Remigio Zena
L'apostolo

XIV.   De imit. Chr. Cap XLVI

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XIV.

 

De imit. Chr. Cap XLVI

 

A cotesta lettera di Marco Cybo il padre Albis non rispose.

 

Partito da Roma esasperato il conte di Castelborgo senza aver ottenuto udienza dal Santo Padre, Marco, che era solito pranzar con lui tutte le sere da Corradetti in via della Croce e poi per un paio d'ore tenergli compagnia passeggiando o nel caffè deserto di San Luigi dei Francesi, sentì come infranta l'illusione dell'opera di carità per la quale non si era più mosso da Roma, si sentì solo, estraneo dentro Roma al movimento cattolico che preparava le feste giubilari.

Già si sarebbero dette iniziate, sebbene mancasse più d'un mese: ambasciatori straordinari giungevano dalle corti d'Europa recando i doni sovrani dei Sovrani, recando doni giungevano pellegrini da ogni parte d'Europa, vescovi e patriarchi li conducevano; i circoli e le associazioni romane non quietavano dall'apparecchiare ricevimenti sontuosi nei palazzi e funzioni sacre nelle chiese, le accademie pontificie raccoglievano ghirlande da appendere nei loro boschetti Tiberini e d'Arcadia, il lavoro per l'Esposizione vaticana ferveva nel cortile della Pigna, nei corridoi delle Carte geografiche e degli Arazzi, dove le casse di doni venivano ammonticchiandosi di giorno in giorno; ieri Concistoro segreto, oggi il pellegrinaggio ungherese guidato da monsignor Simor, domani i decreti di canonizzazione dei sette Beati, fondatori dell'Ordine dei Servi di Maria; una pioggia d'opuscoletti inneggianti, un moltiplicarsi di fervorini sulle porte delle chiese, un eterno argomento nei salotti e nelle anticamere e nelle sacristie o su pei giornali di tutte le tinte, e lui, Marco, a Roma, in mezzo a questo fermento di vita cattolica, era incatenato a Roma da un pensiero solo, dal pensiero profano di una donna!

Il coraggio gli era venuto meno di tornare come prima alla casa di Monte Mario a visitare il povero novizio infermo senza speranza, il suo amico, il suo compagno d'adolescenza e di studi, Voltagisio. Quante mattine, come un'ispirazione, una voce interna l'aveva svegliato di soprassalto, altrettante volte si era ribellato a quella voce che gli suggeriva di confidarsi nel morente: domani, domani, non oggi! e tutti i pretesti bastavano e tutte le scuse e tutti i sofismi per differire da un giorno all'altro; in realtà, aveva paura del morente.

Sua madre e sua sorella gli scrivevano da Beaumesnil, insistendo perchè si affrettasse a raggiungerlo e tornare insieme a Genova nella loro villa invernale d'Albaro; da Genova lo sollecitavano Rodolfo Spinola, Cristoforo Torre e anche l'avvocato Visdomini; a tutti rispondeva coll'annuncio di prossima partenza e per cavarsi d'impiccio divagava sui prolegomeni delle feste. Senonchè tratto tratto ce n'erano delle altre lettere, alle quali purtroppo non poteva rispondere, lettere anonime, ora minacciose e insultanti, ora piene d'unzione e di paterni ammonimenti spirituali, tutte, s'intende, sul medesimo tema, che gli gettavano la morte nell'anima.

Qualcuno si prendeva il gusto maligno, chi sa se per suo uso e consumo o per mandato altrui, di spiarlo, seguirlo a passo a passo: gli rinfacciava, senza omettere i particolari più piccanti, la gita fuori porta all'osteria dei Tre Ladroni, versando sulla comitiva gran lepidezza di sarcasmi; sapeva dirgli per filo e per segno con mirabile precisione quella tal mattina come si fosse recato alla Scala Santa e a Santa Croce di Gerusalemme, quell'altra al Carcere Mamertino, quell'altra alle Catacombe di San Calisto, sempre apostolicamente facendo sia da cicerone sia da buon pastore “a una pecorella smarrita”. Ma per la pecorella erano le frecciate più acute e più velenose: donde veniva? chi l'aveva vista la sua fede di battesimo per poter credere all'autenticità dei suoi augusti natali, del suo nome e del suo titolo? quella cima d'uomo ch'era il senatore Tommaseo, forse? e l'autenticità matematica d'un altro titolo, quello, diremmo così, che sui biglietti da visita non si stampa, chi la garantiva? Beatissima lei, la pecorella! Tra il farsi condurre all'ovile di santa romana chiesa da un padre gesuita assaettato o da un cappuccino colla barba bianca e lo scegliersi per buon pastore un giovinotto milionario che se la caricava sulle spalle senza cercare il pelo nell'uovo dei tempi passati, c'era una bella differenza.

Claudio Priol! un bimbo l'avrebbe indovinato: per astio di gelosia e a sfogo di rabbia, simili infamie non potevano essere state scritte che da lui, assai probabilmente con intenzione d'aprirsi la via a un ricatto, da lui che posto tra l'uscio e il muro di sborsare al marchese Cybo quelle tre miserabili centinaia di lire che l'onorevole Rizzabarba gli aveva appioppato con destrezza o di rinunciare a mandargli i padrini, aveva eletto il partito più semplice di fare il morto. Claudio Priol: argomentando dalla scena avvenuta tra loro due, Marco non conosceva altri all'infuori di lui che gli nutrisse rancore. Certo, la sera della scampagnata, dopo l'avventura quasi comica del rovesciamento per le terre, Priol e Rizzabarba avevano trovato in carrozza il pacco contenente gli oggetti di Paolino Carbonara, dimenticato da Marco nella furia di scendere per dar soccorso ai caduti, l'avevano aperto, rovistato, portato via; apparentemente non c'era alcun nesso tra questo fatto e le lettere scellerate, ma, forse ad insaputa di Rizzabarba, non senza il suo perchè e con un secondo fine, Priol si era guardato bene dalla restituzione.

Più Marco Cybo tentava sforzarsi alla noncuranza e più lo stesso pensiero, sempre quello, gli si inchiodava nel cranio, l'atroce dubbio era il tormento assiduo dei suoi giorni e delle sue notti: e se fosse vero!? Ecco il castigo terribile di Dio. Se cotesta donna mentisse ora come può aver mentito pel passato e non fosse che un'avventuriera simulatrice? Le mezze parole di monsignor della Stanga sul conto della madre e quelle più esplicite del pittore De Martino, il tentativo non riuscito d'escludere madre e figlia dal ricevimento pontificio, confermavano il dubbio. Se fosse vero! Talvolta in camera sua Marco afferrava il ritratto di Nicoletta Brancovenu, e immerso in una contemplazione dolorosa, lo fissava a lungo, quasi avesse voluto penetrare il mistero della sfinge, e assalito da un tremito, le mani scuotevano iraconde il cartoncino: la verità! voglio la verità, la voglio da te! ma parlami, in nome di Dio! – L'imagine sorrideva. – Talvolta, trovandosi solo con Nicoletta, improvvisamente ammutoliva, suo malgrado assorto nello scrutinio.

Perchè mi guardate così, con quegli occhi? – gli domandava Nicoletta.

La voleva da lei la verità, Marco Cybo, voleva leggerla nel suo sguardo, voleva sentirla confessare dalla sua bocca. – Scrivete a Vienna, dove il mezzo non vi manca d'assumere informazioni certe, gli avrebbe suggerito qualunque persona a cui si fosse confidato, andate da monsignor della Stanga e carte in tavola, senza tante restrizioni, spifferi le cose come stanno, oppure, voi che avete porta aperta in casa dei gesuiti, raccomandatevi ad essi, hanno la loro polizia segreta eccellente, sparsa nelle cinque parti del globo, e subito vi toglieranno questa spina dal cuore. Ma se col padre Albis egli si era confessato, senza tuttavia svelargli il nome dell'orfana, a nessuno mai si sarebbe rivolto per attinger notizie: titoli e beni di fortuna poco gli importavano, quanto al resto, toccava a lui indagarlo e non servirsi dello spionaggio di alcun mediatore, laico o religioso, gettando in pascolo alla curiosità e alla maldicenza, all'invidia di molte madri, il nome d'una fanciulla, necessariamente rivelando a terze persone un segreto che con ogni cura si studiava di nascondere a tutti e più di tutti alla stessa Nicoletta.

Suvvia, ragioniamo: o non era piuttosto l'ansietà che lo tratteneva, il presentimento che una voce irreparabile venisse a confermargli il sospetto, e così a un gran dolore immediato che avrebbe potuto essere la liberazione, preferiva un supplizio lento, per aggrapparsi a un filo di speranza? E sieno pure ingenui gli innamorati e anche lui, secondo la legge, avesse la sua buona parte di semplicità credula e cieca, tanto si sarebbe illuso da pensare sul serio che come in uno scrigno il suo segreto fosse rimasto custodito ermeticamente? bastava uno solo che l'avesse trapelato, Claudio Priol o qualunque altro, perchè diventasse il segreto di Pulcinella. Si era imposto l'osservanza del più scrupoloso riserbo, non metteva piede in casa Brancovenu, mai, non ostante gli inviti ripetuti, di giorno di sera, arrischiandosi a raggiungere Nicoletta nelle sue escursioni suburbane solo dopo essersi accertato che poteva dissimularsi nella compagnia d'altre persone, e ciò malgrado, quando entrava nel salotto della duchessa d'Olevano tutti gli sguardi gli si appuntavano addosso, pieni d'una curiosità quasi impertinente, e il sorriso furbesco di Tommaseo e le premure maliziosette della padrona di casa non possedevano tanta furberia tanta malizia da celare un secondo pensiero. E Nicoletta? vogliamo dire che ella non avesse compreso, solo perchè non gli era mai sfuggita una parolina dolce e una tenera occhiata durante i loro colloqui e di notte egli non passeggiava su e giù in sentinella per via Gregoriana sotto le sue finestre? Oh anima sciocca! che ella si adattasse a certe elucubrazioni archeologico-cristiane e a certe conferenze ascetiche pel ghiribizzo d'uno sport alquanto diverso dai soliti in cui era maestra, nulla di più verosimile, ma che non si fosse accorta della ferita di lui e nel cuore non gliel'avesse esplorata sanguinante e viva come a vederla dipinta in un cuor di Gesù, nemmeno a stamparlo su pei lunari! Intanto le apparenze erano tali che avrebbero fatto saltar di gioia tutti i Romei spasimanti; ella lo cercava, non acconsentiva a staccarsene finchè non era lui il primo a dare il segnale e avrebbe voluto ancora trattenerlo; umile e sottomessa, non perdeva sillaba dei suoi catechismi; ogni volta, come se non l'avesse visto da cento anni, lo accoglieva con un sorriso di luce nello sguardo salutandolo e venendogli incontro con un gesto giulivo di bambina; la sua stretta di mano, nel dargli il benvenuto e il comiato, rinnovava ogni volta la soavità d'una lunga carezza, la fede misteriosa d'una promessa inviolabile.

Taci, sei la voce della carne e del povero raziocinio umano, non sei la voce della coscienza. Taci. – Quando pareva che a poco a poco l'animo di Marco si adagiasse volentieri, come per riposarsi, in una fiducia indulgente e rassegnata, se non erano le torture del sospetto che venivano ad assalirlo, erano quelle dello scrupolo, o, peggio ancora, del rimorso. Così presto era dunque svanita la sua vocazione? per convertirla in fumo era bastato l'alito d'una donna. Il castigo di Dio non si faceva aspettare: forse era un ammonimento, forse l'ultimo, prima dell'abbandono. – La lettera al padre Albis, il suo maestro d'un tempo e oggi il suo pilota spirituale, egli l'aveva scritta lealmente, con tutto l'ardore dei suoi entusiasmi sinceri di missionario, ma non era che un cumulo di sofismi e ingannando non si era accorto che mirava a ingannare il confessore; sotto la scorza, che colava i meschini arzigogoli d'uno zelo apostolico molto opportuno, all'uomo esperto non era certo sfuggito da quale sentimento umano fossero inspirati, e non aveva risposto. Il rimprovero del silenzio! – E così, larvato da questa nuova ipocrisia d'evangelizzare le anime, senza misurare le sue forze l'imminenza del pericolo, arrogandosi di sua autorità un mandato che nessuno gli aveva conferito e interpretando secondo la propria passione il volere di Dio, l'uomo non aveva esitato a pronunciare egli stesso la sua contumacia dall'arca santa, a spezzare d'un colpo i voti maturati dalla adolescenza. Ecco il rimorso! Oh Signore, Signore non altrimenti fu il rimorso del giovinetto di Galilea che la grazia condusse a Gesù Cristo fin sulle rive del Giordano e udita la vocazione: sequere me, pianse invece di rispondere e non seppe staccarsi dalle vanità della terra! Oh Signore, che gli giovarono le sue lagrime?

 

Rare volte nelle passeggiate mattutine la principessa Brancovenu era della partita: d'arte non le piaceva intendersi, mettersi in giro col levar del sole per visitare ruderi e chiese o poi altri ruderi e poi altre chiese, usciva troppo dalle sue abitudini di rimanere a letto fino a mezzogiorno; se una o due volte, per compiacenza, si era lasciata indurre, non se ne rammentava se non lagnandosi, con visibile ostentazione, alle serate della duchessa d'Olevano d'averci guadagnato una scalmana di noia e di fatica. Certo voleva in qualche modo giustificarsi agli occhi dei puritani – se ce n'erano – d'acconsentire che sua figlia si aggregasse liberamente alla società promiscua della pensione Cook per andare a zonzo l'intera mattinata, tuttavia Marco Cybo temeva forte di ravvisare in cotesta astensione della principessa il partito preso d'essergli avversa: sempre fredda con lui, d'un contegno tra l'impacciato e l'altezzoso, oramai, dopo la critica avventura della spelonca di Scorpione, abbondantissimo tema pel circolo solito ad arguzie più o meno felici, pareva che ella gli leggesse nel cuore e volesse fargli comprendere che era lontana le mille miglia dal dare il suo assenso.

Tommaseo, anche l'amico Tommaseo, un giorno, di punto in bianco, mutò registro. Non era più lui: non si capiva perchè, ma non era più lui; prima, tutto sorrisi, strizzamenti d'occhi, fregatine di mani come d'un uomo giubilante d'aver fatto lui pure qualche cosa di bello che non si azzardava a spiattellare ma che voleva lasciar intendere a colpetti di tosse diplomatica, ora per contro, all'improvviso, un sussiego artefatto, dal quale traspariva in certi momenti, discorrendo con Marco e vedendolo sempre al fianco di Nicoletta, una tristezza paterna. Nicoletta lo pigliava in giro, al solito, birichina e graziosa. Varie volte egli si studiò di trarre Marco in disparte oppure uscì a bella posta con lui di casa Olevano per fare insieme la strada, e chiacchierando del sole e della pioggia, tirare il discorso, come per incidente, sulle Brancovenu.

Giuoco fino se vogliamo, dire e non dire, masticare tra i denti e inghiottir saliva più del consueto, aggiungere nuova dose all'asma e alle reticenze abituali; giuoco sicuro, comunque inesplicabile nel senatore Tommaseo, qualora Marco Cybo si fosse tradito. Nulla: se il vecchio non cercava che un'occasione propizia per fare ammenda del suo concorso a soffiar nella fiamma, se ora non chiedeva, un po' tardi veramente, che di gettare acqua sul fuoco, l'occasione gli sfuggiva ogni volta e il coraggio gli mancava d'entrare pel primo nell'argomento scabroso.

Il peggio era questo: nel mentre l'onorevole Rizzabarba, trovandosi spesso la sera con Marco Cybo, si permetteva una familiarità di linguaggio assai disinvolta e certe enigmatiche allusioni a questa o a quella donna galante più in voga, come di prodezze e conquiste nel mondo delle gonnelle benigne avrebbe potuto discorrere con un don Giovanni, d'altra parte se gli capitava a Marco d'imbattersi per via con taluno dei suoi amici della Unione romana, per esempio il principe Romoli presidente o Aldobrandino o Giulio Bentivoglio o Pippo Campitelli, costoro giravano di lungo manifestamente, ovvero nelle sale dei diversi Circoli, non potendo scansarlo, si tenevano abbottonati in una cortesia fredda e sostenuta, troppo dissimile dalle espansioni dei primi tempi. C'eran di quelli, più maligni, a cui la gioia traluceva negli occhi di saperne delle belle sul conto d'uno dei loro perfettissimi e gli bazzicavano intorno sardonici, ora l'uno ora l'altro, d'un'aria tutta compunta richiamando l'avventura del povero Carbonara.

Mutate il nome: Carbonara non era che un pretesto; mutate il nome, farisei: Carbonara avea già servito fin troppo di zimbello ai vostri frizzi, ai pungiglioni di certi gazzettieri! – Si vorrebbe sapere una cosa: perchè certe allusioni a un pacco misterioso, trovato di notte tempo, non si sa da chi, in una carrozza? e all'adunanza solenne degli Arcadi per la festa dell'Immacolata Concezione, durante l'interminabile lettura dei panegirici e dei carmi latini e delle canzoni petrarchesche, quale motivo aveva il cronista dell'Araldo di venire a sedersi accanto a Cybo che era col padre Cornoldi, e sottovoce, ma in guisa d'essere udito dal padre, protestarglisi amico fedelissimo, devotissimo, pronto sempre a difenderlo a spada tratta contro certa gente che lo calunniava?

Et aperti sunt oculi ejus. Accade talvolta, quando meno ci si pensa che un guizzo di luce vi attraversi lo spirito: bastò una frase, sfuggita allo scriba, un accenno a certe confidenze avute da Priol, perchè immantinente ciò che era prima enigma inesplicabile, divenisse chiaro agli occhi di Marco: era lui, era lui stesso, Marco Cybo, che accusavano di aver ottenuto in dono da male femmine le turpi reliquie di Paolo Carbonara dimenticate nella vettura, e i suoi amici da una parte e Rizzabarba, dall'altra, ognuno con diverso intendimento, facevano strazio del suo nome e del suo decoro! chi aveva sparso la calunnia? non parliamo di Rizzabarba, ma nei cenacoli degli amici che ora ripudiavano il confratello, come si sarebbe propagata tanta infamia, senza i susurri del giornalista?

Leggiamo nel terzo libro dell'Imitazione di Cristo:

"Che altro sono le parole, se non parole? volan per l'aere, ma non offendono la pietra. Se tu sei colpevole, pensa all'emendazione; se nulla hai da rimproverarti, rassegnati a sostener volentieri la calunnia per amor di Dio. Come mai così piccole parole ti trafiggono l'anima, se non perchè sei tuttavia carnale e ti occupi degli uomini più di quanto è necessario? Guarda meglio in te stesso e ti accorgerai che il mondo vive ancora dentro di te e il vano amore di piacere agli uomini. Se rifuggi dall'essere vilipeso e avvilito a cagione dei tuoi difetti, questa è la prova che non sei veramente umile veramente sei morto al mondo il mondo è per te crocifisso. – Ma io sono il giudice e conosco tutti i segreti, io so come le cose si passarono, io discerno l'offensore dall'offeso, io giudicherò il colpevole e l'innocente."


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