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Yek, ta dui, ta trin, ta stâr.
Quando tra le nove e le dieci nel salotto della duchessa d'Olevano fu annunciato il marchese Cybo, gli intimissimi d'ogni sera e la duchessa che giuocavano a pocker in un angolo della gran sala vuota, appena levarono il capo, abituati com'erano a vederlo giungere sempre alla stessa ora e sempre solo, andar dritto a inchinare la padrona di casa, fermarsi non più d'un minuto a guardare il giuoco distrattamente e sparire di là nelle altre stanze, dove sapeva di trovare la signorina Brancovenu.
Un quarto d'ora buono era già trascorso, allorchè, tutta stupita, la duchessa si avvide ch'egli stava ancora in piedi al suo fianco. Eppure dal salottino attiguo veniva a ondate, garrula e fresca, la voce di Nicoletta in mezzo a un lieto rumore d'altre voci e la sua risata dai trilli d'argento.
– Marchese, vogliamo imparare il pocker questa sera? – domandò la signora coll'intonazione permalosetta di chi non sa spiegarsi un'enigma.
Come gli suonò mordace la domanda, forse senza ragione, così parve a Cybo di sorprendere un sogghigno sul volto dei giuocatori e si fece scarlatto.
– Aspettavo il senatore Tommaseo – balbettò.
Paolino Carbonara se la sarebbe cavata meglio nè avrebbe avuto l'aria di mendicare una scusa, ma sono gli uomini di talento che spesso in società rimangono corti. Per fortuna la partita era d'impegno e l'attenzione dei giuocatori fu presto richiamata al tappeto verde da un magnifico flosh-sequence vittorioso.
Disse la duchessa, tanto per dire, fingendosi capacitata:
– Tommaseo non si è visto finora e temo che non verrà più; conosciamo le sue abitudini, dopo le dieci raro è che comparisca. – Tocca a voi, Lauretani. – Colonel Diamantopoulos, prenez garde: Lauretani vous porte malheur: chaque fois que c'est à lui à donner les cartes, vous vous emballez.
E colla coda dell'occhio non perdeva di vista Marco, il quale, piano piano allontanandosi dalla tavola da giuoco, si avvicinò all'uscio del salottino, rimase perplesso un momento, poi tornò indietro, fece qualche passo nella discreta penombra e finì per lasciarsi sequestrare in un cantuccio dal molto reverendo Samsöe.
Anzi il sequestro fu reciproco, l'uno e l'altro beati di togliersi a vicenda dal far la figura peripatetica del solitario che non trova tra venticinque persone, in questo o in quel gruppo nei diversi salotti, con chi farsela buona, il timido pastore venuto per obbedienza in accompagnamento di miss Brancovenu e cascato tra gente a lui ignota in un mondo nuovo, Marco respinto da una specie di ribrezzo o di terrore superstizioso, quando nel crocchio dov'era Nicoletta ebbe ravvisata la baronessa Naim. Seduti accanto in disparte nella medesima sala dei giuocatori, non turbavano di sicuro col loro chiacchiericcio le elucubrazioni del colonnello greco Diamantopoulos e degli altri immersi nelle cabale del pocker, chè se l'americano si mostrava propenso, dopo i calorosi convenevoli, a uscire dalle frasi d'abitudine sul tempo e sulla serata per avviare un discorso, il suo compagno, oltre una certa ruggine colla lingua inglese, in ispecie gorgogliata e frantumata dagli yankees, aveva la mente a tutt'altre cantilene.
– Ah! vous voila! – disse Nicoletta a Marco Cybo, giungendogli dinanzi inaspettata, al braccio della Naim – se non erro, la compagnia di mister Samsöe è molto piacevole e deve avere per voi delle attrattive speciali, poichè non vi degnaste neppure di venirmi a salutare.
Quantunque esplicite abbastanza, meglio delle parole rivelavano un rancore l'acredine della voce e il sorriso sardonico. Anche la Naim sorrideva durante il rabbuffo, ma come persona provata a simili controversie di innamorati, e a Cybo ch'era balzato da sedere, stese la mano, affabile, in segno di riconoscimento.
– Avete commissioni da darmi? domani mattina parto per Firenze – soggiunse Nicoletta alquanto rabbonita dal pietoso imbarazzo di lui, e replicò dopo una pausa, durante la quale dovette accorgersi del pallore che l'improvvisa notizia gli aveva gittato sul volto:
– Vado a Firenze; non mi darete un messaggio per l'Arcivescovo?
Marco ebbe la prontezza insolita d'una scempiaggine:
– Troverete a Firenze molti forestieri.... più che a Roma, e maggiori attrattive – disse freddamente, poi domandò – partirete sola o vi accompagnerà la principessa?
– Non inquietatevi per me – rispose Nicoletta – non sarà mister Samsöe il mio compagno di viaggio, ma se anche partissi sola, saprei guardarmi dai lupi! – e passò oltre verso la sala della table à thè, sempre al braccio della baronessa.
Ed ora cosa diceva col ronzio d'una vespa il reverendo Samsöe nel suo inglese bisbetico? lasciamolo dire. – A Firenze! Nicoletta andava a Firenze!? perchè questa risoluzione repentina? con chi andava? quanto tempo si sarebbe fermata? – Poco importava sapere che un anno prima la Sybil aveva percorso gli Stati d'America in mezzo alla frenesia universale, predicando e mistificando; non si trattava della Sybil. – Cade una tegola sul cranio d'un viandante; invece di rimanere tramortito dallo spasimo, costui non sente dolore, e a botta calda, rovesciato com'è nel suo sangue, fabbrica almanacchi, divaga, ascolta da un orecchio quei che gli parlano intorno. –– Tante manovre, tanti sotterfugi si richiedevano per addivenire a una rottura? avvisaglie preliminari di Tommaseo, convegno pel giorno dopo in casa della principessa Brancovenu, partenza subitanea di Nicoletta.... – Tra le donne, specie tra le ragazze, mirava la Naim di reclutare i suoi proseliti; l'attuale intimità sua con miss Friscka ne era una prova. Su questo punto batteva forte il pastore, scandalizzato: in fondo, coll'attirare la donna alle dottrine teurgiche, la vergine se le riusciva, e staccarla da ogni affetto di famiglia per trascinarsela dietro negli abissi del mistero, ella che in Irlanda aveva predicato al popolo le teorie di Malthus, non si proponeva che di distruggere il matrimonio. Dovunque si recava a tener conferenze, un corteggio di diaconesse imbizzarrite la seguiva e l'assisteva; parevano ossesse; a Cincinnati dovette mischiarsene la polizia: moltissime, ragazze e maritate, avevano abbandonato le loro case, alcune erano impazzite. – Ma non si trattava ora della Naim; inutile acuire con nuovi ragguagli il senso di ribrezzo, di paura, che la demoniaca aveva prodotto, l'angoscia di vederla col simulacro dell'amicizia femminile avvolgere l'incauta nei suoi stregonecci. Nella sala da pranzo contigua Nicoletta era là seduta in un cerchio d'uomini, intorno alla tavola; anche i giuocatori avevano smesso, il greco Diamantopoulos, lievemente sugli orli di cinque o sei bicchieri allineati passando le dita e traendone vibrazioni cromatiche, rifaceva un'arietta che ella gli canterellava sotto voce. – Partire? sarebbe stato il meglio; insalutato hospite; ma la duchessa guardava vigilante coll'ostinazione delle vecchie e certo doveva nutrire un sospetto curioso nell'animo suo; dippiù l'onorevole Rizzabarba si era accostato.
Da un po' di giorni tutte le volte che egli s'incontrava con Marco Cybo pareva che fosse suo proposito di rivelarsi tutt'altr'uomo da quello che fino allora si era fatto conoscere. Nella fertilità piacevole del suo discorso l'idea scettica o antireligiosa che ne formava l'essenza non solo si era modificata, ma era sparita per incanto; il ragionamento serio, nella misura d'un linguaggio nuovo o insospettato, riscattava l'intemperante abbondanza degli epigrammi e delle arguzie, dei paradossi e degli aneddoti, dove colla frivolezza e la maldicenza era perpetuo condimento la salacità.
– Ah! marchese – in tono minore l'onorevole Venceslao ripeteva di frequente colle dovute variazioni, e i mantici del cuore gemevano la cadenza lunga d'un profondo sospiro – mi crederebbe lei se io le affermassi in parola di galantuomo che talvolta, assalito da uno sconforto ineffabile, vado chiedendo a me stesso: quare tristis es, anima mea? e allora non è Schopenhauer che mi risponde, o nemmeno Leopardi, ma una voce remota della mia fanciullezza, quella voce materna che m'insegnava a giunger le mani e a balbettare il Pater noster, e dimenticata per tanti anni attraverso gli appetiti, le vanità, le ribellioni, quando l'avvenire prometteva la conquista d'un reame a dir poco, torna timidamente a farsi viva, ora che coi capelli cadono ad una per una le illusioni, e le promesse si son ridotte in un mucchio di foglie secche. Non parla più, è vero, nè di pater nè di ave, nè dei volanti cherubini d'oro, ma nella tristezza che mi opprime dell'ora presente risveglia la nostalgia consolatrice e la speranza d'un ideale infinito.
Cose vecchie. Sarebbe stato troppo candido il "beato marchese" come Rizzabarba soleva chiamarlo, se di primo acchito, superando le antipatie, si fosse lasciato intenerire da coteste effusioni laiche d'un misticismo vespertino; nondimeno, appunto perchè rifritture già cucinate le centomila volte nella medesima salsa e quindi non recavano sfoggio di preparazione, potevano essere sincere. Quando un uomo di Montecitorio, un Venceslao Rizzabarba che ieri avrebbe tripudiato nel sacrilegio, non ride più e spontaneamente professa la sua ammirazione al Pontefice e nell'aspettativa della Mostra vaticana e della Messa papale in San Pietro quasi partecipa allo slancio di tutto il mondo cattolico, il sintomo è caratteristico.
– C'è questo di buono: la massoneria, per quanto abbia fatto, non m'ebbe mai nelle unghie; dapprima per un certo istinto spavaldo d'indipendenza, più tardi perchè avevo imparato a conoscere i miei polli, tenni duro e non mi lasciai beccare. Lo dico a fronte alta: non me ne pento! e questo è il bello, non me ne pento a malgrado della guerra iniqua che mi si fa nel campo parlamentare e peggio sul terreno economico dei miei interessi privati; guerra di coltello, capisce? e io non transigo. Non una volta, ma due, tre volte avrei già potuto essere sottosegretario di Stato, potrei esserlo domani se acconsentissi a inscrivermi nella confraternita; per mia parte, come socio d'una modesta fabbrica di cemento e mattonelle idrauliche e colla frenesia spaventosa che abbiamo a Roma da alcuni anni d'improvvisare una nuova Londra, per mia parte, e non esagero, avrei mezzo milione in saccoccia, so certi potenti venerabili, i più loschi della camarilla, per dispetto settario non mi avessero sempre tagliato l'erba sotto i piedi. E io duro, dovessi finire sullo sterquilinio di Giobbe! Sarà un puntiglio: sia; magari potrebb'essere questione di coscienza o non ci son che le donne le quali possano vantarsi d'avermi visto scendere a transazioni colla mia coscienza; questo sì, purtroppo!
E l'intonazione mutata, soggiungeva dopo l'artifizio d'una profonda tristezza:
– Bisognerebbe che io domani mattina mi svegliassi militante nel partito dell'azione cattolica per farle capire fino a qual punto spingerei la mia intransigenza clericale, ma un'intransigenza nuova, a modo mio, con ben altre vedute, mi perdoni, da quella dei suoi molto reverendi avvocati Acquaderni e Paganuzzi. Non si formalizzi delle parole d'un reprobo; diciamo per dire. Guerra ad oltranza al governo e a qualunque idea di conciliazione e al triangolo e al giudaismo, va benissimo, ma i congressi, i tridui, i giubilei, i pellegrinaggi lasciarli sbrigare in provincia tanto per tener vivo il fuoco nel popolo minuto, e la polemica da strapazzo abbandonarla alla farragine dei giornaletti locali, che ce n'è d'avanzo, Osservatori, Cittadini, Api, Vessilli, Echi del purgatorio e Trombe celesti; qui a Roma altre imprese ci vogliono! qui a Roma stabilire l'azione vera ed occulta, propagarne i tentacoli, approfittare del momento attuale di febbre delirante che ha invaso buzzurri e romani, per addivenire alla conquista finanziaria di Roma. I mezzi? quattro principi dell'aristocrazia vera mi bastano, monsignor Folchi alla testa – monsignor Folchi, l'amministratore delle finanze del Papa – Bernardo Tanlongo alla coda, e c'è da far tremar l'universo. Apro il portafoglio: ai miei piedi, ai miei piedi gli impresari, gli speculatori, le piccole Banche di sovvenzione pullulate come funghi, i capitalisti, i mercanti di campagna, i grandi istituti di credito; pronta cassa a chi mi offre buone guarentigie e a chi mi garba, sottomettendosi alle mie condizioni; porta di ferro a chi non mi piace; da potenza a potenza tratto col governo o non cedo d'un palmo e ho tanto in mano da costringerlo a venire a Canossa tutte le volte che sul terreno politico o religioso si provasse a resistermi!
In casa Olevano quella sera il deputato Rizzabarba, lasciata per Marco la compagnia delle signore, seguitava nella sua professione di fede e nei suoi sconforti e accennava nientemeno che a volersi ritirare dalla bolgia politica non solo ma pure da ogni mondano consorzio e dalle sue mattonelle idrauliche per darsi agli studi biblici e dogmatici comparati colla moderna teosofia a cui la baronessa Naim voleva iniziarlo, allorchè appunto la Naim si avvicinò. In inglese scambiò alcune parole con mister Samsöe e gradì subito la poltroncina che Rizzabarba le offerse, nel mentre attorniata dai suoi cavalieri, la signorina Friscka, cedendo alle istanze, era venuta a sedersi al pianoforte.
– Signor deputato – volgendosi al deputato come più familiare con lei, però verso Marco drizzando l'intenzione suggestiva, disse nel suo francese alquanto ricalcitrante, la baronessa – faccio assegnamento su di voi per avere un biglietto d'ingresso in San Pietro la mattina del capo d'anno alla gran messa del Giubileo!
– Ahimè! – rispose Venceslao con galante costernazione – voi pure alla caccia d'un miserabile biglietto, e a me vi rivolgete? vi piace sentirvi ripetere ancora una volta che tutte le barriere si spalancheranno sul vostro passaggio?
– Vale a dire, signor deputato, che la vostra onnipotenza si arresta alle colonne d'Ercole del Vaticano.
– Baronessa, sorgono a migliaia intorno a me le colonne d'Ercole, altro che vantarmi della mia onnipotenza! In ogni caso, se queste sole fossero le porte di ferro che io non riuscissi a superare, per voi mi riprometterei di spezzarle, mediante l'aiuto del mio buon amico qui presente, il marchese Cybo.
Nicoletta preludiava uno dei suoi pezzi magistrali di battaglia.
– Parliamo piano – mormorò pianissimo la signora – se non per Saint-Saëns, che mi è antipatico, almeno per riguardo alla suonatrice – e un sorriso la illuminò e una bella occhiata significante molte cose s'incrocicchiò prima collo sguardo dell'onorevole, poi con quello di Marco.
– Non avrei ardito chieder tanto al marchese Cybo, sapendo ciò che egli pensa di me, ma poichè pare disposto a non escludermi dalla sua lista.... sentiamo, marchese: sarò anch'io sulla vostra lista delle anime elette a ricevere la benedizione del Santo Padre, insieme alla signorina Brancovenu?
In verità, navigando Marco Cybo nelle acque più torbide rispetto ai suoi confratelli, siffatta richiesta gli giungeva peggio d'una sassata tra capo e collo; facilmente avrebbe potuto liberarsi, promettendo come si suol promettere, per cortesia, senza animo di mantenere, ma un'obbiezione gli venne spontanea alle labbra:
– La signorina Brancovenu parte domani per Firenze – fu la sua risposta, non tanto ruvida nell'espressione, quanto nella segreta volontà di non lasciarsi soverchiare da colei.
– Ebbene? ella parte con me. Vado a tenere una conferenza e mi accompagna. Non saremo di ritorno insieme, fra tre o quattro giorni?
– Speriamo anche prima.
– Forse anche prima. Firenze, ch'io sappia, non è al polo Nord e avremo sempre una settimana per tenerci pronte a cominciare in Roma l'anno nuovo da buone papiste. Non credo che il marchese Cybo voglia fare a sè stesso l'augurio di rimaner lontano dalla signorina Friscka al di là del primo gennaio.
– A chi lo dite, baronessa? il marchese sarebbe capace di raggiungervi, a costo d'assistere alla vostra conferenza! –esclamò l'onorevole ridendo e scordandosi di smorzare la voce col pedale.
I musicomani veri o finti, raccolti intorno al piano, zittirono per imporre silenzio. Un breve silenzio l'ottennero, durante il quale la Naim, col capo arrovesciato, gli occhi aperti ed immobili verso il soffitto, pareva che sognasse ad occhi aperti nelle trasparenze ipnotiche della musica.
Era vestita di nero; non un gioiello addosso nè un fiore; tutta di nero, senza guanti; dalla piccola scollatura e dalle mezze maniche la bianchezza delle carni emergeva; d'un biondo spirituale, i capelli biondi cumulati in alto sulla nuca a guisa d'elmo di gioventù, scoprivano la fronte e le tempia per farne spiccare la inviolata purezza.
Sembrava bella: forse non era, nè sarebbe sfuggita a un occhio critico la linea caprina del volto; tuttavia, nel vederla come una bimba in quell'attitudine d'estatica e nel rammentare di quanti venerdì taluni volessero gratificarla, bisognava pur concedere che se l'apparenza era fraudolenta, artifizio di femmina o di demonio non aveva mai operato prodigio simile.
Susurrò Rizzabarba all'orecchio di Marco Cybo:
Ella udì, si riscosse, e come avesse letto il pensiero dei suoi due vicini, proferì parlando a sè stessa, scandendo le sillabe
– To one, it is ten years of years.
"Per uno furono dieci anni di anni". Certo voleva dare questo significato al verso cabalistico di Dante Gabriele: maligni, non riuscirete a fare il computo dell'età mia; diceste bene: sono la fanciulla beata; passo nel tempo, e appena lo sfioro; ogni cento anni, per me è un anno trascorso, ogni anno mio calcola tanti anni quanti giorni compongono il vostro anno.
Torna malagevole in somiglianti bisticci seguire il filo dell'ermeneutica preraffaellita e sarebbe rischioso garantirne l'esattezza; comunque sia, quella semplice frase vaporosa, d'una sfumatura così indeterminata da risolversi in nulla, che Rizzabarba e Cybo non afferrarono punto, nemmeno nella materialità dei vocaboli, parve a mister Samsöe il responso dello spirito di Pitone. Cos'abbia capito, lo ignoro. È bensì vero che dei tre ascoltanti essendo l'unico pel quale non possedesse segreti l'idioma anglo-sassone, egli solo aveva il diritto di fraintendere. Si alzò, dagli occhi schizzando fiamme, lui la compostezza esemplare, e col braccio levato fulminando un segno d'esorcismo contro i malefizi diabolici, se non ardì pronunciare la formula dell'anatema, borbottò fra i denti la sua indegnazione.
Nuovi zittii più feroci. Sparve: dove sia andato a rintanarsi fino all'ora d'accompagnare a casa Nicoletta, non c'importa saperlo; Rizzabarba, attonito, si domandava se al pastore avesse dato volta il cervello; Marco, che già ne conosceva il santo sdegno per le eretiche dottrine della Sybil e con lui divideva nel suo intimo la credenza che ella fosse davvero in comunione con le virtù tenebrifere, ebbe un impulso di raggiungerlo.
– Dove andate? – gli chiese la pitonessa, dai limbi dell'estasi tornata placidamente all'umana conversazione, e rivolta verso di lui, lo sguardo quasi buono – dove andate? fermatevi!
Sottovoce, e Marco obbedì; tanto sottovoce, che l'aria non fu percossa dal metallo del suono, e anzichè dal comando espresso, Marco fu soggiogato dalla volontà.
– Sedetevi e discorriamo – continuò la signora, movendo appena le labbra nella carezza d'un sorriso – non tanto lontano, avvicinatevi; avete forse paura di me? vi faccio ribrezzo? non sono così empia come pretendono certuni che non mi conoscono: credo in Dio, credo nell'anima nostra immortale; Friscka potrebbe rendermi giustizia. Rendetemi giustizia, signor deputato: nei nostri colloqui, e non solo con voi, quante volte non mi avete inteso affermare in Dio la mia fede? ha forse altro scopo la mia propaganda nel vecchio e nel nuovo mondo, se non quello di battere in breccia l'ateismo? abbiate il coraggio di confessarlo: è anche un po' per opera mia se voi stesso in questi ultimi tempi siete sulla via del ritorno.
Il signor deputato colse al balzo la palla per rinnovare le sue mistiche affermazioni, ma lo interruppe Marco Cybo:
– Non basta credere in Dio; anche Satana crede in Dio! – esclamò nella rigida autorità del catechismo cattolico.
– Vorreste dire che io sono un'emanazione di Satana?
Marco ne sostenne il baleno sinistro della pupilla, ma non rispose.
Ella proseguì:
– Chi è Satana? lo sapete voi? l'avete visto colle corna e gli artigli, in un lago di bitume e di solfo? Ammiro il genio inventivo di voi cattolici e il vostro rispetto per la barba bianca del Padre Eterno nel contrapporgli un altro Dio, potente come lui, scimia, caprone, uccello di rapina e pipistrello!
– Iconografia simbolica – con evidente fervore propenso alla disciplina ortodossa, non si trattenne Rizzabarba dal ribattere.
Ma la correzione passò via.
– Fra i due che vi siete fabbricati, qual è il vero Dio del male? Siate logici almeno. Chi è che ci abbevera di fiele durante l'intera vita e gode di prepararci un'eternità nello spasimo? chi è che dispensa invece sulla terra l'unico refrigerio? o voi lo chiamate peccato questo refrigerio! Se il vostro Satana esistesse, io terrei per lui; se fosse vera la sua lotta con l'altro e uno dei due dovesse un giorno riuscir vittorioso, leverei al cielo le braccia per la sua vittoria finale, e anche vinto per sempre, ai suoi piedi vorrei inginocchiarmi e adorarlo nel fondo delle tenebre, non ai piedi dell'altro, in mezzo alla sua gloria, mai!
Si era tradita. Ti sei tradita, bestemmiatrice! Signore, nella sua bocca vi siete rivelato: scagliandovi l'insulto dell'odio, fu costretta a proclamarvi, si tolse la maschera nell'atto d'adorazione a Satana.
Non avevano posto mente che da qualche minuto il tedioso pezzo classico di Saint-Saëns era terminato. Venuta ad unirsi al gruppo, Nicoletta stava dietro la poltroncina della Naim, in piedi, alla Naim posando familiarmente le due mani sulle spalle.
– Del resto – ribattè ancora l'onorevole paladino, o noi tutti saremmo curiosi di sapere se per nuova convinzione egli spezzasse la sua lancia o per far la corte a Marco Cybo – fin dai primi secoli cristiani la dottrina dei Manichei sul Dio del male e sul Dio del bene, l'uno o l'altro coeterni ed eguali in potenza, fu condannata dalla Chiesa come eresia; Sant'Agostino, che era manicheo nella sua gioventù....
– Ho tentato di leggere le Confessioni di Sant'Agostino – senza sapere di che cosa si parlasse, saltò su Nicoletta – e non ne ho capito niente; giudicando dal titolo, credevo che si trattasse d'una specie di romanzo.... piccante, invece non ho trovato che una grandissima noia di preghiere e meditazioni filosofiche.
Domandò la baronessa con mordace intenzione:
– Senza dubbio, un regalo del marchese Cybo?
– No, del marchese Carbonara: stupenda edizione; la ricevetti pochi giorni dopo la sua fuga da Roma. – Tu non l'hai conosciuto Carbonara: è un peccato.
– Voleva convertirti anche lui?
Anche lui! Nicoletta volse sorridente a Marco un'occhiata furfantina:
– Non ci sarebbe riuscito – rispose.
Era il momento buono per Rizzabarba di battere sul complimento:
— Dipende dal missionario: c'è quello che in cento prediche non toglie un ragno dal buco, c'è quell'altro, più fortunato, che batte le palpebre e vibra nel cuore d'una donna il colpo della grazia come un colpo di fulmine.
La Naim, arrovesciato una seconda volta il capo all'indietro per cercare con gli occhi avidi gli occhi di Nicoletta, prendendole le mani e intrecciandosele sul petto quasi per tema che le sfuggisse, mormorò:
– Friscka!
Nicoletta la baciò sui capelli.
– Cosa c'è nell'aria? – tirò innanzi Rizzabarba, pel quale la pantomima delle due donne non era passata inavvertita e aveva pure notato il sussulto di Marco – più o meno in questo tempo attraversiamo tutti una fase di misticismo nevrastenico; è un carattere del secolo agonizzante. Non parlo di me; Claudio Priol, per esempio, che si è ecclissato press'a poco da ogni civile consorzio, non dico che ora logori in ginocchio il lastrico delle chiese, ma a furia d'andar sempre a braccetto con un cronista dell'Araldo romano o di frequentare solamente gli arcifanfani delle società clericali, presto presto lo vedremo arcifanfano anche lui, in San Pietro con tanto di candela.
Nicoletta non gli badava, intenta a moineggiare coll'amica. Quando venne ambasciatore il greco Diamantopoulos a pregarla di tornare al piano e cantare una canzoncina, una sola e poi l'avrebbero lasciata tranquilla, tanto per chiudere la serata, si rifiutò; pure gli altri la chiamavano insistenti, pure la duchessa venne a supplicarla; non acconsentì, di malagrazia, se non dopo il ripetuto invito di quell'altra:
Non bastavano l'angoscia d'una speranza inafferrabile e il tormento d'un dubbio, le calunnie di ignoti, il disdegno e l'abbandono dei confratelli: anche lo smacco in pubblico ci voleva! Guardatelo il cavaliere dalla triste figura, inchiodato sopra una scranna da un paio d'ore, fiacco e imbecille, senza il coraggio eroico di muoversi nè di parlare, coll'amarezza nell'anima, più amara di qualunque amarezza. Che gli serve a lui il suo ingegno, il suo studio, quando non trova argomenti per rimbeccare le bestemmie atroci e insulse d'una femmina e levandosi in atto di protesta non è nemmeno capace d'imitare l'esempio del povero pastore metodista? lo suffraga assai la gloria d'avere nell'albero genealogico una lunga filza di crociati, ammiragli, cardinali e su tutti dominante un famoso Papa, nell'archivio le pergamene d'investitura e di signoria del ducato di Massa, e per sangue materno contare un parente almeno in ogni battaglia, tra i fedeli del Re, da Verneuil alla Vandea! – Che gli giova d'essersi accinto con purezza d'intenzione – e Dio ne è testimonio – al riscatto d'una creatura, quando costei, in pubblico, dinanzi a lui e alla gente che ride, non sa far altro che buttarsi nelle braccia d'un'adoratrice del demonio?
Disse l'onorevole Venceslao, nel mentre Nicoletta si accompagnava sul pianoforte:
– Questa canzone io la conosco.... non le parole, ma il ritmo bizzarro.... non è bizzarro questo ritmo? non le sembra, marchese, che abbia come le parole qualche cosa di selvaggio? Certo l'ho udita quando fui in Ungheria e nei paesi slavi. Dev'essere una canzone serba o montenegrina.
Era la stessa, nello stesso salotto già cantata un mese prima dalla Brancovenu madre.
Jek, ta dui, ta trin, ta stâr,
Ma dove, ma quando nelle remote lontananze della memoria si era assopita per lungo intervallo di tempo cotesta cantilena che un mese fa impensatamente si svegliava colle sue cadenze barbare e le sue aspre sillabe, richiamando in confuso una tristezza di giornate lente, associandosi allo spasimo di un dolore supremo?
– A che cosa pensate? – domandò la Naim a Marco Cybo.
Per curiosità letteraria delle strambe strofette, Rizzabarba era andato a mischiarsi all'altro gruppo.
Ed ora, a poco più d'un mese di distanza, colla ripetizione del canto la stessa reminiscenza che torna, e sempre più fitta la nebbia, e una smania addosso, irresistibile, di riandare il passato, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, fnchè non comparisca un barlume. Si direbbe questa reminiscenza, così lontana, così scura, il vaticinio dell'avvenire. Superstizioni! da quando in qua è lecito a un cristiano collocare le sue credenze in simili stoltezze? eppure Dio si serve d'ogni voce: anche questa potrebb'essere ammonimento.... o annuncio di castigo.
Terza strofa ed ultima, grazie al cielo:
Gli ascoltatori applaudivano, gridava forte Rizzabarba:
– Marchese, si unisca a noi, preghi la signorina di non rifiutarci il bis, almeno d'una strofetta: a tanto intercessor nulla si nega.
– Ebbene, marchese, a che cosa pensate? – ripetè la Naim per impedirgli a Cybo di muoversi e tornata affabile come in principio – mi sembrate triste: volete scommettere che io indovino?
– Siete la Sibilla – egli replicò rassegnato, le labbra tinte d'un pallido sorriso d'ironia, poi tosto si riprese – no, baronessa, ve ne scongiuro, non vi occupate di me. Pensavo alla povertà della mia memoria; una sciocchezza; mi son fitto in testa d'averla già ascoltata questa canzoncina bislacca, e non so rammentarmi dove nè quando. Una sciocchezza, vi dico.
Erano palesi nella sua voce, nei suoi gesti, lo sforzo della disinvoltura simulata e il desiderio di togliersi al supplizio di quel colloquio.
– All'alba vi rammenterete – profetizzò la pitonessa – voglio che vi rammentiate! – soggiunse con voce forma di domatrice, e un istante dopo, tutta compunta d'indulgenza – siete geloso.... non so di chi, ma la gelosia vi tormenta; se amate Friscka, perchè non verreste con noi a Firenze? guardatemi bene in faccia: perchè non verreste?
Egli la guardava, gli occhi di lei lo travolgevano, acuti, penetranti nell'anima.
Il momento fu breve, chè nell'imminenza di prendere comiato i pochi ospiti rimasti si scostarono dal pianoforte, taluno venne a salutar la signora, e Marco ne approfittò per liberarsi, sbalordito. Nicoletta si era rifiutata di concedere il bis: non ne valeva la pena, ostinavasi a dire, uno strambotto amoroso, senz'altro merito all'infuori di quello d'essere perfettamente sconosciuto; era poco probabile che Rizzabarba l'avesse udito nelle piazze o nei caffè d'Ungheria: parole e musica appartenevano a una tribù di zingari che non usciva mai dalle montagne della Transilvania e parlava un linguaggio tutto suo, barbarissimo, anche incomprensibile alle altre tribù di zingari, slavi: yek, ta dui, la trin, ta stâr.... uno, due, tre, quattro, tre volte ti ho baciato la bocca, bella mia, una volta dolce come il latte, e tre volte amara: yekvar gudro ani tùt, mi pirani, la trin sciùt.
– Mi pirani, ta trin sciùt! – replicò, profondamente convinto, l'Ecclesiaste Venceslao.
Nel discender le scale Nicoletta si era attaccata al braccio di Marco e gli aveva susurrato a mezza voce:
– Perdonatemi!
– Non andate a Firenze.... non andate insieme alla Naim!
Desolata preghiera, umile preghiera tra i singulti del cuore, più generosa d'un perdono. Ella subito non rispose, strinse forte in segno di gratitudine il braccio di lui contro il suo, appoggiandosi come assalita da improvvisa stanchezza di innamorata, e le guizzava un tremito lungo il braccio. Se avesse accondisceso!
– ....non andate insieme alla Naim!
Disse, quand'erano già in fondo sotto il portone e bisognò separarsi:
– Ho promesso d'accompagnarla.
– Trovate una scusa.... un pretesto qualunque....
– Ho promesso d'accompagnarla.
Inflessibile. Si separarono.
– Rimarrò a Firenze appena due giorni o tre – ella aggiunse per mitigare con altra promessa la crudeltà del diniego.
Parecchie vetture aspettavano. Nello scambio cerimoniale dei saluti, la Naim ebbe per Cybo una preferenza:
– Buona notte, marchese. Ci vedremo domani? rinnovo la proposta: volete esser nostro cavaliere nel viaggio? anche Friscka vi desidera, siate compiacente.... almeno per Friscka.
E siccome era lui il più vicino, fu lui che allo sportello, mendicando non so se un ringraziamento o una scusa, le offerse il braccio per aiutarla a salire e ne ebbe l'ultima stretta di mano. Rimasti soli, Cybo e Rizzabarba si avviarono verso piazza dell'Indipendenza, anch'essi in cerca d'una vettura che li conducesse a casa.
Opposta strada, l'onorevole abitava nei quartieri alti dell'Esquilino, ma tanto si era appiccicato ai panni di Marco da non volere staccarsene a niun patto se non sulla porta della Minerva. Lasciamo i complimenti da banda; prima delle tre o le quattro non si ritirava mai, vizio cardiaco, inguaribile, faceva venir le ore piccole da Aragno o in qualche redazione di giornale, e così tutte le notti gli fosse toccata in sorte la compagnia d'un gentiluomo come il marchese Cybo, invece dei soliti giornalisti, cantanti, mecenati o dilettanti.
È perfettissima usanza, allorchè in parecchi si esce da una serata, istruire processo ai padroni di casa e agli intervenuti, e nella stitica lode e nell'abbondante biasimo proferir giudizi, i quali in fondo son sempre di mormorazione. Manco a dirlo, non uscì Rizzabarba quella notte dalla consuetudine, però, bontà sua, lasciati i minimi che il pretore non cura, tra i massimi aveva le sue buone ragioni d'opportunismo per dare alla baronessa Naim la palma del privilegio. Durante quarantott'ore averle fatto la corte non significava esserne incapricciato; l'aveva studiata e conosciuta: una febbricitante di vizio, in perpetua questua d'un giocatolo nuovo da rompere; conferenze religiose? miracoli? polvere negli occhi; se leviamo qualche fenomeno spiritico dei più volgari, non c'era in tutta Roma un cane che avesse assistito alle meraviglie tanto strombazzate da certi satelliti. Ma veniva adesso il bello: non era lei la baronessa Naim, l'autentica, la celebre Naim, la missionaria fanatica dei due mondi, la taumaturga, quella di cui parlavano da trent'anni i giornali inglesi e americani, in un viaggio di ritorno da Filadelfia conosciuta sul battello dal nostro senatore Tommaseo; era la figlia di quella; il famoso miracolo inesplicabile della gioventù imperitura diventava una ciurmeria da saltimbanco; morta la madre alle Indie, la figlia, approfittando della rassomiglianza meravigliosa, ne aveva assunto la personalità ed era comparsa in Europa, spacciandosi come ringiovanita per virtù magica, favorita del dono di non essere molestata dal precipitare degli almanacchi.
Se ne sarà poi confessato, ma scrupoli o non scrupoli, questi non impedivano a Marco di metter bocca nel discorso e aggiungere la sua approvazione. Rammentava assai bene quanto aveva detto Tommaseo circa la morte della Naim, sapeva pure che lo stesso Tommaseo nel trovarsi faccia a faccia con la sua pretesa compagna di viaggio, era rimasto perplesso, dubitante se fosse lei o non fosse, e nel salutarla, avendole rammemorato il loro primo incontro a bordo e la traversata e le lunghe discussioni metafisiche insieme a un'altra matta del medesimo stampo, con tutta la sua onniscienza ella era caduta dalle nuvole. Ma finchè si trattava d'un'impudente mistificazione, peggio per chi ci credeva; molto più grave era il fatto asserito da Rizzabarba e in confuso dal pastore Samsöe, cioè che cotesta avventuriera, pellegrinante per mandato d'una sètta femminista americana, celasse istinti innominabili sotto la scorza ciarlatanesca dell'occultismo. E purtroppo, per certe equivoche attinenze, Rizzabarba era sicurissimo di ciò che affermava.
Tanto sicuro, diceva lui, che se fosse stato nei panni del questore l'avrebbe sfrattata su due piedi, anzi voleva parlarne subito al questore; e siccome siamo tutti uomini, Marco Cybo compiacevasi d'udirlo, ora segnatamente che nutriva la fiducia di vederlo tornare all'ovile, e passati a poco a poco in tutt'altro argomento, si sforzava d'ascoltarne le querimonie sulla crisi edilizia minacciante: non era il caso d'allarmarsi, una città come Roma avrebbe scongiurato il pericolo, ma frattanto, in grazia d'alcuni farabutti che avevano abusato del credito aperto, costruttori e industriali stentavano ogni settimana a raggranellare quei pochi soldi da pagar gli operai. Per esempio, lui, Rizzabarba, deputato da tre legislature, socio in una fabbrica di laterizi benissimo avviata, possessore d'un capitaletto discreto e di brave terre negli Abruzzi, se domani avesse avuto bisogno d'una somma, mettiamo d'otto o diecimila lire, gli sarebbe toccato ricorrere alla firma d'un amico.
In piazza della Minerva, sul punto di separarsi:
– Marchese mio, dovrebbe farmi un piacere: conosce lei il commendatore Tanlongo, direttore della Banca romana? non importa, lo conosco io, siamo amici; egli sarebbe disposto a togliermi da un piccolo imbarazzo momentaneo.... se lei mi fissa per domani un appuntamento, andiamo insieme alla Banca.... non si tratta che d'una pura formalità burocratica, senz'ombra di rischio....
– ....lo stesso commendatore Tanlongo mi ha manifestato il desiderio di fare la sua conoscenza.... ha letto tante volte sui giornali cattolici il nome del marchese Cybo.... e lei troverà una persona.... una persona veramente.... già, in politica e in religione la pensa come lei, e poi d'una tale squisitezza di modi.... e in materia d'affari d'una tale....
– Quanto le occorre? – generoso e fiero nella sua debolezza, interruppe il marchese Cybo.