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Qualcuno, alla Minerva, bussò pianamente contro la porta della camera dove Cybo stava scrivendo. Da oltre un mese non erano più le pagine del suo diario che una volta, salvo poche interruzioni imposte da forza maggiore, riempiva giorno per giorno con tanta schiettezza e con tanto affetto, disponendosi a registrare tutti i piccoli avvenimenti della sua vita come a far l'esame di coscienza, versando in esso tutta l'anima sua; di tempo in tempo si era ancora provato a pezzetti e bocconi a riprendere la buona abitudine, antica raccomandazione del padre Albis, ma la mente era troppo in altro modo occupata, non reggeva a fatica di studio e di penna; sedersi a tavolino gli rappresentava la tortura del cavalletto, non scriveva più che le lettere di dovere a sua madre, brevi, insipide, quando non erano un affastellio di giri viziosi per nascondere la verità.
Appunto quel giorno, collo schianto in cuore, stava armeggiando tra il non voler mentire e non voler confessare. Come se avesse indovinato la vera ragione della permanenza di lui in Roma o qualche anima zelante si fosse presa la briga di renderle conto dei diportamenti del figlio e atterrirla nella pacifica solitudine in cui viveva, sua madre gli aveva scritto da Beaumesnil la lettera più dolorosa ch'egli avesse mai ricevuto, piena di lagrime e di preghiere; maternamente dolorosa, senza rimproveri, senz'ombra d'accenno a fatti o a persone, ma trepidante di sgomento, implorante il ritorno del figliuolo.
Qualcuno bussò.
– Avanti! – disse forte Marco Cybo.
Comparve sulla soglia il senatore Tommaseo nella sua storica palandrana d'inverno, ilare come sempre, travagliato dall'asma come ogni volta che saliva le scale, massime con quella montagna addosso. Cybo gli andò incontro premuroso.
Fermo lì, fermo lì! non valeva la pena d'alzarsi: cos'erano tante cerimonie? una visita di cinque minuti. Il senatore tornava da Genova, dov'era rimasto una settimana. Grazie, non aveva tempo di sedersi, figuriamoci se si sbarazzava del soprabito: cinque minuti, orologio in mano. – Prima di tutto, la marchesa? sempre bene? sempre a Beaumesnil? le signore a Genova l'aspettavano: l'avevano nominata presidentessa dei Tabernacoli per le chiese povere. Notizie di Genova? eccellenti: era stato una sera dalla marchesa Orietta Doria, un'altra dalla marchesa Carrega, era stato al Club.... la vita solita, niente di nuovo.... cioè, si annunziava il matrimonio d'Albertina Durazzo, la figlia di Brancaleone, con un conte Melzi, milanese; un'altra: Augusto e Alberto Figoli partivano a giorni per l'Australia; erano appena tornati da un'escursione in lungo e in largo nell'America del Sud, da Venezuela alla Terra del Fuoco, ed eccoli di nuovo in barca; avevano l'argento vivo nelle ossa.
Marco pigliava gusto alle notizie genovesi, ne chiedeva delle nuove, stuzzicava con garbo la parlantina del senatore, non senza sospettare in lontananza un secondo fine. Venne in ballo Carbonara.
Carbonara? infandum regina jubes.... ossia niente infandum, perchè Carbonara passeggiava a testa alta come prima, lui e la sua barba ardente, convinto che nessuno a Genova potesse aver trapelato la sua avventura da Morteo: nientemeno! invece la fama era giunta con lui a suon di tromba, ventiquattr'ore dopo si raccontava la storia tanto al Club come nelle sacristie, da chi portata o spedita non si sapeva, ma storia autentica, precisa, con tutti gli amenicoli dell'Angiolina, della collana, della sfida, eccetera, eccetera! figurarsi lo scandalo dei ben pensanti, Rodolfo Spinola, Torre, Visdomini, eccetera, eccetera, le risate dei liberali, i sottintesi malignotti delle signore.... questo era niente: una sera, tranquillo come Battista, capita Paolino in casa Giustiniani: non si trova faccia a faccia con Monte Vergine? l'ombra di Banco! Monte Vergine era stato trasferito a Genova per dare il cambio all'ufficiale d'ordinanza del generale comandante la divisione e Mimmo Cebà, suo antico compagno di reggimento, l'aveva presentato subito in casa Giustiniani.
– Tutto passò liscio? – fu la domanda di Cybo, che più della curiosità esprimeva il desiderio.
Viceversa, viceversa! era strano che il marchese potesse illudersi, conoscendo quel bascibuzuk di Mimmo Cebá, che ne faceva sempre delle sue. Non basta voler aver dello spirito, bisogna averlo, e Mimmo non era ricco che di pio desiderio. Un bel momento si accorge che Paolino, quatto quatto, sta per svignarsela: cosa gli salta in mente? se lo piglia sotto braccio, lo conduce dritto da Monte Vergine e fa una presentazione stenterellesca: il marchese Carbonara, tenente di cavalleria, il conte di Monte Vergine, cameriere segreto di Sua Santità! Più tardi, quando fu a un pelo di doversi tagliar lui la gola con Monte Vergine, disse per scusarsi che aveva imaginato quell'uscita nell'intenzione di rappattumare con uno scherzo due suoi amici, ma a buon conto ci volle tutta l'abilità d'altri amici per impedire l'andata sul terreno, chè Monte Vergine uno scherzo così peregrino l'aveva gradito come una boccata di fumo negli occhi.
Il senatore Tommaseo era in vena, tanto in vena che, nonostante il perpetuo gargarismo della gola e la diserzione dei denti, procurava di masticar le parole il meno possibile e salvarne più di metà dalla perdizione. I prefissi cinque minuti avevano raggiunto i quaranta secoli delle Piramidi.
Ma, a proposito, Visdomini e Cantabruna, che erano a Roma con poteri assoluti per collocare a posto nell'Esposizione vaticana i doni della Liguria, non avevano parlato al marchese Cybo di tutto questo pettegolezzo rumoroso, venuto in coda all'altro scandalo Carbonara? Stiamo a vedere che il marchese Cybo non sapeva neppure della presenza in Roma di Cantabruna e Visdomini!
Cattivo sintomo! novità sull'orizzonte. In altri tempi, solo un mese addietro, venendo a Roma gli sarebbero piombati addosso con tutte le valigie, gli si sarebbero appiccicati ai fianchi, non l'avrebbero più lasciato dalla mattina alla sera. Novità in aria: questo non lasciarsi vedere, non farsi vivi nè in salsa dolce nè in salsa brusca, significava un partito preso.
– Lo dice lei, senatore! – proruppe Marco, appoggiandosi con abbandono allo schienale della seggiola – per qual ragione avrebbero un partito preso contro di me? lei sa qualche cosa?
Nulla, il senatore non sapeva nulla: argomentava. In fondo c'era da pigliarsela tanto a cuore se due personaggi, come l'avvocato Visdomini e il ragioniere Cantabruna, usavano una scortesia? Confratelli! va bene, confratelli; ce n'erano degli altri a questo mondo; galantuomini, cattolici, apostolici, va benissimo; ma il monopolio di tante belle virtù l'avevano essi?
Marco Cybo si era alzato in piedi e su e giù, dall'uscio alla finestra, tormentava a gran passi il tappeto della stanza, di quando in quando fermandosi per ascoltare meglio o per guardare in faccia Tommaseo.
Fino a un certo punto, e dal loro punto di vista, potevano aver ragione essi e i loro signori soci; quando, per esempio, in tono di compunzione deploravano certe umane fragilità, quando dicevano tra loro, come se recitassero il De profundis: peccato che il nostro povero Cybo, un giovane di tanto ingegno e di così belle promesse....
– Ah! dunque lei sa qualche cosa!
Nulla, il senatore non sapeva nulla: argomentava. Cosa poteva sapere lui, che non aveva mai messo piede negli uffici del Quotidiano e sarebbe stato accolto nei cenacoli della Gioventù cattolica peggio del professor Sbarbaro al Circolo della caccia? Era informato d'un fatto, questo sì: Monte Vergine, arrivato a Genova e parlando al Club della sua scena con Carbonara e dei suoi padrini che avevano portato la sfida, si era creduto in dovere di aggiungere che il marchese Cybo, rappresentante di Carbonara, durante il colloquio coi padrini si era messo a loro disposizione, pronto a battersi lui per quel povero ragazzo barbuto, e i padrini, che sul principio beffeggiavano credendo di trattare con un chierico, erano rimasti di stucco nel vedersi alla presenza d'un gentiluomo.
Nell'anima di Marco l'orgoglio del buon sangue che non si smentisce combatteva col rimorso d'un fallo irreparabile; nell'umano compiacimento delle lodi che gli venivano dai figli del secolo, un'amarezza di sdegno contro sè stesso gli montava alla gola! Tommaseo proseguiva il discorso, calmo, senza perdere il filo; era chiaro che ogni parola sua mirava a uno scopo unico, e se ancora egli non aveva affrontato apertamente il castello, oramai, dopo tanti approcci mascherati, eravamo vicini all'assalto.
Gentiluomo stupendo il marchese Cybo nel regolarsi come si era regolato, gentiluomo il conte di Monte Vergine per aver reso onore al merito e alla verità, ma chi ci libera dalle esagerazioni dei zelanti? di bocca in bocca, da un semplice elogio si era tirata fuori un'avventura cavalleresca da paladino di Francia, il marchese era sceso sul terreno, si era battuto magnificamente, aveva inflitto una brava stoccata all'avversario. Niente da stupirsi che questa versione fosse giunta alle orecchie purissime di Tizio e Sempronio, i quali Tizio e Sempronio, pel grave scandalo, inaudito, d'un loro confratello così poco ossequente alle leggi di santa madre Chiesa, si sarebbero affrettati a pronunciare la scomunica.
– Hanno fatto bene a condannarmi – esclamò Cybo nello scatto d'un'ira angosciosa che da parecchio veniva maturando – non avrebbero potuto non escludermi per indegnità dal loro consorzio! La colpa è mia, ho peccato e il castigo era necessario; quando un ramo è guasto, si tronca senza pietà!
Dato il carattere di chi le proferiva, se c'era dell'ironia in queste parole, non mancava ad un tempo la perfetta sincerità della confessione.
– Avrebbero potuto scrivermi, domandarmi quante spiegazioni volevano.... – continuava, sempre più esacerbato, ritto in piedi dinanzi a Tommaseo, con un gesto frequente della mano sinistra nascondendosi gli occhi – Rodolfo che è mio amico, perchè non mi ha scritto? ha parlato lei con Rodolfo? Appena qualche lettera nei primi giorni che mi ero fermato a Roma per un'opera di carità verso un povero vecchio.... poi più niente, silenzio assoluto; e ora me lo spiego questo silenzio, come mi spiego Visdomini che sapendomi a Roma, alla Minerva, qui alla Minerva dove lui mi ha lasciato un mese fa, non si degna di venirmi a trovare; come mi spiego il vuoto che anche qui si è fatto intorno a me.... Pippo Campitelli, mio amicissimo, l'altro giorno m'incontra in via dei Condotti, sullo stesso marciapiedi, e per schivarmi si ficca nel caffè Greco! don Fausto Romoli che andai a salutare durante un intermezzo dell'accademia degli Arcadi, a don Ildebrando suo fratello presentò diversi forestieri, anche un cronista dell'Araldo romano che era con me, e di me si scordò....
D'un sorriso d'assenzio sorridevano tremando le labbra bianche di Marco Cybo nel rammemorare gli affronti, la pallidezza del volto sparì sotto una vampa scarlatta, ma subito ricomparve.
Se il terreno era abbastanza ben preparato per giuocare l'ultima carta, l'onorevole Tommaseo, mosso da un sentimento di pietà, non sapeva risolversi a buttarla giù crudelmente, lì per lì, senza nuove scappatoie, e intanto, tra un affettuoso consiglio alla calma e una faceta ramanzina di conforto, apparecchiava la scena finale. Fosse dipeso dalla sua volontà, certo non si sarebbe imbarcato nella tribolazione di quell'impresa, ma c'era di mezzo la coscienza, la sua coscienza d'onest'uomo, c'era di mezzo il pungiglione acuto d'aver contribuito anche lui la parte sua, per quella avventatezza senile degli uomini troppo vissuti nei salotti, a spingere Marco Cybo nella burrasca d'amore, di lotte, di perfidie, in cui navigava.
La scranna viennese sulla quale era rimasto a disagio fino allora, gli sembrava irta di chiodi, cambiò posto, scelse la poltroncina appiedi del letto, poi si alzò, tornò a sedersi, e levatosi una terza volta coll'irrequietudine nervosa di chi abbia un reggimento di formiche su per le gambe, sempre traballante, sempre fasciato nella fedeltà della sua palandrana, finì per adottare anche lui, come Marco, il sistema peripatetico.
– Figliuolo mio.... – disse a Marco in forma di prefazio, camminandogli a lato e rompendo uno di quei lunghi silenzi che sogliono succedere ai dialoghi penosi – figliuolo mio – ripetè, e si fermò, e l'intonazione paternamente grave mostrava il proposito di venire ad altro tasto forse più penoso – non fermiamoci alla prima osteria; parlo ad un uomo serio: vediamo con calma se da parte nostra.... senza volerlo, s'intende, senz'ombra di male, anzi a fin di bene, se da parte nostra non abbiamo dato motivo a sospetti quasi legittimi, a questa specie d'ostracismo....
– Non gliel'ho detto che mi riconosco colpevole e i miei occhi non piangeranno mai tante lagrime che bastino a redimere l'aberrazione d'un momento? – con tutto l'impeto della sua natura irruente e cristiana interruppe il ferito.
– ....Perdoni.... lei si ferma alla prima osteria.... mi lasci parlare: capisco benissimo, nella sfera dei clericali intransigenti che conoscono il mondo attraverso l'Unità cattolica o l'Osservatore cattolico, la bugia ridicola del duello accettato da uno di loro, anzi da uno dei loro capi militanti, così nuda e cruda, a prima giunta è un fulmine in chiesa, poi, dopo un paio di giorni la verità vera è impossibile che non si venga a conoscere, la bugia cade da sè e tutto resta accomodato; ma nella sfera delle persone.... anche cattoliche, anche clericali accanite.... però di buon senso e che hanno uso di mondo, se domani mi dicono: signor Tommaseo, d'ora in poi lei vada dritto per la sua strada, che noi si va dritti per la nostra.... caspita! che cosa faccio, io? mi gratto l'occipite; penso subito: devo averne commesso una di quelle.... mi spiego? e cerco di rimediare, se sono in tempo; e se non sono più in tempo.... – Ora, ecco quello che volevo dirle: pochi discorsi: lei che è ancora in tempo, perchè, magari a costo d'un sacrifizio, a costo d'un dolore profondo che potrebbe anche non guarire così presto, perchè non piglia una risoluzione energica, degna di lei, tanto da poter convincere i suoi confratelli, e più di tutto i suoi pari, d'aver avuto torto nel giudicarlo? Capisco: sarebbe una risoluzione da chirurgo, ma quando si ha la fortuna, come lei, di portare un nome illustre, quando si occupa sotto la cappa del sole un posto invidiato per ogni rispetto, prima di avventurarsi a un passo che potrebbe magari essere un passo falso, ci si pensa due volte e se occorre si taglia la gamba, perchè è meglio rimanere con una gamba sola e non scendere neppure di mezzo gradino dalla scala dove Dio ci ha messo, piuttosto di rotolare in fondo e trovarsi con tutte due le gambe rotte e la testa spaccata.
A mano a mano che il sermone tirava via, tentennante nel chiaroscuro del dire e non dire, un po' zoppicante dalla parte della perfetta logica, ma insomma non senza malizia diretto a quel dato punto scabroso, Cybo, con un spasimo in cuore d'un bieco presentimento, si faceva violenza per non voler comprendere. Non voleva! Dopo le titubanze dell'esordio, Tommaseo veniva incalzando a tutta forza, battendo sul tasto di non lasciarsi sedurre per troppo zelo apostolico dall'apparenza del buono – decipimur specie recti – nè per tenerezza di cuore dalle fantasmagorie elettriche del bello, e saper che pesci si piglia prima di salire in barca a pescare, sia pure colla rete di San Pietro. E via via che si accalorava, pertinace nella fissazione dell'astratto, e più insisteva con forza quanto più debole gli sembrava la difesa, Marco rispondeva a monosillabi per convenienza d'obbligo, arrischiava il tentativo d'una diversione tutte le volte che le frequenti pause gliene offrivano il destro; un istante ebbe l'idea d'esser villano e interrompere la filastrocca senza tanti riguardi.
Meglio sarebbe stato! quel sospetto che ora lo rode si sarebbe convertito in certezza; ebbene meglio la certezza del dubbio, del dubbio atroce, implacabile, che vi si annida come un verme alla bocca dello stomaco, a volte sembra sopito, lo credete morto per sempre, e si risveglia costante, implacabile! Ah! la rivelazione d'un passato che adombravano le scellerate lettere scritte da Claudio Priol! Ecco il perchè della visita di Tommaseo: egli aveva saputo; tardi, ma aveva saputo; timido e discreto, sperava di scongiurare il pericolo, di farsi comprendere a volo, senza la rivelazione brutale dell'ignominia.
Invece l'onorevole senatore per quell'improvvisa freddezza alla quale non si attendeva, rimase corto, senza bussola e senza alfabeto, quasi contento di non aver assistito allo scoppio che riteneva inevitabile, mortificato per altro verso di non aver condotto a buon termine l'impresa. Pensò probabilmente: cattiva speculazione tirare i mantici dell'organo quando l'organista s'incoccia a non voler suonare.
Punto e basta. Cercava il cappello e non lo trovava, i guanti, il bastone, e non trovava più niente. Sullo scrittoio, tra i libri e le carte sparpagliate rovistando alla ricerca dei guanti, scoprì sotto un quaderno della Civiltà Cattolica il ritratto da zingara della signorina Nicoletta Brancovenu: Friscka! ma si affrettò con destrezza a ricoprirlo.
– Marchese mio, la saluto tanto. Cospetto! il mio orologio è fermo. Scappo a rotta di collo. Non si disturbi, non si disturbi, conosco la strada. Ci vediamo questa sera in casa Olevano? Ah! il meglio mi scordavo, il meglio mi scordavo – in tremulo falsetto stonò sull'aria d'Almaviva, quand'era già sul passo dell'uscio – la principessa Brancovenu desidera d'avere con lei un colloquio; faccio l'ambasciata; l'aspetta domani, senza fallo, in casa sua, via Gregoriana, dopo il tocco, all'ora che lei vorrà. Siamo intesi. Non si disturbi, conosco la strada.
Per incanto, la premura d'andarsene gli era venuta tutta ad un tratto; e se ne andò colla sveltezza d'un elefante che scappa, senza attendere dal marchese una possibile obbiezione o una domanda di schiarimento circa la strana ambasciata. Facile capire che per evitare appunto qualunque difficoltà e non essere obbligato a rispondere, cotesto incarico della principessa l'aveva custodito in pectore fino all'ultimo momento.
Le congetture più stravaganti, le fantasticherie più bizzarre si affollavano in lotta nella mento di Cybo: un colloquio richiesto dalla principessa madre? certo, dopo la predica nebulosa di Tommaseo, per quanto nebulosa e aggrovigliata, non poteva significare che un congedo in tutta forma; certo, fosse anche venuto di moto proprio, Tommaseo era d'accordo colla principessa; d'altra parte quali ragioni così potenti per dirgli a lui non vi vogliamo? la differenza di religione? ah! proprio a lei toccava mostrarsi schizzinosa in fatto di religione, a lei così lontana da Dio, così ignara degli eterni misteri, o dell'eterna verità, così non curante della figliuola, da non averle saputo insegnare, mai, neppure l'inizio d'un credo! – Forse miravano giusto le allusioni di Claudio Priol a un titolo sonoro, fabbricato laggiù nei paesi slavi per onestare una vita avventurosa tra le orchestre ambulanti e i circhi, coprirne le miserie e le frodi? non sarebbe stato il primo esempio d'eroine da commedia in giro pel mondo, madre e figlia, camuffate sotto le apparenze d'un nome rimbombante, alla ricerca del pane e del companatico; ma ragione di più per tentare il colpo massimo, accalappiando nella rete chi possedeva tutte quante le attitudini e la miglior volontà di lasciarsi prendere. Un ultimo scrupolo o un ultimo pudore? – Pazzie! nella migliore società Tommaseo aveva conosciuto a Bukarest la principessa, e a Vienna, alla corte imperiale, monsignor Della Stanga l'aveva conosciuta, moglie dell'ambasciatore di Rumenia. Veniamo alla congettura più semplice: pur non volendo pigliar subito di fronte il figlio nè rinfacciargli di non averle sinceramente confidato i suoi progetti, la marchesa Cybo, informata d'ogni cosa, ne aveva scritto al senatore con buon inchiostro, e persuase dal senatore che la marchesa non avrebbe mai acconsentito al matrimonio di suo figlio con una scismatica, le Brancovenu mettevano il piede innanzi, rifiutavano esse per l'orgoglio di non subire l'affronto d'un rifiuto. Quanto a Nicoletta, impossibile che non si trovasse pienamente concorde con sua madre, sia per fierezza, sia perchè forse già stanca d'un breve capriccio troppo spirituale, e punto disposta a tuffarsi in un bagno di divozione romana; non a caso, ripensandoci bene, Tommaseo si era permesso una frecciata contro gli ingenui pescatori d'anime.
Aveva dunque mentito, Nicoletta, l'altra mattina che nella chiesuola di Santa Maria della Luce in Trastevere si era buttata ginocchioni a pregare, il volto nascosto tra le palme, e così ora rimasta tutto il tempo della Benedizione, e nell'uscire aveva dato a Marco per la prima volta la parola di promessa e di fede? ancora ieri, ancora stamane aveva mentito?
Sulla via Ostiense, una mattina, dopo l'incontro della baronessa Naim, ella gli aveva detto: non sarei della mia razza se non fossi superstiziosa.... – la sua razza! quale razza? avrebbe potuto soggiungere: non sarei della mia razza se non fossi incostante o bugiarda!
Bravo missionario, altra barba della tua si richiede per operare il prodigio della conversione d'un'anima, altra lanterna illumina i sepolcri, altra voce risuscita i cadaveri: occorre essere sordo e cieco, non ascoltare affetti nè istinti, non discernere un lebbroso dalla Samaritana. Ma quando troppo bene si appuntano gli occhi in quelli della Samaritana e come acqua viva se ne bevono con delizia gli sguardi e i sorrisi e le parole, e non si fa che seguirla o attenderla al pozzo e in lunghi ragionamenti le si va predicando Gesù Gesù, nella fallacia di tranquillare la propria coscienza in tempesta, allora Dio si burla del missionario, se ne annoia la catecumena, o fugge via.
Subitaneo gli attraversò la mente a Marco Cybo il pensiero dell'amico suo Voltagisio, di cui dal padre Cornoldi aveva avuto quel giorno stesso per via, poche ore prima, le più sconfortanti notizie non galoppava, precipitava verso la fine e tranne un miracolo non avrebbe più visto sulla terra la festa di Natale.
– Venga a trovarlo – gli aveva detto il padre Cornoldi – sarà una grande consolazione per lui e per lei d'abbracciarsi ancora una volta sulle porte dell'eternità; parla sempre di lei; venga alla villa Sabina e si fermi durante l'intera muta degli esercizi che comincia domani, l'ultima dell'anno; io pure ci sarò per lo conferenze; assisteremo a una morte religiosa, vedremo come partono già distaccate dal mondo e dalle creature le anime benedette da Dio.