutte le oneste donne, di null'altro ree che del peccato medesimo dello Brancovenu.
Ne aveva ancora degli altri sofismi il demonio per tentare Marco Cybo, indurlo alla plenaria giustificazione di quel trionfo dell'impudenza sulla verecondia femminile? Già altra volta in casa della duchessa d'Olevano un eguale sentimento di pietà l'aveva dominato, un eguale desiderio inesplicabile gli si era acceso nell'anima di trovare a qualunque costo almeno la parvenza d'una ragione scusante per poter intercedere misericordia, la sera che Nicoletta, audace nell'immodestia come nel linguaggio, non risparmiava dei suoi frizzi irriverenti le devozioni e i misteri della Chiesa cattolica; e quella stessa mattina perchè una grande compassione gli aveva impedito di gettare a fascio il ritratto di Nicoletta insieme alle altre brutture lasciate da Paolino Carbonara? nè sapeva spiegarsi, se non attribuendone la causa a uno spirito maligno di tentazione, perchè dopo esser fuggito quando fu certo che era Nicoletta colei che dalle finestre di Montecitorio lo chiamava gesticolando, il pensiero subitaneo d'aver dimenticato nella stanza dell'albergo il ritratto lo fece tornare indietro a ripigliarlo e così si trovò nel vestibolo faccia a faccia con Nicoletta e col senatore Tommaseo. Troppo tardi: a nulla gli giovava rammaricarsi della sua debolezza, pentirsi d'aver ceduto dopo breve contrasto alle loro insistenze; appiedi della scala, nel vedersi davanti, improvvisa, la fanciulla sbarrargli il passo tutta sorridente facendogli festa, il primo impeto al cuore non ora stato quello d'un'onda d'allegrezza?
L'onorevole Rizzabarba, maestro di cappella, dava l'intonazione all'orchestra rumorosa. Parlatore facile, quasi elegante, affettando non senza grazia una pronuncia toscana che non era la sua, usando temperatamente il gergo vivo dei giornalisti, dei comici, della così detta farmacia di Montecitorio nel raccontare aneddoti rischiatissimi, si guadagnava pel suo brio e per la sua versatilità una specie di corte nel cerchio degli ascoltatori. Non è a dire che non traesse profitto dalla fama di letterato e dalla posizione politica; ma assai più degli articoli estetici che veniva pubblicando di tempo in tempo su pei giornali e riuniti non sommavano a venticinque sebbene rappresentassero almeno dieci anni di vita letteraria, assai più dei suoi discorsi alla Camera non troppo frequenti e della sua conquista a un seggio di capo gruppo, gli giovava in società l'arte stupenda d'un finto cameratismo, pel quale, invece di pontificare dalla cattedra, pareva che egli non fosse là, in mezzo agli amici, se non per dar l'imbeccata alle barzellette. Le Brancovenu da oltre una settimana ne avevano gradito gli omaggi a una serata intima della duchessa d'Olevano, e fattosi subito loro cavaliere, masticando qualche parola d'ungherese, rivaleggiava per esse in galanteria con Tommaseo, le accompagnava a spasso ogni giorno; più specialmente, poichè la figlia pizzicava di donna superiore, con aspirazioni d'arte tutte moderne, egli si era prefisso d'introdurla sotto il suo patrocinio nel movimento politico, artistico, letterario, dalla Consulta a Palazzo Braschi, dalla Minerva alla Camera, alla Sapienza, alle Accademie dei Lincei e di Santa Cecilia, negli studi dei pittori più in voga, negli uffici dei principali giornali, scuoterle di dosso quel po' di polvere archeologica e papale che a Roma ci infarina tutti appena arrivati, addomesticarla alla vita organica della Roma nuova. In ognuna di coteste visite fioccavano le presentazioni, secondo i momenti e secondo il capriccio di Nicoletta altre puramente cerimoniose e passeggere, altre su due piedi cordialissime, di punto in bianco preconizzate a tramutarsi in oneste amicizie per poco che un aspirante volesse giuocar la carta; e gli aspiranti di buona volontà era troppo naturale che venissero come fringuelli al richiamo.
– Insomma – domandò Claudio Priol, corrispondente di quaranta gazzette e a tempo perso segretario al Ministero non so se dei Lavori pubblici o dell'Agricoltura, volgendosi direttamente a Marco Cybo come quello che più d'ogni altro poteva rispondergli con cognizione di causa – insomma, questo signor marchese Carbonara si batterà con Giannino?
– Non si batterà –– gridarono due voci ad un tempo dai capi opposti della tavola.
– Un cameriere segreto del Papa sarebbe nuova che incorresse nella scomunica!
– La Chiesa mette il duello tra i peccati mortali, ma non lo fulmina di scomunica – sentenziò Claudio Priol, – la scomunica è riservata ai delitti contro la fede, contro le persone del clero, e agli attentati ai beni temporali del clero.
– Leggete il Sillabo: tra le duecento o trecento proposizioni condannate dal Sillabo è compreso il duello: anathema sit....
– Il Sillabo non ci ha che fare, non si occupa che di politica e di politica ecclesiastica. Del resto, me ne appello al marchese Cybo che ne sa più di noi in questa materia: c'è o non c'è la scomunica per chi si batte in duello? dica lei.
– C'è, c'è! – strepitarono i contradditori.
– Lasciate parlare il marchese.
Era la seconda volta che Claudio, nell'intento probabile di stuzzicarlo, tirava in ballo Marco Cybo come alla tavola di don Rodrigo costui voleva appellarsi al giudizio del padre Cristoforo, senonchè l'onorevole Rizzabarba, il quale aveva letto Pascal, stava discutendo con Tommaseo, e fu la sua voce quella che dominò:
– Non dico d'intendermi molto di teologia, appena quel tanto che è sufficiente per sapermi rassegnare alle cinque o sei scomuniche vaticane che mi piombarono addosso come uomo politico e non mi tolgono nè l'appetito nè i sonni tranquilli, ma affermo che se il Carbonara per puro scrupolo di coscienza rifiuta di battersi col Monte Vergine, ignora la dottrina dei gesuiti sul duello, e i gesuiti, lei me lo insegna, senatore, i gesuiti sono infallibili più del Papa.
– Purtroppo! – sospirò Tommaseo, giansenista senza saperlo.
– La dottrina è la seguente: tutto sta nell'intenzione; sottolineate bene questa parola, intenzione; il duello è proibito dalle leggi canoniche, ma se io accetto la sfida coll'intenzione di non battermi, accettando non commetto neppur l'ombra d'un peccato veniale; vado sul terreno a quella data ora, ma se ci vado coll'intenzione non di battermi bensì di difendermi se sono aggredito e mi metto in guardia e mi difendo e nel difendermi ammazzo il mio avversario, dov'è il male? in che modo contravvengo a una proibizione della Chiesa? esiste forse una legge la quale mi vieti o m'imponga d'andare a passeggio in un sito piuttosto che in un altro o possa negarmi il diritto di legittima difesa?
A questo punto uno stenografo della Camera avrebbe annotato sul suo taccuino, fra parentesi: ilarità prolungata e vivaci commenti. Ridendo anche lui, e più forte degli altri, l'onorevole teologo conchiuse:
– Altra teoria gesuitica: levar dal mondo un miscredente è un'opera meritoria. Ciò posto, se il Carbonara, d'una meticolosità capillare in fatto di obbedienza a tutti i precetti ecclesiastici, avrà avuto o avrà l'ispirazione d'andare a confessarsi da un padre gesuita, non solo si batterà, ma, trattandosi di difendere la propria vita e insieme liberare il genere umano dalla presenza d'un empio, farà il possibile per infilzare il povero Monte Vergine, l'anima sua rimarrà bianca come il giglio delle convalli!
Tutti applaudirono, ad eccezione di Marco; il senatore aveva preso sul serio la burletta e si scalmanava a protestare, ma la sua voce rimaneva soffocata dallo schiamazzo:
– Adagio.... non corriamo troppo; io sono liberale e pel mio liberalismo fui esiliato dai Borboni, ma sono credente, e fatta astrazione dalla politica, la morale dei gesuiti....
– È la bugia!
– È il furto!
– È il regicidio! – interrompevano con grande clamore i commensali allegri, e gli scoppiettii s'incrocicchiavano da un'estremità all'altra della tavola.
Tommaseo agitava le braccia per farsi ascoltare.
Pure Nicoletta volle scagliar la sua pietra:
– A Kolocsa, in Ungheria, una delle mie amiche, la figlia del generale Zarka, andava a confessarsi nella chiesa dei gesuiti; era orfana, molto ricca, tre volte ricca; il suo confessore l'obbligò a entrare in convento....
– E fece in modo di beccarsi l'eredità: è il santo sistema.
– La mia amica morì dopo un anno....
– Requiem aeternam. – Vorrei essere io nelle pantofole di papa Leone – dichiarò Claudio Priol – già, sarei infallibile, impeccabile, e nessuno troverebbe a ridire. Vedreste la mia prima enciclica: riconoscimento del regno d'Italia e accettazione della legge delle guarentigie....
– Poi soppressione di tutti gli ordini monastici, cominciando dai gesuiti.
– E la mattina dopo, l'arsenico nella cioccolata come a papa Ganganelli.
– Verissimo: il cardinale Franchi non fu avvelenato dal padre Beckx perchè sospetto di liberalismo?
A sinistra della principessa Brancovenu, Marco ascoltava e avrebbe voluto esser sordo. Alzati, alzati da questo luogo d'ignoranza, d'iniquità, di bestemmia! Troppo tardi pentirsi dopo che il male è fatto; dovevi prevederlo e non lasciarti trascinare; adesso che ti giova pentirti, se colla tua presenza partecipi al peccato, se gli umani riguardi t'inchiodano fermo alla scranna, se ti manca il coraggio della tua fede e l'audacia d'una parola di protesta? Hai vergogna: di chi hai vergogna? forse di Nicoletta?
Nicoletta, accortasi in principio che Marco aveva schivato di sederle accanto, lasciandosi pensatamente pigliare il posto da Priol, gli teneva il broncio e non lo guardava. Sua madre invece, poichè lo strepito delle voci non era più così assordante da impedire ogni altro dialogo, conversava piano con lui, gli chiedeva notizie della sua famiglia e dei suoi viaggi; domande recise, a lunghe pause, in apparenza per cortesia di circostanza, ma in fondo curiosamente scrutatrici, e Marco rammentò che su per giù le stesse domande ella gli aveva rivolto la prima sera della presentazione, tenendosi vago nelle risposte, intento a spiare il chiacchiericcio affettato di Nicoletta coll'onorevole Rizzabarba e più ancora con Priol, suoi vicini di sinistra o di destra.
Un senatore, un deputato, un giornalista, altri Tizi e Semproni occupati da un'alba all'altra a crear ministeri e a disfarli nella loro fantasia, rotti a tutti gli intrighi del dietroscena politico, ce n'era d'avanzo perchè un giorno speciale come quello, gravido d'auguste promesse, non passasse liscio, neppure in campagna, e non ostante il visibile tedio delle signore, senza doppia zavorra di politica: l'eredità del ministero Depretis da liquidare, il programma di Crispi, nuovo capo del governo, la spedizione San Marzano in Africa contro Re Johannes per vendicare l'eccidio di Dogali, altrettanti temi, indicati nel discorso della Corona, da ricamarci sopra le più sbrigliate variazioni, e non ultimo il ritorno all'età dell'oro, inaugurato dal ministro Magliani. Di gridar forte come se disputassero e si abbaruffassero, l'avevano nel sangue, pure essendo tutti d'accordo; Claudio Priol, al diapason che segnava sempre l'ottava alta, aggiungeva il metallo ingrato e stridente della sua voce, rauca, tartarea come una tromba di mail-coach un giorno di corse, ma questa volta in aperta opposizione nientemeno che con Venceslao Rizzabarba, suo amico e patrono, si permetteva d'uscir fuori addirittura dalla grazia di Dio: dopo che le nostre truppe erano partite piene d'entusiasmo per infliggere a Ras Alula una stangata coi fiocchi e conquistar l'Abissinia, quell'accenno nel discorso della Corona a una probabile mediazione inglese, lui non poteva mandarlo giù.
– Sono ministeriale – urlava – e me ne vanto, e lo provano i miei articoli quotidiani e le mie corrispondenze a tredici giornali di provincia – tredici, il mio numero sacro! – ma fargli dire, al Re, che speriamo nell'intervento dell'Inghilterra per conchiudere la pace, è un fargli dire che abbiamo paura....
– Nient'affatto! Crispi, a proposito dell'Africa, al banchetto di Torino, fu esplicito, ebbe delle frasi fin troppo ardite.... c'eri anche tu e devi convenirne. Il linguaggio della prudenza....
– ....Abbiamo paura!
– ....il linguaggio della prudenza, nella nostra posizione, dopo un disastro....
– Non fu un disastro, fu un agguato!
– ....ci mette al coperto in faccia all'Europa e se ricusassimo la mediazione che l'Inghilterra ci offre....
– Ti dico che abbiamo addosso una tremarella maledetta di buscarne delle altre, dopo quelle toccate a Dogali dai famosi quattro predoni di Robilant, ecco!
– Il generale Robilant era l'ambasciatore d'Italia a Vienna – accennò come per variazione interlocutoria, usando un suo italiano di fantasia – nei suoi saloni dell'ambasciata dava dei balli ravissanti. Io l'ho conosciuto giustamente ad una delle sue grandi feste: tutta la corte, l'imperatore, gli arciduchi.... – Era.... era.... come si dice “manchot?”
– La prudenza, quando si tratta di popoli barbari, io non la capisco – proseguiva Claudio Priol, sempre più riscaldato – e non la capisce neppure il paese. Con quel discorso il ministero mancò di tatto: vedrai domani la stampa!
–– Me ne rido io della stampa! dal '76 – non parlo dei tempi preistorici di Cavour – dal '76 la Corona non pronunciò un discorso più abile e più leale!
– L'avresti scritto tu?
– Non so nulla. Ripeto e sostengo....
– La prendi troppo calda: l'hai scritto tu! o se non l'hai scritto, l'hai riveduto e corretto.... almeno per la parte stilistica.
– Non so nulla.
– Non so nulla.
Avesse Priol imbroccata la verità, era chiaro che Rizzabarba, pigliando a cuore la difesa di Crispi e del ministero, egli, scettico, che sul serio non parlava mai, aveva le sue ragioni ed ora si schermiva a bella posta colla debolezza d'un fanciullo.
Secondo tentativo di Nicoletta:
– Chi era la dama abbigliata di rosso, nella loggia del corpo diplomatico?
Ma Claudio martellava più forte il suo chiodo:
– Sia pure farina del tuo sacco, non mi disdico: colla vostra prudenza avete voluto far credere che il paese abbia paura; siete voi altri che avete paura, non è il paese: è Crispi!
– La parola “paura” nel dizionario di Crispi non c'è!
– Si vede che aspiri a un sottosegretariato di Stato: l'avrai, non dubitare, e io te l'auguro – se non altro sarò uno dei tuoi moretti e mi farai ottenere una promozione per merito – ma se prima della fine dell'anno San Marzano non ci manda giù Ras Alula impagliato, mi rincresce di dirtelo, al potere non farai ossa lunghe nè tu nè il tuo principale.
– Vedremo!
– Vedremo, anzi non vedremo niente, perchè San Marzano avrà più giudizio di voi e senza aspettare i comodi dell'Inghilterra, in quattro salti e con quattro cannonate farà tabula rasa dell'Etiopia. Tabula rasa! e allora si parlerà di mediazione, avete capito? solamente allora!
Tanta era l'enfasi squillante del capitano Terremoto, che, turandosi le orecchie con un gesto comico di spavento, Nicoletta si alzò e, approfittando del posto vuoto lasciato da De Martino ogni cinque minuti per accudire ai fornelli, venne a rifugiarsi a sinistra di Marco Cybo.
– Facciamo la pace? – gli disse, sorridente – facciamo la pace? – ripetè una seconda volta, più piano, sorridente e tentatrice.
– Signorina Friscka – gridarono a un tempo, allargando le braccia supplichevoli, il deputato e il suo vittorioso contradditore nel vederla staccarsi da loro e percorrere il giro della mensa – signorina Friscka, che cosa fa? non ci abbandoni!
– È un tradimento! – soggiunse il deputato.
E Claudio declamò in tono melodrammatico, levatosi in piedi e colto da una reminiscenza della Cronaca Bizantina:
– O madonna Isaotta Guttadauro, palpiti il vostro sen con più veloce ansia ai richiami della nostra voce....
Ma la signorina Friscka sedette vicino a Marco:
– La vostra voce è terribile – rispose a Claudio, colla gaiezza cristallina d'una bella risata tramutando in celia la verità – ....è più che terribile! perdono.... non vorrei offendervi, può essere che l'espressione vi sembri un poco forte: come direste voi in italiano.... comment diriez-vous, monsieur Priol, que votre voix est assommante comme votre politique?
A Friscka – poichè nel suo piccolo cenacolo di esser chiamata Friscka, come in famiglia, ella ci teneva – tutto era concesso; le sue stranezze, i suoi capricci, le sue impertinenze, i suoi scatti, lungi dal farle torto, erano miracoli di grazia e di bizzarria per tutti quelli che l'avvicinavano, forse perchè davvero nella freschezza del riso, dello sguardo e della voce, nella spontaneità impreveduta dei gesti e delle parole rivelava quasi un'innocenza selvaggia, o fors'anche in ossequio all'aura propizia della moda. Non pertanto, fattosi verde nel visibilio generale d'ilarità onde fu accolta la stoccata, Claudio Priol osò rimbeccare – galantemente – ma osò.
Diciamo meglio: in salsa agrodolce, fu abbastanza galante l'esordio, una specie di madrigale a denti stretti; quanto alla rimbeccata, andò confusa in un immenso fracasso di stoviglie fracassato dietro le spalle del senatore Tommaseo, una pila di piatti, altissima, che l'ostessa aveva sulle braccia e, non si sa come, d'improvviso abbandonò.
All'urlo dell'ostessa si aggiunsero gli strilli delle signore e il gridar degli uomini; taluni, i più lontani, si alzarono per veder cosa fosse successo, e quel breve scompiglio d'allegria fece divergere la conversazione.
– Poco male, non si è persa che la fattura – esclamò il pittore De Martino nel recare egli stesso in tavola, superbo e glorioso a vedersi, il gallinaccio garofonato alla romanesca.
– La colpa è del senatore – saltò su Rizzabarba – l'ho visto io coi miei occhi dare un pizzicotto a Brigidina, e Brigidina, manco male, che se non l'aspettava, lasciò andar tutto per le terre. Senatore, non protesti, è inutile; conosciamo le sue prodezze. Dillo tu, Brigidina, invece di raccogliere i cocci, chè tanto la macchina per riattaccarli insieme, ai Tre Ladroni non c'è; dillo tu: non è vero che quel signore, il più giovine di quanti siamo qui, ti ha dato un pizzicotto, e forte, mentre gli cambiavi il piatto?
Il senatore no certo, a malgrado delle sue chimere intermittenti, ma qualcun altro della comitiva, forse più d'uno, si era preso il facile arbitrio di non tenere a posto nè la lingua nè le mani, e Brigidina non aveva punto la coscienza fulgida, almeno a giudicarla dal colore scarlatto delle sue guance e più di tutto dal suo sorriso vergognoso e malizioso ad un tempo. Fu una gara a chi le rivolgeva la barzelletta, a chi, senza riguardo per la dignità senatoriale, qualche volta passando i limiti della burla, meglio colpiva il bersaglio in persona dell'esilarante Tommaseo, fin troppo ringalluzzito.
– Parlatemi – disse sottovoce Nicoletta a Marco Cybo – perchè non mi dite nulla? vi faccio paura o non sapete cosa dirmi?
Volgendo a Marco il discorso, tanto la principessa Brancovenu come sua figlia non gli parlavano che in francese.
– Vi faccio paura o non sapete cosa dirmi?
Egli avrebbe potuto rispondere: son vere le due supposizioni, e una dipende dall'altra; non trovo nulla da dirvi perchè mi fate paura! Ma dal cuore la verità non gli giunse alle labbra e si contentò di eludere la domanda:
– Sempre in silenzio?
– Mi conosco e so di non avere abbastanza spirito per potermi mischiare alla loro conversazione. Ascolto e imparo – soggiunse dopo un momento coll'amarezza profonda e dolorosa d'un sarcasmo che sapeva di rimprovero e il cui significato era questo: perchè mi avete condotto tra questa gente?
Il suo sguardo s'incontrò collo sguardo di lei: e anche voi, anche voi, perchè siete degna di questa gente che bestemmia e non vi rispetta?
Certo ella gli lesse negli occhi il rimprovero muto:
– Sul punto di metterci a tavola vi chiamai accanto a me; se mi aveste obbedito, invece d'allontanarvi, avremmo conversato noi due, piano come facciamo adesso, come due vecchi amici, e io non mi sarei trovata in obbligo d'ascoltare tante sciocchezze, e quel che è peggio, per non parere un'oca, di ripeterne anch'io altrettante.
Marco mendicò una scusa, pur sapendo ch'era una mezza bugia:
– Più fortunato di me, fu il signor Priol che mi prese il posto.
– Il signor Priol fu più svelto! – ribattè Nicoletta, e i suoi occhi balenarono.
– Non nominare il nome di Priol invano! – si mise a gridare Claudio Priol, che aveva udito proferire il suo nome e non gli sembrava vero di cogliere la palla al balzo per pigliarsi la rivincita dello scacco – signorina Friscka, non le basta avermi abbandonato, coperto d'ignominia e di vituperio? Ho buone orecchie, d'accordo col mio rivale lei sta macchinando una congiura contro di me.
– Sì, la congiura di non più rispondere nè a voi nè a tutti quelli che mi annoiano – fece Nicoletta senza darsi briga di celare il suo malumore per essere stata interrotta nel colloquio con Marco, e verso Marco si volse nuovamente, dopo che con manifesta scortesia deliberata spostò la scranna in guisa da voltare il dorso all'interruttore.
Claudio non fiatò, seguì per tutta la tavolata un silenzio più d'imbarazzo che di stupore; in un linguaggio ignoto, le Brancovenu si scambiarono poche parole, agre e sommesse, dalle quali però tutti quanti compresero che la madre rimproverava alla figlia la scorrettezza del contegno. Fu Rizzabarba il primo a rompere il ghiaccio:
– Chi di voi ha visto questa mattina nella tribuna diplomatica la baronessa Naim?
– La baronessa?...
– Naim. Se non erro, lei, signorina Priscka, l'ha osservata; del resto, impossibile non osservarla: vestita di rosso, nient'altro che di rosso da capo a piedi, era la calamita di tutti gli sguardi e somigliava a una Proserpina d'operetta. Nessuno sapeva chi fosse; neanche lei, senatore Tommaseo, e neanche tu, Priol, ci scommetto.
Ripreso il dialogo con Marco, senza badare alla narrazione della dama vestita di rosso, gli domandò Nicoletta:
– Restate ancora qualche tempo a Roma?
Marco non ebbe un attimo d'incertezza:
– Fino a domani – rispose immediatamente, quasi che la partenza potesse essere più pronta quanto più pronta era la risposta – domani debbo partire senza fallo.
Intravide bensì il conte di Castelborgo che attendeva da lui gli fosse resa giustizia, il cardinale Schiattino e il padre Cornoldi che per ripetute istanze si erano lasciati indurre a nuove promesse in favore del conte e forse, se egli rimaneva ancora qualche giorno, erano sul punto di mantenerle; intravide il novizio di vigna Sabina che un'ultima volta lo chiamava vicino al suo letto, ma la risoluzione ora irrevocabile: nel brevissimo tempo dacchè quella creatura gli stava a fianco e non gli aveva detto che poche parole assai semplici, si era sentito come travolto in una spira di stregoneccio; rapidamente gli passavano davanti la commemorazione funebre di Pio IX, l'udienza papale, il pranzo e la serata della duchessa d'Olevano, l'apparizione del ritratto di Friscka tra le oscene reliquie di Paolino Carbonara, i gesti e l'invito di Nicoletta, altrettante volute della medesima spira, e se ora tanta forza gli rimaneva per non abbandonarsi, questa trovava nel deliberato proposito della fuga.
Intanto Venceslao Rizzabarba compiacevasi di raccontare i portenti della sua dama rossa:
– Astraudi e Santa Luce, i soli che la conoscano tra quelli che a Montecitorio me ne parlavano, pretendono che ella tocchi, anzi non tocchi più, la cinquantina; Santa Luce le fu presentato a Londra nel '67, dice lui, e non solo era divorziata dal primo marito – nel '67! – ma già vedova del secondo, con figli abbastanza grandicelli. Voi altri l'avete vista: vi è sembrata una donna di cinquant'anni? a occhio e croce io gliene avrei dato ventotto o trenta, proprio volendo essere generoso nella malignità!
– Con questa differenza: Ninon de Lenclos era sapientissima e abilissima in acque e unguenti superlativi, invece la baronessa Naim pare che non si giovi affatto di mezzi materiali; Cagliostro femmina, il dono della gioventù, prorogata non sappiamo fino a quale scadenza, l'avrebbe ricevuto con diploma autentico di potenze invisibili, domiciliate al di là, fuori della nostra provincia terrestre; in altri termini, dagli spiriti.
– Nientemeno!?
– Nientemeno.
– Sarebbe spiritista la tua baronessa?
– Spiritista, magnetizzatrice, teosofa, taumaturga. Santa Luce l'ha definita il Budda d'Occidente. Nell'America del Nord, in Inghilterra, nel Belgio, ha una riputazione gigantesca e perfino degli adoratori. Intendiamoci, relata refero. Noi in Italia facciamo gran caso di Donato: che Donato! Donato è uno scolaretto, al confronto della Naim. La Naim opera i prodigi più strani e meravigliosi, come noi accendere una sigaretta, sul gusto di quelli dei fakiri dell'India: non vi parlo d'ipnotismo nè di trasmissione del pensiero nè di tavole giranti che ballano la furlana per la stanza o rispondono alle vostre interrogazioni mediante un linguaggio convenzionale di scricchiolii o di colpi....
– ....non vi parlo d'armonie vagabonde per l'aria nè di pianoforti che vi strimpellano il valzer My Queen, sebbene chiusi ermeticamente: scherzi da bimbi; ma per esempio, sviluppo in pochi minuti d'un seme che germoglia, diventa pianta sotto i vostri occhi, mette le foglie, e fiorisce; fenomeni d'ubiquità e di chiaroveggenza, apparizioni visibili o tangibili di persone lontane o morte, traslazione degli individui in tutt'altra parte del globo....
– Ci credi, tu?
La domanda era superflua e Rizzabarba crollò le spalle, non degnandosi nemmeno di rispondere.
Breve pausa. Quando in una conversazione accade che si venga a discorrere di spiritismo, dapprima la grande maggioranza dei presenti sghignazza e non ha parole che bastino per proclamarsi incredula, ma a poco a poco le voci si affievoliscono intorno all'oratore e tutti spalancano le orecchie con un senso di curiosità perplessa, molto simile alla paura che qualche cosa di vero ci sia. Nicoletta che non aveva replicato a Marco una sillaba per indurlo a non partir da Roma così presto e saltando di palo in frasca gli cinguettava le più adorabili fanfaluche non senza un lontano sapore d'acrimonia, s'interruppe per ascoltare anche lei la filastrocca dei portenti.
– Trattandosi di spiriti, è troppo naturale che oltre queste meraviglie la baronessa possa pure ottenere l'elisir di gioventù o di lunga vita – esclamò qualcuno.
– O magari l'elisir d'amore – soggiunse un altro.
– Bisticcio per bisticcio, vi dirò che Santa Luce al suo solito, mi lasciò nelle tenebre circa diversi punti che avrei voluto fossero illuminati – seguitò Rizzabarba – e dai suoi prolegomeni, interrotti sul più bello, non ho ben capito quali relazioni d'affinità corrano tra il Budda indiano e lo spiritismo di Allan Kardec; la parte teosofica bisognerà che me la faccia spiegar domani, durante l'elezione del Presidente.
– Ora mi ricordo – gorgogliò nelle caverne dello stomaco la voce del senatore Tommaseo, e pareva che svegliato di soprassalto da una profonda meditazione taciturna, il baleno d'un lampo gli avesse riacceso la memoria – Santa Luce ne fa sempre delle sue: ha confuso insieme madame Blavatzki e la baronessa Naim; già, prima di tutto, la Naim è morta.
– Morta!? – fu l'esclamazione unanime del coro.
– Almeno quella di cui intendo parlare.
– Lei l'ha conosciuta, senatore? – chiese l'onorevole, alquanto impermalito che un altro ne sapesse più di lui.
– Ho conosciuto madame Blavatzki e la Naim, che allora si chiamava, mi pare, Annie Morgan, anzi le ho conosciute insieme sul piroscafo, tornando dall'esposizione di Filadelfia; a quei tempi erano come sorelle, però, la Morgan molto più giovane, e appunto predicavano una nuova religione inventata dalla Blavatzki, un miscuglio stravagante di otto o dieci religioni, raggruppate intorno alla metafisica di Budda. Volevano convertire anche me, figuratevi! Di miracoli io non ne vidi; se ne parlava a bordo, ma io non ne vidi.
– Sempre così, tutti ne parlano, tutti ne hanno inteso parlare, ma quanto a vederne è un altro discorso.
– Più tardi, in Inghilterra si separarono, nemiche acerrime; il perchè non lo so. La Morgan, o la Naim se vi fa piacere, che si era già convertita una dozzina di volte, ebrea di nascita, poi cattolica ardente, poi protestante di non so quante sêtte, atea, feniana, buddista, tornò in Irlanda nel partito dei feniani, pubblicò contro la sua maestra vari opuscoli violentissimi che fecero chiasso, accusandola apertamente di ciurmeria, e fu allora che cambiò nome e prese quello di Naim; il titolo venne molto più tardi; forse l'ebbe da uno dei due mariti.
– Senatore, lei è il dizionario ambulante del Larousse.
– Notizie che mi diede la stessa madame Blavatzki, quand'ebbi occasiono di rivederla a Palermo in casa Scalea, sarà un paio d'anni, e creda che quella sera in casa Scalea ci fosse pure Santa Luce. Del resto, l'equivoco non sarebbe in tutto spropositato, perchè, come mi diceva la vecchia Blavatzki, quasi subito dopo il ripudio la sua antica neofita era tornata alla propaganda, se non della religione, almeno della scienza occulta.
– Questo significa che fu toccata nuovamente dalla grazia e si convertì per la tredicesima volta. Ma lei non ci ha annunciato poco fa che era passata a miglior vita?
– Allora, signori miei, un portento di più da registrare col carbon bianco della fede: una morta risuscitata, nè più nè meno! Vedere per credere! o tutti possiamo vederla, chè questa sera, in carne ed ossa, nei salotti di mistress Pears al Babuino....
– Son vecchio amico di mistress Pears.
– Tanto meglio, vada a trovarla questa sera e avrà il gaudio di assistere a una seduta monstre....
– Andiamoci, andiamoci – interruppe Nicoletta, sempre pronta alle novità.
– ....a un'accademia spettacolosa di occultismo e spiritismo trascendentale, offerta dalla signora baronessa Naim, con morti risuscitati, lei per la prima, incarnazioni e fuochi di Bengala, e relativa pelle d'oca.
– Tutte imposture; io non ci credo.
– Si convincerà; la signorina Friscka pare già convinta fin d'ora. Ad ogni modo, nessuno mi leva dalla testa che a bordo, durante la traversata da Filadelfia in Europa, lei non abbia avuto il suo bravo romanzetto. Non le sorride l'idea di rivedere dopo tanti anni, sempre giovine, sempre bella e affascinante, risorta dalla tomba, la sua compagna di viaggio?
Sorridesse o no al senatore questa idea, io che scrivo non potrei affermarlo, per quanto più d'una volta egli m'abbia onorato di certe piccole confidenze; il fatto è che non rispose, stringendo gli occhi già abbastanza forati in cruna e con un gesto impagabile di malizia arricciandosi gli ultimi residui delle sue appariscenze giovanili. Tuttavia ritengo che, non ostante l'attrattiva di rileggere colla rossa Proserpina un capitolo o due del loro presunto romanzetto marittimo, la sua vecchia amicizia con mistress Pears non fosse tale da consentirgli d'intervenire al sabba degli spiriti senza essere stato invitato, poichè non valsero a determinarlo pel sì le replicate preghiere e nemmeno i capricci di Nicoletta.
Oramai sappiamo che quando Nicoletta si era fitta un chiodo in tosta, non c'erano tenaglie al mondo che potessero strapparglielo.