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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Marco Cybo si svegliò, balzò a sedere sul letto, afferrandosi alle coltri, non ben sicuro d'aver riacquistato il possesso di sè medesimo. La cantilena selvaggia gli ronzava nelle orecchie, ma non cesellata dall'arte e dalla grazia d'una voce fresca femminile, bensì errabonda sulle labbra d'un paralitico idiota. A lunghe strisce penetravano da alcune fessure nelle imposte i chiarori dell'alba.
Suo primo pensiero: il vaticinio della Naim si era avverato: "domattina all'alba vi rammenterete!” E poi questo, subito: sarà partita Nicoletta? partita colla Naim?
C'era tempo: il treno diretto del mattino per Firenze non partiva che alle 9,35. Nel separarsi gli aveva detto a Marco, quasi mostrandosi afflitta di non poterne secondare il desiderio che ella rimanesse: "ho promesso di accompagnarla” e Marco si contristava di non averla supplicata abbastanza. Colla Naim! Quale stretto legame l'univa a cotesta, donna di nequizia, tanto da non sapersi sciogliere da una promessa inavveduta? E le loro moine, quel nauseabondo tenerume tra donna e donna, sorto da un giorno all’altro, cresciuto repentinamente, viscida manifestazione carnale d'una familiarità non consentita da niuna amicizia?
Avrebbe dovuto insistere, Marco. Forse era ancora in tempo. Un'onda d'amarezza gli saliva alla gola e nella sua ignoranza dei peccati non si rendeva ragione che era amarezza di gelosia, che gli bruciava il sangue il sospetto confuso d'una turpitudine. Se davvero per non umana ispirazione si era prefisso la cura d'un'anima, tutti i rispetti umani avrebbe dovuto vincere, affrontare qualunque rischio, ma quest'anima pericolante non lasciarla cadere nell'agguato. Non tanto a lui volevano strapparla, come impedirle di avvicinarsi a Dio: in buona fede, certo, anche Tommaseo era del complotto, e chi sa per quali nemiche suggestioni unendosi alla principessa madre per muovergli guerra, forse favoreggiando l'andata a Firenze, non supponeva di partecipare a un delitto.
Colla Naim! – Se non avessero avuto in mente che di rompere il capriccio amoroso, non sarebbe stata così scempia la baronessa da proporgli a Marco Cybo, o non per formalità lepida o vana, d'esser terzo nel viaggio o nel soggiorno a Firenze; tale dominio aveva conquistato sulla vacillante creatura, che della presenza di lui si sarebbe giovata pei suoi fini, invece di temerla; voleva fargli assaporare tutte le torture e goderne e schernirlo, gloriosa di abbattere coll'amore terreno la fede incipiente nell'anima della vittima, e godere e schernirlo, lui, l'apostolo! – Vi siete ritirato, Signore, per suo castigo da questo ludibrio d'apostolo!
E se egli tentasse ancora e ardisse sfidare il sortilegio della strega? vediamo: se egli accettasse la proposta temeraria? Concordi, le voci intorno lo stimolano: l'orgoglio del buon sangue: va, incede per ignes; avresti paura? lo zelo dell'apostolato: va, c'è un'anima da proteggere e da salvare; il cuore, il povero cuore ferito: va, ella ti abbandona, raggiungila, sei ancora in tempo, non la vedrai più se la lasci partire senza di te! – Ma più forte di queste voci, un terrore nuovo lo agguanta, più desolato della sua stessa sfiducia: le impure tentazioni che da un pezzo si erano assopite nel verecondo supplizio tutto spirituale, si son risvegliate; quante volte gli passa davanti agli occhi l'imagine della Naim, altrettante si rinnova l'assalto formidabile; rammenta le parole di Rizzabarba, rammenta e crede d'indovinare le parole di lei, la fiamma del suo sguardo, l'audacia e il sussulto delle sue strette di mano; l'abborrisce e la desidera d'un desiderio iniquo, ribelle alla volontà, si sente impregnato del suo odore; la scaccia e ritorna; prega, e sacrilega gli interrompe l'orazione mattutina; vorrebbe rifugiarsi nel pensiero casto di Nicoletta, e Friscka si fa innanzi, sfrontata come una sgualdrina, a braccetto dell'altra, cantarellando: yek, ta dui, ta trin, ta stâr....
Entrò il cameriere con due lettere pel signor marchese: una lasciata abbasso ieri sera, pochi minuti dopo che il signor marchese era uscito; l'altra giunta in quel momento.... forse c'era risposta, il groom della pensione Cook aspettava.
–– Vada pure, non c'è risposta – disse Marco Cybo appena lacerata la busta – che ora abbiamo? – domandò.
– Le otto e quaranta. Comanda niente il signor marchese?
– No, grazie.
Aveva già disuggellato l'altra lettera: di ritorno a Roma la vigilia, il padre Albis gli rammemorava semplicemente, come a voce già aveva fatto il padre Cornoldi, la muta degli esercizi spirituali che si sarebbe iniziata quel giorno alla villa Sabina nelle ore pomeridiane; poche righe, non calde esortazioni nè severi ammonimenti, quasi un avviso sacro da diramarsi tra i fedeli prescelti; soltanto in ultimo un versetto suggestivo e consolatore: ibi est locus refugii a facie inimici, abluitur quidquid aliunde contractum est et inquinatum.
Marco rilesse il biglietto di Nicoletta, o meglio la frase unica scritta in furia col lapis, forse di nascosto, manifestamente sotto l'impulso d'un'ispirazione o il terrore d'un pericolo: “pour l'amour de Dieu, trouvez-vous ce matin à la gare, avant le départ du train”. Senza firma. Un grido supremo implorante soccorso.
Non c'era da esitare. Ogni controversia acquetata, scomparsa ogni paura, fu pronto in un attimo, uscì e in carrozza, per la via più sollecita, alla stazione. Il tragitto non gli parve mai tanto lungo. Cocchiere, sferza! E più il cocchiere accelerava, più era lenta la salita di Magnanapoli e via Nazionale interminabile. L'idea di non giungere in tempo gli toglieva, flagellandolo, la percezione dell'opera sua imminente, quando si fosse trovato al cospetto delle due donne: quali ostacoli gli si sarebbero parati dinanzi e come sarebbe riuscito a superarli, quale novità e quale resipiscenza avessero determinato il pentimento improvviso di Nicoletta e il suo messaggio in questua d'aiuto e perchè si recasse alla stazione se aveva mutato consiglio, tutti pensieri che balenavano e sparivano a guisa di lampi; essere là, lui, essere là, non vedeva altro, non si cruciava d'altro, come se fosse bastata la sua presenza a scongiurare il crollo dell'universo.
Ma appena sceso e posto piede nell'atrio si sentì barcollare, la sua timidità lo riprese, tutta la sua debolezza gli si rivelò. Eccolo giunto: ed ora?... o se la Naim gli fosse venuta incontro lei per la prima? – Poca folla nell'atrio; immobile sotto una delle porte d'ingresso, abbracciando agevolmente coll'occhio l'intera sala e fatto certo che le due viaggiatrici non erano peranco arrivate, provò come un brivido d'allegrezza: buon segno: piacendo a Dio, si poteva argomentare da cotesto indugio che avessero deciso altrimenti; senonchè, neppure a farlo apposta, l'orologio lassù in alto, sempre inesorabile nella sua corsa vertiginosa, questa volta aveva una pazienza da santo e camminava a passi di tartaruga; circa venti minuti mancavano all'ora della partenza, esuberante margine d'aspettativa e d'ansietà.
Non lasciarsi scorgere a tutta prima, rimpiattarsi nell'ombra e tra un gruppo di soldati, in appostamento dalla parte dove il casotto dei giornali forma angolo col Comando militare di stazione, sembrò a Marco Cybo la tattica da preferirsi, dopo essersi munito d'un biglietto d'ingresso. – Verranno? non verranno? Più celere si faceva il martellio del cuore e più forte, quante carrozze si fermavano sul piazzale, quante signore smontavano con borse e sacchi da viaggio: eccole! Non erano esse. – Voi lo sapete, giovani innamorati, com'è tormentosa la trepidazione impaziente d'aspettare chi si desidera, ma l'ansia d'aspettare chi si vorrebbe che non venisse? – Minuti eterni: gli orologi pare che sfidino il precipizio del tempo.
Eccole!
Sono esse questa volta. Aperto lo sportello della vettura, Marco non le ravvisa bene quando scendono attorniate dai facchini che si caricano delle valigie, degli ombrelli e dei scialli: le intuisce, non pensa a togliersi dal suo nascondiglio per andar loro incontro, anzi un istinto lo fa meglio riparare nell'andito del Comando. È finita, sono esse. Nel venire avanti frettolose, Nicoletta ammantata d'una cappa verde scozzese, la Naim d'una pelliccia lunga di martora, volgono il capo di qua e di là in cerca di qualcuno tra la gente, a metà dell'atrio si fermano, poi proseguono insieme a sinistra, un momento spariscono, tornano, sempre esplorando, verso l'ingresso delle sale; qui le attende il groom coi biglietti, la Naim si distacca, è inquieta, entra seguita dai facchini, e Nicoletta rimane sola, in sentinella.
Animo! titubante o no, era tempo per Marco Cybo d'accostarsi. La fanciulla gli aveva scritto implorando aiuto per amor di Dio; quale aiuto? non importa, vedremo: eccomi, avete pensato a me nell'imminenza del pericolo, soltanto all'ultimo vi siete ricordata della mia preghiera e vi cadde la benda dagli occhi; dite, che debbo fare? son pronto!
Questo press'a poco avrebbe esplicato su due piedi a Nicoletta Brancovenu, nella certezza di comparirle dinanzi come l'atteso liberatore, ma quando lo vide, ella gli mozzò le parole:
– Siete qui, finalmente!? vi abbiamo cercato per mare e per terra; dove vi siete nascosto? – gli disse tranquilla e sorridente, e gli porse la mano.
Tranquillissima, quale un paladino non si sarebbe mai sognato di trovar la sua dama, accorso in nome di Dio a liberarla dal basilisco. Egli balbettò stupefatto:
– ....Ho ricevuto il vostro biglietto....
– Appunto, non vedendovi, si temeva che non vi fosse stato recapitato, e la baronessa voleva farmene a me una colpa e quasi se la pigliava con me, non per ridere, sul serio, ve lo dico io!
Che c'entrava la baronessa? – Nicoletta proseguì:
– Invece la colpa era vostra. Siate franco: rimaneste in dubbio prima di decidervi, non è vero? Basta, poichè siete qui, tanto meglio.... – e riconoscente, volse a Cybo un'occhiata indefinibile di soavità, come se gli chiedesse perdono –– ma non abbiamo tempo da buttar via, il treno non aspetta – ripigliò, avviandosi verso l'interno – accompagnatemi.
Cybo la trattenne, palpitante, la trattenne colle due mani:
– Proprio.... siete risoluta di partire?
L'ingenuità favolosa della domanda ne superava la tristezza.... Nicoletta fu crudele:
– Attendo che voi me lo permettiate! – rispose con uno dei suoi soliti scatti d'impazienza, forse non sempre volontari, e troppo presto in contraddizione col pentimento fuggitivo di quello stesso minuto.
A bassa voce egli la scongiurò, affrettando le parole, nell'espressione della voce e dello sguardo raccogliendo tutti i singhiozzi, tutte le amarezze, tutte le energie:
– Ascoltatemi.... non andate colla baronessa Naim.... siate buona, ascoltatemi... venite via! mi avete chiamato, son venuto.... son venuto, sicuro che già vi fosse apparsa l'idea del pericolo.... chi è questa donna? sapete chi è questa donna?... non ho diritto nemmeno di consigliarvi, lo so, non posso far altro che pregarvi come vi ho pregato ieri sera.... lasciatemelo dire, pregarvi per quel po' di bene che forse mi volete.... non andate a Firenze, non andate con la Naim, la promessa fatta poco importa, dimenticatela.... venite via, venite via!
Se avesse accondisceso, Nicoletta!
Ma Nicoletta, sorda, nel frattempo si era incamminata verso il treno e Marco l'aveva seguita supplicando, e sotto la tettoia s'imbatterono nella Naim, che correva alla loro volta da lontano, gesticolante perchè sollecitassero il passo. Tra l'agro e il dolce, ma il dolce vinse quasi subito:
– Tortorelle del paradiso – esclamò – vi faccio i miei complimenti, l'amore non vi ha dato le ali, a quanto sembra; fortuna che in Italia i treni non partono mai all'ora stabilita. Andiamo, ho trovato uno scompartimento tutto per noi e potrete continuar l'idillio, purchè non vi disturbi la mia presenza. – Marchese, mi rallegro di vedervi; buon giorno; vi siete deciso? bravo, ne ero sicura. – E la vostra valigia? – Non ve ne pentirete d'aver accettato il mio consiglio: faremo un viaggio delizioso, noi tre, e a Firenze, siate tranquillo, non vi lasceremo annoiare. – Eccoci: dov'è la vostra valigia?
Erano arrivati dinanzi allo scompartimento, l'ultimo rimasto aperto, sui sedili tutto ingombro di plaids e di borse per incutere ad altri passeggeri un sacro rispetto. Il controllore attendeva:
– Favoriscano i biglietti e prendano posto, si parte.
– Non avete biglietto? – dopo aver fatto salire la Brancovenu, in piedi sul predellino chiese a Cybo la baronessa, meravigliata di vederlo sprovvisto non della sola valigia, e divenuta a un tratto sospettosa più ancora per l'imbarazzo di lui, pallidissimo, che rimaneva fermo sull'asfalto, nell'attitudine grottesca d'un uomo colto in flagrante – non fa nulla, il signore aggiusterà i suoi conti lungo il viaggio – disse all'impiegato.
Costui teneva la maniglia, pronto a chiudere lo sportello, aspettando che il signore si risolvesse.
– Orsù! – gridava la Naim al signore – cosa fate? salite dunque! – e come una pertica al naufrago gli tendeva la mano, colla mimica dello sguardo acceso rincalzando l'invito, nel mentre Nicoletta, nella furia d'affacciarsi anche lei, stentava ad abbassare il cristallo del finestrino.
– Favorisca accomodarsi. Partenza! – più che impaziente, meravigliato, interloquiva il controllore.
– Partenza! – le voci dei guardiafreni annunziavano, vicine e lontane.
(Miseria dello scrivere: ci s'impiega un secolo a raccontar ciò che avviene in mezzo minuto: non erano passati trenta secondi dalla richiesta dei biglietti.)
– Salite!
Fu l'intimazione ultima, vibrante di collera. Marco non obbedì: se un momento vacillò perplesso nella tentazione contro la quale si dibatteva fino dall'alba, il pensiero del proprio avvilimento, qualora egli avesse ceduto, lo soccorse; non si smentisce il buon sangue: la nequizia della donna che lo chiamava, e un recondito abominio negli occhi di lei e la pertinacia crudele di Nicoletta, di Nicoletta gelida e sorda alla sua preghiera, di Nicoletta volubile e bugiarda, non avrebbero avuto potenza di trattenerlo, se l'eredità del santo orgoglio gentilizio gli fosse mancata. Non obbedì, simulando alla meglio, con stentata disinvoltura per salvar le forme, d'aver capito che la baronessa Naim voleva solamente scherzare.
Era già in moto il treno quando lo sportello fu chiuso, e Marco Cybo, a capo scoperto, rimase a salutar le partenti, fermo, finchè non le ebbe perdute di vista.
Non subito, lontano più d'una diecina di metri, il fazzoletto della Brancovenu biancheggiò un istante fuori del finestrino, sventolante in segno d'addio o di promessa. – Troppo tardi!
Crollate, abbattetevi, castelli d'illusione, seppellite nei vostri rottami la promessa di fedeltà, l'addio che annunzia il ritorno. Meglio così: la promessa sarebbe ancora un inganno, il ritorno l'atto secondo della commedia con scioglimento tragico. – Singhiozza pel distacco il cuore lacerato, lo spirito non rimpiange. Fu un'ignoranza l'aver presunto d'interpretare la volontà di Dio alla stregua del desiderio, l'aver confidato in sè stesso e nelle creature, l'essersi camuffato da missionario, disertando altra vocazione, l'essersi illuso di riparare dietro il Vangelo aperto la viltà della carne; ostinarsi, ora che dopo l'allucinazione è venuto il risveglio atroce e benedetto, non sarebbe più l'ignoranza, bensì la volontà del peccato....
Ah! questo spasimo che vi agguanta alla bocca dello stomaco! Camminando storditi come pel colpo d'una martellata sul cranio, ronza nelle orecchie e v'insegue il ritmo della canzone di Friscka, lugubre reminiscenza, pronostico misterioso; a volte pare che si offuschi la vista e traballi il selciato sotto i piedi. L'umanità vile non rinuncia ai suoi diritti, geme per l'abbandono irrevocabile, freme per l'ingratitudine nera e ostinata. Non giova persuadersi che il distacco avvenuto è la liberazione dal maleficio e nella prima chiesa buttarsi sui marmi e ringraziar Dio del miracolo e tutta l'anima offendere in una litania di penitenza, di preghiera e di promessa; non giova; irrompono i fremiti della collera tra un versetto e l'altro del Miserere, gemono i sussulti della passione. – Questo spasimo non mai provato che vi rode, vi soffoca il respiro! negli occhi aridi un bruciore e una sete di lagrime. Pare che unico sollievo sarebbe di rotolarsi per terra, implorando: lasciatemi piangere il mio dolore!
Pioveva a dirotto quando nel pomeriggio, reduce dalla Banca Romana dov'era stato coll'onorevole Venceslao per l'imprudente servizio d'un paio di firme per cortesia, Marco Cybo smontò al cancello della vigna Sabina. Niuno che gli portasse le robe sue; dovette lui, sotto la pioggia, caricarsele umilmente lungo il sentiero che conduce alle falde della collina, poi su pel viale ripido fino in porteria. Almeno un buon quarto d'ora di strada sotto la pioggia battente.
Giunse trafelato, inzuppato da torcere. Non scese il padre Albis ad incontrarlo; un padrino giovine, tutto cerimonioso non ostante la parsimonia d'inutili chiacchiere, gli fece gli onori di casa accogliendolo e accompagnandolo al piano superiore nell'ala nuova dell'Osservatorio ultimamente aggiunta, l'introdusse nella stanza già designata.
Unica richiesta, Cybo domandò notizie di Voltagisio.
– Vive nel giubilo e nel desiderio della prossima morte – levando gli occhi e le mani al cielo, rispose il confratello di Voltagisio.
Un sentimento d'onta, se non piuttosto un terrore superstizioso, trattenne Marco dall'intercedere per grazia d'esser condotto al letto dell'infermo: non sapete certe chiaroveggenze d'agonizzante, che penetrano fino al fondo nel gorgo dell'anima e ne scandagliano tutte le pusillanimità e tutti i rimorsi? Nè chiese di vedere il padre Albis; lasciato solo, trasaliva ad ogni rumore di passi nel corridoio, credendo e temendo d'indovinare chi sarebbe venuto, stava in ascolto se batteva al suo uscio la discrezione conventuale dei due soliti colpi, nell'ansia d'un reo che attende il giudice inquisitore.
Stanco di misurare i mattoni per lungo o per largo, di tempo in tempo si avvicinava alla finestra, appoggiava la fronte contro i vetri e immoto rimaneva, lo sguardo esigliato, la mente gemebonda, in una quasi evanescenza. Pioveva sempre; meno torrenziale, ma ancora tenace l'acquazzone; attraverso le verghette metalliche, fitte fitte, obliquamente flagellanti, null'altro se non una cortina di tristezza plumbea: sparito l'orizzonte romano, sparite le belle lontananze, tante volte ammirate dalle alture di Monte Mario.
E tornando a percorrere su e giù il breve spazio della cella, in quell'ora grigia che la compieta di dicembre e il tempo fosco gareggiavano a rendere più dubbiosa, non finiva d'annaspare nuovi pretesti di discussione colla propria fantasia irrequieta. La mattina, nello scender da Termini, il senatore Tommaseo l'aveva raggiunto presso il Tritone e accompagnato all'albergo, sempre misterioso come il giorno prima, guardingo nella sua studiata loquacità, ma con evidente proposito d'esser capito a volo tra i puntini e i colpi di tosse e mal celando l'insistenza circa la visita alla principessa Brancovenu; sapeva che Nicoletta era partita o piuttosto che la Naim si era trascinata seco Nicoletta, irresoluta fino all'ultimo momento, e spiattellava i torti della figlia verso la madre, le ire reciproche, le scene violentissime tra madre o figlia, e lo spediente preso da questa di fuggirsene via. – Pensava Marco: Nicoletta non aveva dunque obbedito a una suggestione altrui prepotente, bensì a un puntiglio, a un capriccio domestico? in rotta con sua madre! da quando? perchè? Destro a non rivelare il capo d'accusa specifico, Tommaseo le gettava addosso tutta la colpa, severissimo, solo denunciandone gli istinti nomadi e ribelli e la cupidigia della paterna eredità, ma era equanime Tommaseo o non parlava per deliberato progetto, forse a fin di bene? senza forse: egli sapeva, e la corta politica consumava in un'improba fatica di salvamento, da uomo onesto.
Sapeva! e tu, Marco? tentennante dapprima, hai rifiutato il colloquio a cui la principessa Brancovenu ti chiamava, più franca, più leale di te, eppure da gran tempo ciò che ella ti avrebbe detto una voce dei limbi te lo viene susurrando; inafferrabile; non lo sai ciò che ella ti avrebbe detto e ti pare di saperlo, d'averlo già inteso, d'esserne penetrato come da un tossico, e ne senti in bocca l'amarezza acre e il fuoco nelle midolla.
Prorompeva Marco, subitamente invaso dall'ansia d'afferrare il verbo di quella voce che gli sfuggiva: ho tempo ancora!
Ma la notte precipitava.
Conferenza d'introduzione del padre Albis per la prima sera, sul tema rigoroso, stabilito da sant'Ignazio: quanto importi il salvarsi e come forse da questi esercizi spirituali dipenda la mia eterna salute.
Anche fosse stato proclive a stornar la mente e a guardarsi intorno durante la predica, se non altro per dare un'occhiata ai visi nuovi dei suoi compagni di disciplina, dal suo banco Marco Cybo non avrebbe potuto raccapezzarsi nè distinguere i due che gli sedevano allato: giaceva la cappella nell'oscurità, fatta più densa dall'estenuata lampada sacramentale davanti al Tabernacolo, così l'ambiente assorbiva lo spirito, così al di là dello tenebre transitorie brillava lontana come un faro la promessa della luce perpetua. E in quel silenzio e in quelle tenebre la voce grave e ferma dell'invisibile: unde venis? ubi es? quo vadis?
Non ai congregati, a Marco Cybo, a lui solo parlava l'invisibile: non era più il maestro nè il confessore nè il padre; non gli diceva per misericordia: povera anima, tu vieni dal naufragio, ma sei giunta in porto e ti avvii verso la patria; era un trasumanato, veggente nei cuori anche i fenomeni inconsapevoli, rivelatori alle stesse coscienze dei loro segreti laberinti. Diceva in parabola a Marco Cybo: unde venis? dalle torre dei Filistei; Dio ti aveva prediletto costituendoti in Israello suo servo e suo milite, attendeva che tu combattessi per lui, e invece di combattere ti lasciasti sedurre dalle lusinghe dei pochi avversari che per provarti aveva lanciato sul tuo cammino, e, con essi disertasti lo stendardo e la patria; ubi es? in contumacia di Dio e dei tuoi fratelli; sei qui, avvilito, di ritorno perchè i Filistei non vollero più saperne di te; quo vadis? non lo sai; quella prima tentazione che doveva essere nella tua gioventù la prova del fuoco, non l'hai superata, come il pentimento d'oggi non varrebbe a farti vincere la seconda ove l'occasione si offrisse, e il tuo non è pentimento ma rimpianto, e il desiderio ti chiama ancora laggiù, vivo sempre come la speranza d'appagarlo....
Prese le mosse dal capo XIV del libro dei Giudici dove è detto che non ostante gli ammonimenti del padre e della madre, Sansone si invaghì d'una donna filistea e costei dopo il convito di nozze andò sposa a un altro, il predicatore volgeva la parabola a dimostrare l'ingratitudine degli eletti e la loro cecità volontaria nell'abbandono di Dio per le creature; non tanto si indugiava sulla fallacia delle terrestri promesse quanto sulle conseguenze d'una prima ribellione, anche sopraggiunta la grazia: versano sangue le ferite della memoria – diceva crudamente – il disinganno le inasprisce e la penitenza non le rimargina. – Che l'episodio di Sansone fosse stato scelto dal catechista con qualche malizia, non oserei negarlo: spostati ad arte e modificati i termini del confronto, la filistea appena accennata in senso allegorico, emblema di tutte le tentazioni, ma se dai vari stati d'animo dipende l'intelligenza dei simboli, certo ora Marco Cybo che doveva avere tra gli ascoltanti, lui solo, il privilegio squisito d'interpretare la similitudine ad personam.
Padre Albis, da voi cotesto castigo? dalla vostra bocca? l'avete prediletto questo figliuolo, l'avete rigenerato con un secondo battesimo di carità, soccorso in ogni tempo con assiduo patrocinio, ed oggi, perchè infermo è venuto a distendersi ai vostri piedi, vi talenta d'esporre in pubblico la sua miseria al ribrezzo se non al sogghigno di gente estranea?
E uscito dalla cappella e pochi momenti dopo in refettorio seduto a mensa per la cena, tra un vecchio prete minuscolo e un ragazzotto lanternone, Marco era tanto persuaso d'essere stato messo a nudo, che si sentiva zimbello a tutte le frecce della curiosità; non levava gli occhi nella sua umiliazione, non uno fra i commensali che trasgredisse con un soffio l'osservanza del silenzio, e indovinava le loro occhiate, i loro pensieri, il loro silenzio. Quando per l'improvviso spalancarsi d'una finestra sotto un colpo di vento, il suo sguardo s'incrocicchiò con quello dell'avvocato Visdomini che gli sedeva di fronte dall'altra parte del refettorio e rispose chinando il capo a un gran saluto espansivo, lesse sul volto di lui stampata la canzonatura.
Doloroso preludio, non tale da rendergli quella calma nè quell'oblio in Gesù Cristo che la fede gli assicurava, che era venuto a cercare, ubbidiente, e penitente e sperante, nel rifugio delle anime disilluse. – La prima notte fu atroce: l'implacabile insonnia; da ogni parte, sotto tutte le forme, le tentazioni: di collera, d'orgoglio, d'astio, di rivolta, d'abbattimento, di concupiscenza; nelle tenebre l'apparizione dei fantasmi; nel silenzio il ritornello di Friscka; in lontananza quasi un suono spettrale, non modulato da voci o da istrumenti corporei, e piano all'orecchio, il bisbiglio perfido della Naim.
Pregare? sì, pregare, unica arma, unica difesa, ma il salmeggìo latino, errante sulle labbra, si affievoliva di minuto in minuto senza il soccorso della mente, agonizzava, si spegneva; fiducia nell'alba? gran rimedio: in paese nemico, dopo i notturni assalti del diavolo, domani riprenderà da capo la guerra degli uomini, tanto più crudele quanto più clandestina; passerà la giornata, rinnovandosi i tormenti di ieri sera, tra gli attacchi simbolici del maestro e gli scherni dei confratelli, passerà, e da capo la notte, l'orribile notte come questa, come la precedente, interminabile!
Fuggire!? Scacciata, dapprima per rispetto umano degli altri e di sè stesso, molto più per uno scrupolo di coscienza, l'idea, d'affrettare lo spuntar del giorno soltanto per dichiararsi vinto o abbandonare quella casa dove la sconfitta sarebbe stata ignominiosa, si tramutò a poco a poco nell'animo di Marco in un desiderio consolatore. La fuga può essere una codardia, può essere uno stratagemma, qualche volta è un'obbedienza; Dio non pretende l'impossibile: moltiplicando i nemici attorno a un uomo e negandogli le armi per combattere, gli significa palesemente che lo chiama altrove, qui lo abbandona e lo lascia soccombere, sopra un altro terreno lo assisterà.
Il sofisma trionfava dello scrupolo, il desiderio divenne risoluzione: appena l'alba, uscire di sotterfugio dal carcere per evitare ogni intoppo e inutili controversie, partire da Roma subito, quello stesso giorno per Beaumesnil. Annuente, l'imagine della madre tendeva le braccia, sorridevano le lagrime dei suoi occhi. – Mi aspetti? povera madre, eccomi; da tanto tempo mi chiami e finora non ho saputo risponderti; eccomi dopo la burrasca; non temere: vedi? non è nulla, son salvo; un po' stanco, vicino a te mi riposerò, il capo sulle tue ginocchia. – Oramai niuna forza d'argomento avrebbe scosso il proposito audace, nel quale attinse Marco Cybo tutta l'energia per difendersi dalla moltitudine che lo assaliva, così che il sentirsi rinvigorito fu l'inizio della calma, e la tregenda parve acquetarsi intorno a lui.
Non sempre il dormire porta consiglio: pure avendo finito per assopirsi, Marco era tuttavia fermo nella presa risoluzione quando la campana lo fece balzare. Di già? Tremava e batteva i denti, forse di freddo; forse pel sonno interrotto bruscamente, i suoi occhi vedevano, come un fuoco fatuo, saltare di qua e di là la fiamma della candela. Più presto si fosse sbrigato a scendere in porteria, meno rischio avrebbe corso d'intoppar qualche padre, o peggio di tutti, Visdomini. Affastellò le robe sue, che più tardi un famiglio dell'albergo sarebbe venuto a ritirare, uscì nel corridoio, in punta di piedi. Tremava e batteva i denti, ma non di freddo, piuttosto a guisa d'un uomo che sta per compiere un'iniquità voluta, meditata, e la paura lo invade. Buio pesto. Qui ti voglio: mal pratico del luogo, trovar la strada a tentoni, giungere alla porta senza suscitare l'allarme.
Ascoltò: dal pian terreno, indubbiamente dalla cappella, veniva un susurro di molte voci salmodianti. Non usano i gesuiti la recita in coro delle ore canoniche. Pareva che le voci si approssimassero. Un'altra allucinazione anche questa? Davvero salivano frettolose su per le scale con un crescendo uniforme, gravi e spiccate nell'alternarsi dei versetti. Un chiarore subitaneo riverberò là in fondo, comparvero tosto due lumi, poi due altri, una litania di lumi che precedeva un grande ombrello scarlatto. Era il Viatico.
Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum!* Concupiscit et deficit anima mea in atria Domini.
Cor meum et caro mea * exultaverunt in Deum vivum.
Marco s'inginocchiò sul passaggio. Non lo vide il padre Albis che sotto l'ombrello recava la santa Pisside nè alcuno dei concomitanti fece attenzione a lui nascosto nell'ombra e curvo.
Quia melior est dies una in atriis tuis * super millia.
Elegi abiectus esse in domo Dei mei * magis quam habitare in tabernacula peccatorum.
E recitando anche lui il salmo che nell'esaltazione della casa di Dio gli rinfacciava l'imminente fuga, austero osservante dell'abitudine di seguire il Viatico allorchè spesso lo incontrava per le vie di Genova, Marco si unì all'accompagnamento. Non sapeva dov'era diretto, il pensiero di Voltagisio non gli balenò se non quando fu al terzo piano, quando fermatosi il corteo, facendo ala, davanti a un uscio spalancato, riconobbe la cella dell'amico.
Sebbene taluni fossero entrati col sacerdote, insieme ai più egli era rimasto sulla soglia. Un padrino in cotta, quello stesso del giorno prima, ora funzionante da accolito, gli fece segno di venire avanti, replicò il gesto e lo sguardo benevolmente imperativi, come ad uno che fosse della famiglia.
– Confiteor Deo omnipotenti.... beatæ Mariæ semper virgini....
Era l'infermo, sorretto da una montagna di guanciali, che con voce estenuata ma limpida e articolando sillaba per sillaba, nel gran silenzio pronunciava la formula della confessione:
– ....mea culpa..... mea maxima culpa....
Le labbra sole, pallide, col lento movimento manifestavano su quel volto pallido la presenza dell'anima, gli occhi erano sigillati, volontaria clausura da qualunque visione che non fosse quella di Dio; non ansante il petto, le mani pallide adagiate sul lenzuolo di qua e di là, in un morto abbandono.
Poichè dall'altarino provvisorio il padre Albis ebbe impartita l'assoluzione e l'indulgenza, si voltò di nuovo, tenendo sollevata l'Ostia sacramentale:
– Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi.
Sembrò a Marco che fra le dita del sacerdote l'Ostia si illuminasse d'un'aureola fiammeggiante e d'improvviso dal miracolo dell'eucaristia partisse verso di lui il miracolo della grazia; sentì d'un tratto abbattersi fulminato l'orgoglio che lo teneva dalla vigilia in sua potestà. Era genuflesso al capezzale di Voltagisio: vide – non gli parve – vide, quando il sacerdote si accostò a Voltagisio, staccarsi dall'Ostia ardente una scintilla e venirgli incontro, la sentì sulle labbra, penetrargli nel corpo e nel sangue, trasfondersi nell'anima sua, purificarla, redimerla.
Da una specie di deliquio spirituale non lo scosse il riprendere della salmodia, nel mentre il corteo si allontanava; rannicchiato presso la sponda del letto, schiacciato il viso sulle materasse, lunghi minuti restò in quell'attitudine d'un trappista sopraffatto dall'estasi accanto al proprio giaciglio.
Dolcemente, Voltagisio gli posò la mano sul capo.