Remigio Zena
L'apostolo

XVIII.   Il sogno e la vita.

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XVIII.

 

Il sogno e la vita.

 

Una carrozza nel parco. Senza dubbio il medico che deve arrivar da Parigi. La carrozza si avvicina, corre sulla sabbia del viale grande, si ferma dinanzi al portone d'onore del castello. Come tutte le mattine, l'abate entra nella stanza, in punta di piedi. Dev'esser più presto del solito; si direbbe che egli non sappia risolversi a svegliare chi dorme. Non dormo, non dormo! Finalmente apre le imposte. È l'alba. Piove? il cielo è color di ferro, la luce triste non vuole entrare nella stanza. Piove.

Scendiamo in cappella. Ho freddo, batto i denti dal freddo nel venir giù per la scaletta a chiocciola di servizio dai mezzanini al piano nobile e da questo al piano terreno. L'abate ha fretta, corre innanzi col lume e mi tocca seguirlo a tentone. Anticipa la celebrazione della messa quotidiana perchè mia madre possa assistervi, nel mentre il medico di Parigi, che ha viaggiato l'intera notte, è andato a riposare, prima di recarsi al letto dell'infermo. Chi sa da quanto tempo mia madre è già al suo solito posto, presso la balaustra dell'altare, in ginocchio, aspettando e pregando.

Anch' io, nel servire la messa, faccio ogni sforzo per pregare con fervore, ma le distrazioni mi assalgono; ho il cuore stretto da un'angoscia come di paura. Ho freddo. L'oscurità della cappella non mi è mai sembrata così tetra, così lugubre come questa mattina la voce bassa del sacerdote; rispondo, e la mia voce non mi sembra più la mia voce solita. Quattro candele all'altare, due sulla mensa, due rischiaranti la statuetta di Nostra Signora di Lourdes: ma se volgo gli occhi alla Vergine con intenzione ferma di supplicarla, l'imagine bianca si nasconde, sparisce dietro una nuvola giallastra, e non vedo più se non le due fiamme vacillanti che si alzano, si abbassano, s'incrocicchiano. Forse son le lagrime che mi offuscano la vista.

Ma non piango; prima di cadere, le lagrime sono già secche, bruciate. Tra il Sanctus e l'Elevazione il rumore di passi dei domestici e dei contadini che entrano alla spicciolata e si raggruppano in fondo nelle ultime panche, è cessato; tutti pregano; sento che un pensiero ci unisce tutti in una sola preghiera e tutti quanti pensiamo all'uomo venuto da Parigi: è lui che deve dare la sentenza di vita o di morte, dentr'oggi, tra un'ora!

Recito il Confiteor. Mia madre, sotto il velo amplissimo, si accosta per la comunione, insieme a due cameriere. Non so se è inavvertenza mia o un tremito della mano: volendo accendere la torcia alla lampada del Sacramento, questa si spegne d'improvviso; piombiamo nelle tenebre; una delle cameriere, la più giovine, inginocchiata sui gradini della balaustra, manda un urlo, stramazza.

 

Dopo tanti anni, dai primi dell'adolescenza ad oggi – tanti, per chi non ha celebrato ancora il giubileo del suo battesimo – come mai, non evocati da uno sforzo di volontà e di memoria, sorgono spontanei dal passato siffatti particolari e nella loro successione si riaffacciano alla mente, limpidi, precisi, con tutta la loro crudeltà ripigliando dall'inizio una litania di giornate dolorose? Subitamente scomparsa fin da allora ogni traccia delle impressioni momentanee, ora pure svanito il ricordo delle circostanze, pochi mesi l'avevano cancellato, ed oggi, tornate vive le impressioni, tutte le minime circostanze tornate presenti come in uno specchio, l'anima è di nuovo fanciulla.

Se sognasse? non sogna. Le due coscienze si alternano, quella del passato e quelle del presente, ma la visione lucida della realtà non si arresta; il corpo dorme, ma l'anima è vigilante.

Penosa vigilanza dormire e saper di dormire; sapersi lungo e disteso, inerte, e non aver potenza volontà di muovere un dito o d'aprir gli occhi; pensare dormendo, invece di sognare.

 

Siamo a tavola. Il celebre dottore parigino, dell'Istituto, come mi ha detto l'abate, e medico dell'Imperatore e dell'Imperatrice, è seduto a destra di mia madre: un uomo piuttosto vecchio, alto, sbarbato, molto meno rebarbativo di quanto m'immaginavo, tutto cerimonie e complimenti. Somiglia a un ritratto di Lamartine, che ho sempre visto appeso al muro nella biblioteca, in riga con Giuseppe De Maistre, Chateaubriand, Montalembert. Quantunque sia medico dell'Imperatore, mi piace e gli voglio bene, dopo aver saputo in gran confidenza dal maestro di casa che diede non solo buone speranze, e avevamo torto d'essere quasi atterriti per la sua venuta, ma assicurò la guarigione e precrisse assolutamente un viaggio in Italia. Anch'io andrò in Italia, vedrò l'Italia, il nostro palazzo di Genova.... in fin dei conti, sono anch'io italiano e voglio conoscere la mia patria.

C'è pure a tavola il medico curante, che viene ogni giorno da Tourouvre a Beaumesnil, spesso due volte al giorno, e non ha saputo far altro che metterci addosso la paura d'un pericolo imminente. Non posso soffrirlo: un imperialista! alla presenza di mia madre si guarda bene dall'aprir bocca, ma se si trova un momento solo coll'abate, è una discussione continua, e siccome ha la voce più forte dell'abate, caricando d'improperi Pio IX e il conte di Chambord, finisce per aver sempre ragione lui. L'altro giorno, davanti a me, credeva che io non ascoltassi perchè fingevo di leggere la mia grammatica latina, ebbe l'impudenza di dire: se il marchese Ademaro, italiano com'è e buon liberale, amico dell'Imperatore, non passasse più di sei mesi dell'anno lontano dalla Francia e segnatamente non fosse ridotto di salute com'è ridotto, voi altri in castello non alzereste tanto la cresta contro le libertà nazionali, non fareste tanti tridui e tante novene per la caduta dell'Impero e il ritorno dei vostri stupidi gigli.

Fossi stato due dita più alto di quel che sono! I ragazzi non hanno voce in capitolo. Mi convenne tacere, buttai con impeto il libro sulla tavola e uscii dalla stanza, irritato, senza neppur rispondere all'abate che mi richiamava. Con quale diritto questo signore manca di rispetto, in faccia a me, alle opinioni della mia famiglia? mio padre non è francese, ma se lo fosse, anche lui sarebbe realista, e lui pel primo è glorioso delle nostre memorie tinte di sangue fedele. Dalla sua bocca ho imparato la storia del conte de Limoëlan, avolo di mia madre, implicato in una congiura ai tempi del Terrore, e che insieme alla contessa De la Fonchais, nostra zia, salì il patibolo, come Maria Antonietta rifiutando l'assistenza d'un prete rivoluzionario; fu lui, mio padre, che magnificò cento volte la fedeltà di mio avolo Chateau-Ponsac, comandante delle Guardie del Corpo, che accompagnò a Cherburg il re Carlo X e al momento dell'imbarco per l'esiglio gli consegnò, in ginocchio, lo stendardo bianco del reggimento.

Ma a colezione stamattina mi piglio la rivincita: il professore, che aveva osservato nella sala rossa il ritratto grande a olio del conte di Chambord, espresse a mia madre la sua ammirazione per l'opera d'arte, e il suo collega di Tourouvre, voltatosi verso di me, in aria sardonica mi domandò se sapevo chi era Chambord; gli dissi: è il re di Francia, ma non è il mio re, perchè io sono legittimista italiano, come mio padre.

Tutti quanti risero della battuta, applaudirono, mi portarono ai sette cieli. Mia madre sola non rise; non son più avvezzo a vederla ridere.

 

Ah! le sue lettere di questi giorni, così piene di tristezza! l'ultima sua lettera così dolorosa, nella quale indovina che per la prima volta suo figlio non è sincero con lei! Trascorse il tempo e l'ha ricondotta alle giornate di spasimo. Se credeva d'aver pianto in cappella tutte le sue lagrime, tutte ai piedi della statuetta di Nostra Signora di Lourdes, suo figlio si è affrettato a disingannarla.

Perdona a tuo figlio, povera madre: ritornerà; anche lui ha sofferto: ritornerà. Nella visione dei tuoi occhi dolci che non hanno mutato mai, dei tuoi capelli bianchi e delle tue mani bianche di giovinetta, della tua persona esile e stanca che si consuma nell'adorazione come una lampada si consuma dinanzi al Santissimo Sacramento, svanisce dalla memoria l'imagine d'ogni altra donna.

 

L'eterna sigaretta accesa tra le labbra, una montagna accanto a lui di giornali francesi, italiani, tedeschi, altri spiegazzati per terra, altri sparpagliati sulle seggiole, mio padre non abbandona più la sua camera la sua poltrona a sdraio, se non per scendere una mezz'ora in giardino quando c'è un po' di sole, portato a braccia da due servitori e trascinato in carrozzella.

Mia madre ed io quasi sempre l'accompagniamo nella breve passeggiata. È taciturno; se parla, non si lagna dei suoi patimenti e non discorre volentieri che del nostro prossimo viaggio in Italia, fisso nell'idea di voler restaurare da capo a fondo il nostro palazzo abbandonato di Genova, ma spesso, tutto ad un tratto, gli si intorbida la memoria, confonde i nomi e i luoghi o non riesce a trovare quello che cerca; allora diviene pensoso, non ci ascolta più, ammutolisce.

A stento possiede l'uso delle braccia. Colla sua barba bionda che gli incornicia il volto, accurata, profumata, la bella testa conserva l'aspetto giovanile. Sia abitudine, sia tenace proposito di voler resistere, egli non tralascia le sue raffinatezze d'eleganza nella persona; il suo crucio è di non lavarsi mai abbastanza le mani e non fa che lavarle continuamente; gli accade talora a metà d'un discorso d'interrompersi per contemplarle, esaminarle a lungo in tutti i sensi, come se una macchia o molte macchie improvvise gli fossero apparse sulla pelle, inasprito se non gli si reca subito l'acqua appena la richiede.

Da anni i sei mesi di campagna che soggiorniamo a Beaumesnil preferisce ripartirli tra Vienna e i nostri possedimenti d'Ungheria. L'ultima volta giunse inaspettato, dopo un solo mese d'assenza; lettere telegrammi. Un tempo, ad ogni suo arrivo, una festa di regali per mia madre, per mia sorella, per me, questa volta nulla; era agitato, cupo; ripartì per Parigi il secondo o il terzo giorno; durante tre settimane non ci scrisse una riga; mio zio Armando lo ricondusse, già agguantato dal male; sembra che una notte la pattuglia dei gendarmi l'abbia arrestato vagabondo nel bosco di Vincennes, delirante.

Ha bel dire il famoso professore dell'Istituto che quanti medici furono chiamati a consulto dal principio ad oggi non capirono nulla della malattia o ci spaventarono senza motivo. Giunge ogni sabato e riparte la domenica sera. Ha bell'assicurarci che si tratta d'un attacco nervoso passeggero, garantir prossima la guarigione: ahimè! nessun indizio di guarigione, purtroppo! il tempo passa, nessun indizio. Nasce il dubbio che, per una stolida pietà egli voglia ingannarci, oppure egli solo non abbia occhi, accecato da Dio.

La cameriera giovine, quella che una mattina in cappella, al momento della comunione, stramazzò svenuta, assalita da convulsioni, è la sola persona da cui mio padre acconsenta d'essere servito e è lei tra i domestici quella che gli sta attorno indefessa, lo assiste con maggiore sollecitudine. Per disgrazia, ebbe ieri un secondo accesso, terribile, nel mentre gli porgeva da bere. Il dottore la dichiarò epilettica; si dovrà licenziarla; ma fu atroce l'impressione di spavento che mio padre risentì, per qualche minuto trovatosi lui solo, faccia a faccia con quella creatura che si contorceva, si dibatteva sul pavimento, la schiuma alla bocca e le pupille stralunate.

Il delirio non tardò a sopraggiungere. Parole tronche, lo sguardo atterrito; vedeva nel delirio qualcuno che avrebbe voluto soccorrere; gridava nel delirio: è morto?... è morto?... agitava lo braccia per svincolarsi da chi lo teneva; quali altre parole proferiva? tedesche? so che io non le comprendevo: tremavo e battevo i denti, esterrefatto. L'abate volle condurmi via; mi ribellai.

 

È morto, l'abate. Ero in collegio quand'è morto a Orléans d'una tisi galoppante. Un bravo prete, raccomandato a mia madre dal suo vescovo, monsignor Dupanloup; figlio di campagnuoli, non certo un'arca di scienza, ma alieno da qualunque intrigo, semplice ed umile nella sua pietà. Professava per mia madre e pei Chateau-Ponsac una devozione estatica che avrebbe raggiunto il sacrifizio della vita e nel mentre, forse fin troppo, compativa alle mie birichinate, non sapeva ammettere che io mi dicessi italiano. Leggeva assiduamente l'Univers, il suo profeta ed oracolo era Luigi Veuillot e ne divideva gli sdegni e i preconcetti non soltanto contro la rivoluzione italiana, ma in genere contro l'Italia, contro tutto ciò che era italiano, al punto che da un viaggio a Roma tornò scandalizzato dei prelati romani, e ne scrisse a Veuillot, senza conoscerlo affatto, una lettera di desolazione.

Non si dava pace della loro elasticità nel saltare a piedi giunti ostacoli che egli riteneva insormontabili per precetto divino: non rubare.... non dir falso testimonio.... – Lo spirito gallicano, che pizzica più o meno di giansenismo, intacca ancora oggidì il prete francese e assai facilmente suscita in lui lo scandalo del peccato dove peccato non esiste, pure, in questo momento, mi lascio anch'io tentare da un impulso che ha qualche cosa di iracondia o di astio: ho torto, ho torto, ma perchè volle ingannarmi monsignor della Stanga, lui, coll'abito che porta, usando un volgare sotterfugio? da quali conseguenze mi avrebbe preservato se fosse stato sincero! non mi rassegno: da nessuno, tanto meno da un sacerdote rivestito d'un'alta dignità, non meritavo di esser preso a zimbello. E quelle reticenze sulla tragica morte del principe Brancovenu? caduto da cavallo o ucciso in duello, che ne importava a me, che allora venivo come messo mandato e fino a pochi momenti prima ignoravo l'esistenza d'una famiglia Brancovenu? poichè dalla bocca di lui non ero degno d'apprendere la versione autentica, inutile farmela sospettare, a me che non c'entravo per nulla, a furia di mezzi termini o con un'aria lugubre da catafalco.

Inutile!?... monsignor Della Stanga non è uomo da parlare a caso da sciupare il tempo in

 discorsi inutili: certo aveva in mente il suo scopo determinato nell'usarmi una specie di violenza per trattenermi oltre i limiti della consuetudine ad ascoltare un triste capitolo di romanzo.

Non so perchè, il ricordo di quell'ostinazione è un chiodo rovente nell'anima mia; il pensiero di quella morte misteriosa d'uno straniero che non ho mai conosciuto visto, mi fa rabbrividire come se fossi coinvolto nell'assassinio.

Lo vedo, l'assassinato! voglio svegliarmi! so che è illusione del sogno, eppure lo vedo a terra.... boccheggiante in una pozza di sangue.... voglio svegliarmi!

Non basta la mia volontà; lo sento: ce n'è un'altra volontà, c'è una forza invincibile che mi mantiene cadavere in questo stato. Fino a quando? sarei morto? pensano i morti e rammentano, come io penso e rammento, nella plenitudine della loro coscienza? aspettano così il giudizio di Dio e dopo il giudizio di Dio l'assunzione o la caduta nell'eternità?

 

Quanta gente in castello! mio zio Armando e sua moglie, mio zio Stanis, la vecchia duchessa di Montmorency coi suoi due nipoti i fratelli De Maistre che arrivano da Roma, i miei cugini Pietro de Limoëlan e Alberto de la Chevalerie, mia zia la Fitz-James.... tutti venuti per la festa di mia madre: Santa Giuliana. Al mattino gran funzione in cappella: un vescovo missionario del Tonchino, colla barba bianca, di passaggio al castello dei Montmorency, poco discosto da noi, m'impartisce la cresima. Infiammato dal suo discorso, nel quale rammenta dall'altare i suoi venticinque anni di vita apostolica tra gli infedeli, i pericoli corsi, le immense fatiche, il martirio di parecchi suoi compagni, prometto a Gesù Cristo, ora che da pochi istanti son suo soldato, di dedicarmi a lui nell'apostolato della fede.

Non ho visto da un pezzo mio padre così raggiante. Del malessere che l'aveva colpito quando eravamo ancora tutti a Parigi e lo rendeva d'un umore tetro, non esiste più traccia. Per diversi giorni di seguito rende con magnifica cordialità gli onori di casa ai suoi ospiti: dispone il lunch nel boschetto dei tigli e l'illuminazione fantastica nel parco, dirige il giorno dopo le corse dei cavalli con ostacoli e corre anche lui, organizza la caccia al cervo nella foresta di Saint-Luc.

Riesce stupenda la caccia: tutti a cavallo, uomini e signore. È la prima a cui piglio parte: sul mio poney, la giubba rossa, il berretto di velluto e il fucile ad armacollo. Galoppo a fianco di mio zio Stanis, che mi ha preso sotto la sua vigilanza. Abbaiano i cani, squillano i corni da ogni parte. Si galoppa a precipizio in mezzo al frastuono senza veder nulla, si galoppa come ubbriachi nella vertigine. Il cervo! chi sa dov'è il cervo? chi l'ha visto? La foresta trema, le fanfare dei corni son più fragorose, l'urlo dei cani incessante. Mi fermo per prender fiato: Stanis non è più con me, son solo.

Scorgo a breve distanza tra gli alberi un uomo coricato; impossibile che dorma; smonto, mi accosto: un uomo ancor giovane, vestito in modo curioso da pellegrino.... è svenuto. Non so far altro che fargli inghiottire un sorso di cognac dalla borraccia che ho in tracolla. Si rianima a poco a poco: fu buttato a terra e calpestato dai nostri cavalieri; ha il volto pieno di lividure, si scopre il petto e le braccia sanguinolenti. Mi racconta che viene dalla Brettagna; era paralitico; gli apparve la Beata Vergine, lo guarì istantaneamente, ingiungendogli di recarsi a Roma a piedi elemosinando, visitare i principali santuari di Francia e d'Italia, e giunto a Roma, manifestare al Santo Padre un gran segreto. Io gli domando: quale segreto? e lui: non lo so; quando sarò in presenza del Santo Padre la Buona Vergine me ne farà ella stessa la rivelazione e mi inspirerà ciò che dovrò dire. – Rimango attonito, compreso di riverenza per un uomo così privilegiato da Dio nella sua povera santità; lo tempesto d'interrogazioni, e Lourdes e la Salette, e in ragionamenti divoti conversiamo d'altri esempi miracolosi avvenuti in tutte le parti del mondo, tanto che mi scordo della comitiva. – Fattosi lontano, lontanissimo, ora ogni strepito è cessato. Uno dopo l'altro, di qua e di , giungono a spron battuto, trafelanti, vari cacciatori mandati sulle mie tracce; al rendez-vous de chasse tutti sono inquieti per me, tutti quanti per cercarmi si son dispersi nella foresta. Voglio far accompagnare in castello il pellegrino, dove sarà medicato delle sue ferite e troverà asilo per questa notte, ma egli si rifiuta. Mi dice con mestizia nel lasciarmi, e veramente non capisco cosa intenda di dire: povero fanciullo, vi hanno già coperto di rosso perchè non si veda il sangue?

Pare che sia un pazzo. Verso sera, venendo la cavalcata nella festa clamorosa del ritorno, mia madre e la Montmorency in mail-coach, all'uscire dal bosco lo scontriamo, attorniato da una folla inferocita, urlante, che lo spinge e lo percuote. Si vocifera che abbia predicato in paese il castigo di Dio imminente, la guerra e l'esterminio, la Francia sconfitta, invasa dai prussiani, a ferro e a fuoco. Stentiamo a liberarlo, sotto la nostra protezione lo conduciamo fino alla porta del castello, ma non vuol saperne d'entrare; dichiara che ha fatto voto di non metter piede, durante il pellegrinaggio, in niuna casa signorile, e poichè alcuno tenta di trascinarlo a forza, si afferra alle briglie dei cavalli, dibattendosi, chiama in soccorso l'arcangelo San Michele. Sembra che riconosca mio padre: nel trambusto gli si pianta dinanzi per intimargli quasi minaccioso: lasciatemi libero! poi s'inginocchia e lo supplica: pregherò per voi, pregherò la Buona Vergine Maria che vi tenga e vi protegga nella vostra famiglia; non ascoltate chi vi chiama in paesi lontani, è la voce della morte! le spade son cieche, rompete la vostra spada! – Che linguaggio è questo? pretendono tutti che si tratti d'un pazzo o d'un allucinato e si discorre di farlo rinchiudere in un manicomio; l'abate va più in : non solo non vuol credere alle apparizioni della Vergine, di cui il pellegrino si vanta, alle sue fosche predizioni, ma lo giudica volentieri un farabutto che trova il suo tornaconto a trafficare sull'umana credulità, a costo di qualche sassata.

 

Eppure se al farabutto o al pazzo gli avesse dato ascolto il mio povero padre, ho fede che tutt'altra sarebbe stata la sorte. Venendo con noi da Parigi sulla fine d'aprile, era fermamente deciso di non muoversi quest'anno da Beaumesnil, vagheggiava per l'estate e l'autunno i più lieti progetti d'ospitalità, aveva cominciato a metterli in atto nei festeggiamenti per mia madre, ed ecco l'improvvisa risoluzione di partire. Ignoro se lo chiamassero i continui telegrammi che riceveva da Vienna: forse. Era addolorato nel lasciarci, d'una tristezza affettuosa e rassegnata, come se obbedisse a un destino. Lo accompagnammo in carrozza alla stazione di Tourouvre; tutto il tempo tenne sulle ginocchia mia sorella, che l'abbracciava stretto e gli diceva: papà.... papà, non partire! Anche noi avevamo il cuore soffocato da un presentimento di sciagura; per consolarci egli ripeteva che sarebbe tornato presto.... e tornò dopo un mese, in quello stato!

 

Appena ci conosce, non sempre; quando gli conducono mia sorella ed ella vorrebbe arrampicarglisi in braccio, il più delle volte, accarezzandola, chiede se è la figliuola d'Armando. Rari sono gli intervalli di coscienza perfetta o quasi, dal giorno che lo spettacolo dell'epilettica, avvenuto sotto i suoi occhi, lo atterrì; le fughe istantanee della memoria e le assenze dell'intelletto si moltiplicarono, divennero più lunghe, finchè ormai aspettiamo con ansia quotidiana e troppo presto vediamo di nuovo svanire i brevi momenti di lucidità. Non fuma più, non legge più, o se di tempo in tempo un'occhiata a qualche giornale, non si raccapezza nella politica e medita sugli annunzi della quarta pagina. Parla con molto sforzo e gli mancano i vocaboli. Spesso mi racconta, nelle sue ore buone, d'aver preso parte alla rivoluzione d'Italia, d'aver combattuto contro gli Austriaci in Lombardia e a Venezia; più tardi, quand'era a Pietroburgo al servizio del governo piemontese, d'esserne stato pagato d'ingratitudine da un ministro e averne ricevuto nell'amor proprio un torto così crudele, che non volle rassegnarsi rimpatriare mai più. Discorre con me come se io fossi una persona grande e molte cose non le capisco e ad un tratto cambia il francese in un linguaggio che dev'esser tedesco; parla tristamente, evitando ogni allusione al suo male, salvo nell'affrettare, coll'ardente desiderio, il giorno della partenza per l'Italia. Ma nelle ore tetre, quando non ci riconosce, quando tace e mormora frasi inconscenti, tedesche per lo più, o canticchia sottovoce, è uno schianto vederlo senza pensiero, cogli occhi immobili dove la luce dell'anima non traspare.... e noi implorare uno sguardo e non ottenerlo, chiedere invano la carità d'una parola che ci risponda....

L'abate non fa che ripetermi: figliuolo mio, volgetevi al Sacro Cuore di Gesù....

Dio è sordo. Non c'è più speranza. Il medico di Parigi non vien più, altri medici famosi si son chiamati da Parigi e da Londra, ne giungono sempre di nuovi, tutti crollano il capo e finiscono per dir tutti lo stesso: non c'è più speranza.

Un andirivieni continuo di parenti, d'amici: corte bandita, se non fosse la costernazione della casa; per quanta gente abbiamo a tavola, il mattino e la sera, i pasti sono silenziosi, brevissimi. Armando e Stanis si danno la muta di settimana in settimana; la duchessa di Montmorency, vecchia e zoppa com'è, non tralascia un giorno di visitar mia madre, soventi si ferma fino a notte tarda, con grande giubilo dell'abate che è sempre il primo ad andarle incontro, glorioso d'offrirle il braccio e lungo le scale servir d'appoggio alla figlia di Giuseppe De Maistre, rimanere con lei in salotto a ragionare d'alta politica.

A me non lo dicono, ma indovino che l'importante politica della duchessa è quella d'adempiere all'ufficio di cui volle assumersi il peso per zelo di carità cristiana, ossia predisporre adagio adagio l'infermo alle cose dell'anima, senza che egli lo sospetti: nel momento propizio va a sederglisi accanto, lo intrattiene e lo svaga coll'abbondanza inesauribile dei suoi ricordi, non lo stanca e non lo tedia, ha l'accortezza di farsi desiderare.

È un suo segreto com'abbia saputo cogliere destramente l'opportunità d'avviare il colloquio sull'argomento scabroso. Si attende per domani il padre Dechaux, gesuita, chiamato per telegrafo; segno che il confessore fu accettato o per lo meno, poichè il nostro abate non conta, siamo certi che l'apparizione del prete nella stanza non porterà il terrore con . Ascolto la duchessa che dice a Stanis: è uomo di mondo il padre Dechaux: sapete che fu ai suoi tempi segretario d'ambasciata prima di farsi gesuita; era intimo amico a Pietroburgo del marchese Ademaro, poi varie volte si sono incontrati a Parigi non so dove e l'uno e l'altro rinnovarono sempre con piacere la vecchia amicizia.

 

Il gesuita è arrivato con Armando il giorno successivo a quello in cui era aspettato, con nostra meraviglia vestito in abiti signorili da borghese, senza dubbio per delicato sentimento d'ammorzare la prima impressione. Troppo tardi: mio padre lo riconobbe, si abbracciarono, ma ravvisandolo, per uno scompiglio di idee lo tramutò nel suo cervello con un altro dei suoi amici di gioventù, ostinandosi a parlargli in tedesco e irremovibile nella fissazione di voler essere compreso a qualunque costo. Non valsero i ragionamenti a persuaderlo dell'errore, l'offerta delle prove il rammentargli i preliminari che ebbe con lui la duchessa circa la venuta del padre Dechaux.

Da allora in poi il francese è sparito del tutto dalla sua memoria. Apposta per lui si è fatto venire un servitore alsaziano che parla tedesco e serve da interprete. Quante volte gli entra nella stanza il gesuita, rimasto qui fiducioso in un repentino risveglio, se mio padre è soccorso da un barlume di ragione lo accoglie benevolmente, però non è punto dissuaso dalla sua prima idea, tenace a vedere in lui tutt'altri che il padre Dechaux, e questi per compiacenza non tenta nemmeno più di contraddirlo. Racconta l'alsaziano sotto il sigillo del segreto al maestro di casa, che viene subito a riferirmelo, che facendo da dragomanno ne impara delle belle: secondo l'infermo, quel bravo sacerdote che dice tutti i giorni la sua brava messa in cappella, non sarebbe che un chirurgo esimio di Vienna; il signor marchese gli canta in musica: perchè ostinarvi così a non volermi parlar tedesco? e batte e ribatte lo stesso chiodo: le spade son cieche, vanno quasi sempre a ferire chi non ha colpa, ma voi perchè non salvarlo quell'uomo? la colpa è mia, io sono lo scellerato, ma voi perchè non salvarlo?... dovevate salvarlo a qualunque costo!...

Il padre Dechaux è partito, la Montmorency è partita.

 

E così le settimane passano, lente, dolorose. Nevica. Sotto l'oppressura del cielo plumbeo si allarga intorno a noi la malinconia bianca della neve.

E così a poco a poco, ridotto in una solitudine che il nostro affetto non consola, mio padre ha perduto l'ultimo raggio dell'intelletto. L'ultimo! Le desiderate intermittenze, per quanto rare e brevi, non si affacciano più, mai una domanda una risposta uno sguardo o un segno di volontà; canticchia, inerte, gli occhi di vetro rivolti sempre al di delle vetrate, fissando la campagna bianca nel suo squallore, senza accorgersi di noi che lo assistiamo trepidanti; per ore ed ore canticchia sotto voce, sempre la stessa, una cantilena ignota.... sempre la stessa.... iek, ta dui, ta trin, ta stâr....

 

Mi rammento! ma dove l'aveva imparata il mio povero padre cotesta canzone di Nicoletta Brancovenu?


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