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Tra preti e laici, non so troppo se gli esercitandi della vigna Sabina superassero in numero i candelabri ardenti o al più le beatitudini evangeliche. Tutti o quasi, da varie regioni d'Italia erano venuti a Roma per le feste del giubileo di Sua Santità, massime per l'esposizione vaticana alla quale avevano portato il loro contributo come rappresentanti di sodalizi cattolici, e nell'attesa, dopo tanto zelo a profitto altrui per le cose visibili, si riposavano contemplando le invisibili, a profitto dell'anima loro.
Ma se pochi erano e così modesti che la scarsezza non si avvantaggiava, tolto Visdomini, dall'autorità dei personaggi, quest'ultimo aveva più largo campo di mostrar la sua forza e d'estendere il suo dominio – a orecchio portava il nome con sè – pure nella casa delle anime semplici.
Schietta vita monastica, secondo le regole di sant'Ignazio: quattro prediche al giorno, ossia due meditazioni del padre Cornoldi e due istruzioni del padre Albis, messa, ufficio della Madonna, rosario e altre preghiere in comune, formavano, per così dire, la materia esterna e suggestiva degli esercizi, la parte schematica, disciplinata a suon di campana; il vero lavorìo spirituale doveva compiersi durante gli intervalli dai singoli reclusi, nella perfetta solitudine della cella; vietata qualunque lettura anche pia, qualunque occupazione anche a scopo religioso, che non fossero puramente ascetiche; in ogni ora prescritta l'osservanza del silenzio.
Senonchè l'avvocato Visdomini, troppo superiore a simili comandamenti fatti per gli esercitandi novizi, con magnifica disinvoltura si appropriava il detto di san Paolo nell'epistola ai Corinti: omnia mihi licent. Per esempio: usciva e tornava a suo beneplacito, quando gli interessi della Cristianità lo chiamavano a Roma, specie in Vaticano per collocare e disporre i doni della Liguria e accapigliarsi con quella testa barocca di Cantabruna; un'altra: dopo pranzo, fatta la visita al SS. Sacramento, l'obbligo del silenzio mantenuto immutabile, veniva concessa dal programma giornaliero mezz'ora di passeggio nell'orto o sotto il porticato, e lui, con quella gravità taciturna che sapeva d'oracolo, era stato il primo a trasgredire il divieto dei colloqui, sia scegliendo Tizio o Sempronio come uditori privilegiati, sia, più soventi, impiantando cattedra.
Diritti acquisiti d'anzianità: erano oramai vent'anni dacchè frequentava assiduo gli esercizi, a Genova nei conventi di San Giuliano e di Fassolo, a Roma nella casa dei gesuiti di Sant'Eusebio sull'Esquilino, dove ora è la piazza Vittorio Emanuele e prima del '70 era deserta campagna. Colà appunto, giovinetto, aveva conosciuto rettore il padre Curci famoso, vice rettore il padre Pellico, fratello di Silvio Pellico, si era trovato nè più nè meno con Don Alfonso di Borbone, fratello di Don Carlos, col conte di Trapani, zio del re di Napoli, con Margotti dell'Unità cattolica, col marchese Baviera dell'Osservatore romano, e poi con vescovi e arcivescovi e patriarchi orientali....
Questo diceva una sera, capitato in camera di Marco Cybo dopo l'estinzione dei lumi. Del resto, se al padre Albis non accomodava di vederlo uscire nella mattinata tra la messa e il pranzo, nemmeno a lui nè ai ben pensanti – sia detto a quattr'occhi – accomodavano certe nuove fantasie del padre Albis, che da qualche tempo, predicando in varie città, oltre un rigorismo schietto da giansenista si era messo in vena di sfoderare una dottrina tutta sua circa l'interpretazione del Sillabo. Ortodosso, chi ne dubita? ma i superiori stavano in guardia, anzi – sia detto a quattr'occhi – il padre Cornoldi stava lì apposta per sorvegliarlo.
I trenta minuti sulla digestione meridiana avevano fatto un salto a sessanta, pure dopo cena si era introdotto un piccolo strappo alla regola, così i catechismi laici si moltiplicavano, sotto forma di conferenze a domande e risposte, ricreazioni politico-religiose di palo in frasca. Anzichè tollerare semplicemente, pareva che i superiori approvassero l'abuso; il padrino giovine che fungeva da ministro della casa, si trovava presente ogni volta, però Visdomini colla sua astuzia non era giunto a indovinare se assisteva come refendario del padre Albis o del padre Cornoldi.
Un bravo giovinotto napoletano, ancora studente all'Università, principe o duca di tutti i santi del calendario e perpetuo vassallo dell'interrogazione perpetua, senza accorgersene rappresentava nel gruppo la parte che i francesi chiamano del compère de revue ed è quella di dar lo spunto al maestro:
– Avvocato, che ne pensa della conversione di Léo Taxil? – Avvocato, crede che il Papa finirà per autorizzare i cattolici a recarsi alle urne? – Dove si terrà il prossimo congresso cattolico dell'88?
Questo dei congressi cattolici era il tema favorito sul quale Visdomini ricamava le sue più belle variazioni, dal primo di Venezia nel '74 al settimo di Lucca nell'87, esponendone le origini, lo sviluppo e gli intendimenti, decantandone i frutti, magnificandone lo guarentigie. Gli trillavano sulle labbra i nomi del conte Acquaderni, del duca Salviati, del barone D'Ondes Reggio, dell'avvocato Paganuzzi, esimi promotori, insieme ai quali, disprezzando l'ipocrisia delle false modestie, si vantava non a torto d'essere stato l'operaio più tenace; alla formula famosa, detta di D'Ondes Reggio, che in ogni congresso è ripetuta solennissimamente il giorno dell'apertura come professione di fede, era stato lui a voler aggiungere l'esplicita dedizione plenaria al Sommo Pontefice, perinde ac cadaver, secondo la legge d'obbedienza della Compagnia di Gesù.
– Molto abbiamo lavorato e ottenuto molto – diceva con quell'aria sua nè modesta nè orgogliosa d'uomo troppo esperto per lasciar trapelare la vanità fatua – abbiamo ottenuto mediante l'opera dei comitati regionali, diocesani e parrocchiali istituiti da noi, il movimento delle masse verso Roma papale e in tre quinti dei comuni d'Italia la maggioranza amministrativa; fondando circoli per la gioventù, asili d'infanzia, società di mutuo soccorso tra gli operai, dei ritrovati moderni e settari ci siamo serviti per combattere colle loro stesse armi i nostri nemici, per opporre all'educazione atea la religiosa e lo spirito vero di carità alla beneficenza massonica. Molto ci resta ancora da fare, forse il più arduo, nel campo della propaganda attiva e dell'economia sociale, ma gli enormi ostacoli non ci incutono paura: vi do tempo dieci anni, quando avremo sovra altre basi disciplinata la nostra stampa politica con criteri moderni e provvisto alla creazione di banche tutte nostre per venire in aiuto delle classi agricole, industriali, manifatturiere; qui vi aspetto!
E soggiungeva, dopo breve respiro concesso non a lui, che non ne bisognava, ma agli ascoltanti perchè esprimessero unanimi la loro approvazione:
– Ho detto dieci anni? dovevo dir cinque, l'esempio del Belgio insegna e offre sicurtà, ma fossero anche quindici o venti, l'avvenire è con noi e non è lontano. Fin dai suoi primordi, vedremo il secolo nuovo sotto nuovi auspici pel trionfo della Chiesa, anche dal lato politico: non sarà Bismark che potrà impedirlo nè il vecchio Guglielmo nè il principe ereditario di Germania, ora agonizzante a San Remo, nè Crispi, nè la massoneria dei due mondi....
– È frammassone Crispi? – interruppe lo studente.
Un abbozzo d'uomo di tre palmi, scarno e giallastro, pelato, d'età indecifrabile, con una calotta unta in testa e sulle spalle una miserrima palandrana verdognola che era stata nera ai tempi del re Bomba, ebbe l'ardimento di rispondere, lui siciliano come Crispi, per l'onore cattolico d'un suo patriota:
– Crispi non è frammassone!
E Visdomini:
– Tanto meglio per lui, ma ch'io sappia, non è neppure avvocato di San Pietro!
Fu una risata tra i presenti, i quali se avevano capito dal tono più che dalla frase l'ironia della botta, nel partecipare allo scherno immeritato non capirono l'esempio di mansuetudine che dava ad essi il ferito, chinando la testa e tacendo.
Visdomini lo conosceva: un illuso, che nella illusione d'un sodalizio creato da lui regnante Pio IX, quello degli Avvocati di San Pietro a tutela dei diritti della Santa Sede, aveva speso la vita e consumato intero il già magro patrimonio; un umile, che nell'umiltà del suo cuore trovava la costanza di soffrire con rassegnazione indefessa quante miserie gli procacciavano tra i suoi contubernali politici la bruttezza della persona e la povertà degli abiti. Signori e monsignori alla lunga erano arcistufi di vederselo capitare nei piedi ad ogni congresso, doverne udire le palinodie sempiterne circa i suoi inutilissimi avvocati di San Pietro, nonchè le più strabilianti proposte; dal canto suo Visdomini aveva con lui una ruggine di vecchia data, non sapeva perdonargli lo scacco subito dieci anni prima nel congresso di Bergamo d'essergli stato posposto per la carica nientemeno di segretario generale, e a chi si meravigliava della scelta:
– Siamo tutti d'una pasta – diceva, in atteggiamento di compunzione levando le mani e le pupille – era presidente a quell'epoca il povero barone D'Ondes, siciliano anche lui, e tra siciliani....
Alle corte, lapidiamolo pure Visdomini, se vi fa piacere, giacchè ogni volta che ci è comparso davanti l'abbiamo visto sempre in una luce così farisaica da meritargli le sassate, tuttavia non traetene scandalo per gongolarne, voi gli impeccabili dell'opportunismo spregiudicato: Visdomini è cugino germano dell'onorevole Rizzabarba e degno d'aver imparato con voi altri alla medesima scuola, certo – non so di voi altri – con maggior profitto di lui, temporalmente parlando.
Genti pie, non traetene scandalo per fulminarmi addosso le saette dell'ira. – Un ambizioso speculatore si introdusse nelle vostre file militanti recando la volpe sotto l'ascella, carpì tutti i suffragi di stima, di simpatia, d'ammirazione, è uno dei vostri marescialli; voi dite: fosse anche vero, la carità e la prudenza avrebbero consigliato a un cristiano di nascondere certe macchie, invece d'esporle allo scherno dei nemici, alle scempie chiose dei pusilli. – Potrei difendermi, protestando la rettitudine delle mie intenzioni: non mi credereste, e vi applaudo: aria vecchia sopra una chitarra sdrucita; piuttosto, a titolo d'ammenda, voglio scongiurarvi: siate intelligenti, voi che leggete questo libro; essere intelligente significa saper leggere addentro, oltre la vernice dei fatti: non è il libro delle battaglie d'un'anima in tentazione?
E comprenderete il perchè di certi personaggi.
Un telegramma da Firenze a Marco Cybo giunse il domani della partenza di Nicoletta Brancovenu. Gliel'aveva recato il padre Cornoldi che andando tutte le mattine agli uffici della Civiltà cattolica, volentieri si era offerto di ritirare per lui alla Minerva la posta quotidiana.
“Hôtel Pfauen, Lungarno. Ne vous dis que ça: dove sei, dove sei quando t'aspetto? Souvenez-vouz.”
Pensiero di gentilezza, affettuoso richiamo d'un verso di stornello, udito sulla via Appia da due mattutini erranti verso le Catacombe, in bocca d'un carrettiere.
Non interveniva Marco Cybo ai geniali catechismi. Una specie di resipiscenza l'aveva persuaso come la prima sera fosse stato ingannato dall'imaginazione quando nei suoi compagni aveva creduto di ravvisare altrettanti inquisitori del Sant'Uffizio che non si occupassero che di lui e scorgere le beffe nel sorriso dell'avvocato, pure, dopo i pasti preferiva svignarsela e tornare alla solitudine della cella o recarsi al capezzale di Voltagisio.
Troppo spesso e con troppo dolce mestizia lo ammoniva Tomaso da Kempis di guardarsi dalla superfluità delle chiacchiere.
Soltanto una volta, all'uscita dalla cappella essendo stato preso sotto braccio da Visdomini che voleva in faccia agli altri più della cortesia esagerare con lui la familiarità, quasi senza avvedersene si era trovato nel crocchio. Burrasca in aria, quel giorno: non lo studente solo, press'a poco tutta la compagnia, effervescente di scandalo, teneva pronta la stessa domanda:
– Avvocato, ha sentito stamattina il padre Albis?
Queste le parole unanimi; in sostanza il tono voleva dire: siamo noi pazzi o è diventato pazzo il predicatore?
Nell'istruzione del mattino, ragionando sulla Fede, a un dato punto il padre Albis era uscito in una filippica delle sue contro il falso cattolicismo puramente politico di certuni, zelantissimi nell'esercizio d'opere esteriori e pompose, grandi alfieri del Papa come del Sillabo, in realtà non credenti nel Sillabo e non credenti nel Simbolo, non devoti al Papa nè a Gesù Cristo. E aveva soggiunto: in bocca di costoro tale oltraggio riceve l'appellativo di cattolico, la cui santa nobiltà è sfruttata per mire d'ambizione o d'avarizia, che nasce il dubbio se non sia opportuno tornare a quello primitivo di cristiano, fatto glorioso dal sangue dei martiri.
– Ebbene, avvocato, ha sentito stamattina il padre Albis?
Invece di dolersi delle stangate, giovava molto a Visdomini fingere in pubblico d'approvarle sulle spalle altrui, magnificando la rude franchezza del gesuita, solo permettendosi di non dividerne in tutto gli apprezzamenti così pessimisti nè la conclusione, certo un poco troppo arrischiata:
– ....del resto, signori miei, quel luminare dell'episcopato francese che fu monsignor Dupanloup potè trascendere quando a torto stimmatizzò Luigi Veuillot in quella polemica dolorosa che tutti sappiamo, ma trascendere nello zelo per desiderio di luce e di verità, come oggi appunto il nostro padre, costituisce un errore meritevole di rispetto, per non dirlo magnanimo.
Benissimo, quella che Visdomini aspettava per aver mezzo d'incamminare il discorso sopra altra via meno scabrosa; così dal vescovo d'Orléans e dal direttore dell'Univers gli era stato facile il salto a un capitolo d'erudizione sulle origini in Francia del cattolicismo liberale:
– Ecco, ecco la vera forma d'ipocrisia che bisogna combattere, la piaga da estirpare anche in Italia, dove molti laici e alcuni del clero e purtroppo alcuni vescovi si lasciano abbindolare dalle dottrine francesi. Che Montalembert e Lacordaire abbiano indietreggiato davanti al precipizio d'uno scisma, nel mentre il loro ispiratore Lamennais si dichiarava ribelle a Roma e sacerdote apostata, maturando l'impenitenza di Tertulliano, nessuna meraviglia per uomini di talento del loro stampo; che da Federico Ozanam sia stata fondata la Società di San Vincenzo de Paoli e Montalembert nei suoi scritti e Lacordaire dal pulpito abbiano strenuamente propugnato la causa della Fede contro lo scetticismo, ragione di più per deplorare nella loro eloquenza tanto sfoggio di libertà e di progresso non secondo la dottrina della Chiesa, e nell'opera loro l'intento nefasto di conciliare la Chiesa colla rivoluzione.
Fatti e nomi se non del tutto sconosciuti all'uditorio, per lo meno assai vagamente imparati e dal maestro esposti ad arte sotto le tinte che gli sembravano più opportune per travisare la verità. Rompendo tardi il silenzio, Cybo si era provato a discutere, a difendere con calore di neofita i suoi apostoli, ma ci aveva guadagnato la commiserazione dei presenti, e appena solo, tutta la vanità gli era apparsa di coteste accademie, inquinanti il suo rifugio.
Lasciatelo solo; è un orso; la vostra compagnia, i vostri colloqui gli danno fastidio. Non è venuto quassù a godere cinque o sei giorni di vacanza in una lieta illusione della vita monastica, è venuto coll'aria deprofundizzata d'un trappista a metterci addosso la pelle d'oca. Superbia? malinconia di scrupoli? il suo caro padre Albis dovrebbe lui levarglieli dalla testa, gli scrupoli! Appunto: Visdomini, l'uomo prudenziale fin troppo, non vuol che si dica, ma, sottovoce, che differenza fate tra il padre Albis e il padre Curci? la stessa audacia, le stesse eresie; anzi: a vergognarsi dal pulpito d'essere cattolico il padre Curci non è mai arrivato, eppure ai primi fumi i superiori l'hanno messo alla porta, senza complimenti.
Lasciatemi solo. Non vedo Roma dalla mia finestra a settentrione; dinanzi a me, in alto, la macchia dei cipressi di Monte Mario, tetra; in basso, parodia d'obelisco, il fumaiolo eruttante d'una fornace. Chiuso l'orizzonte, le alture scomparse, non vedo che la campagna grigia verso Ponte Molle, in questi giorni, dacchè siamo arrivati, sepolta sotto una cappa di nebbia e di tristezza. Il freddo mi assidera. Credete che io mi ci goda in questa solitudine?
Voi posdomani uscirete di qui nella letizia del Natale, nell'impazienza ilare d'una settimana di aspettativa tra i pellegrini venuti dai due mondi ad assistere in San Pietro il primo giorno dell'anno nuovo alla messa di Papa Leone, del quale annunzieranno le trombe d'argento il giubileo; io, se uscirò con voi al mattino, prima di notte sarò già lontano da Roma.
Lasciatemi solo. Beati voi che negli intermezzi vi fate visita l'un l'altro per ammazzare il tempo! Scarse e fuggitive queste ore che decidono la sorte della mia eternità, col desiderio le moltiplico, le trattengo, le voglio per me, tutte. Non è Voltagisio che me le usurpa, non è il padre Albis, se anch'io mi concedo lo svago di qualche visita e batto alle loro porte perchè la mia cella è sconsolata.
Da Firenze nuovi telegrammi erano giunti; tra gli altri:
"Friscka très-malade. Arrivez donc.”
Al solito, niente firma. Questo, successivo, fu l'ultimo:
"In nome mio ministero scongiuro carità cristiana vostra signoria partire subito soccorso creatura inferma anima e corpo. – Dante Cavalcanti, sacerdote.”
Diceva Marco al padre Albis, singhiozzando i gemiti della sua viltà:
E inginocchiato presso la sponda del letto, a Voltagisio, quand'erano soli, protendendo le mani:
– Tu sei forte, porgimi le tue mani, chè io le baci e mi afferri a te e mi trasfondano un poco della tua fortezza. La prima mattina pensavo di fuggire, tu mi hai trattenuto con uno sguardo; ero quasi sicuro di me stesso, credevo d'averla vinta la prova del fuoco ed eccomi ripiombato nell'ansia e nel dubbio. Non lasciarmi; gli ultimi carboni accesi da superare, mi atterriscono; Gabriele, non lasciarmi, perchè io sono in procinto di fuga se non mi fai prigioniero colle tue mani!
Povere mani, che non avrebbero sollevato un fuscello, giacenti e bianche sulla bianchezza del lenzuolo, come due vittime svenate! Consentivano, abbandonandosi, al desiderio febbrile, s'intrecciavano piamente con quelle dell'amico, forte catena di soavità, più forte d'ogni violenza, più soave d'ogni lusinga.
– Taci, non faticarti, intendo ciò che vuoi dirmi, dal moto delle labbra l'ho già indovinato – Marco si affannava supplichevole, allorchè gli squarciavano il petto a Voltagisio, durante il colloquio della consolazione, sanguigni impeti di tosse e gli mozzavano in gola le parole – è mia la colpa; riposati adesso; vedi? vedi, Gabriele? io son calmo; per te, nel tuo abbraccio tutte le mie paure si dissiparono.... – e Voltagisio affranto, in abbandono sulla catasta dei guanciali, qualche minuto rimaneva senza voce tra un attacco e l'altro, ma nel sorriso indefettibile degli occhi l'anima forte e placida vigilava; parlavano gli occhi: non angustiarti per me; attendo ancora una speranza che non sia immortale? invoco da Dio un miracolo che perdoni alla mia giovinezza e scampi queste mie ossa?
Invocare un miracolo! Signore, poichè la morte scherniva tutti i giorni l'infermo o no aveva compassione, si affacciava sulla soglia e nascondevasi dietro l'uscio, poichè i ripetuti vaticini del medico "non arriverà a domani!” erano smentiti ogni giorno, Signore, sarebbe stata la temerità delle temerità arguire contro l'umana certezza un pronostico di speranza e invocarlo noi quel miracolo, invocarlo, pretenderlo, come a Lourdes la folla pei suoi moribondi, come pel loro moribondo, le tre femminucce singhiozzanti abbasso in cappella ai vostri piedi?
Erano a Roma la madre e le sorelle di Voltagisio – Voltagisio l'ignorava; a suo fratello, tenente di cavalleria, che le aveva precedute e fino all'alba rimaneva a vegliarlo tutte le notti, perentoria proibizione dei medici e dei padri gesuiti di fargliene cenno. Erano accorse da Belluno, sapendo che la clausura inflessibile non le avrebbe lasciate penetrare mai al di là del portico e della cappella fino a Gabriele nè vivo nè morto, ma rassegnate, ma più che da una speranza assistite dalla fede certa nel miracolo, dalla fede nella loro fede.
Pochi mesi prima erano state a Lourdes in pellegrinaggio, quando da Roma le notizie dell'amato, sempre più scure di settimana in settimana, trapelavano già il veleno d'un lugubre annunzio, e colà il rinnovarsi di guarigioni istantanee sotto i loro occhi, tutti i giorni, tra i clamori, le lagrime, le litanie della moltitudine prosternata davanti alla grotta, le aveva accese d'entusiasmo, convertito in ebbrezza d'aspettazione lo schianto dei loro cuori. Tante volte, come un osanna irrompente da mille petti, le aveva percosse il grido: "miracolo! miracolo!” e in piena luce il miracolo era apparso così sfolgorante, che la credenza in esso non solo proclamava semplicemente la verità, ma per poco non costituiva il diritto d'ottenerlo.
A Lourdes o altrove, che importa? Gesù Cristo non fallisce alla sua promessa: chiedete e vi esaudirò. Parla di Lourdes il Vangelo? non c'è più che la grotta di Bernadette al mondo per testimoniare il regno delle divine misericordie?
E venute a Roma, parecchie volte al giorno facendo e rifacendo il cammino tra Monte Mario e una delle estreme vie dei Prati di Castello, la più prossima, dove si erano installate presso una famiglia operaia nell'unico caseggiato allora esistente, occorreva l'autorità del padre Albis per indurle a non rimanere alla vigna in preghiera anche la notte. Umili e calme: nè strepiti nè atti di desolazione tragica, non verbose discussioni se qualche padre, o più spesso l'avvocato Visdomini, accostandole nell'atrio, tentava esortarle cristianamente, prepararle al risveglio dalla loro vertigine.
Tutte tre in fila passavano come ombre, cancellate contro il muro, sparivano dietro la cortina della cappella. Raro che il tenente le accompagnasse. Un gran velo sulla faccia, tutte tre somiglianti nella forma dimessa e nel colore umiliato degli abiti, anche nella statura piuttosto alta; pure il portinaio, che le vedeva entrare e uscire a varie riprese e in qualunque ora della giornata, a discernere la madre dalle figlie sarebbe stato dubbioso.
Una volta che Marco Cybo si trovò per caso sul loro passaggio, il tenente Filippo, che era con esse, volle presentarlo:
– ....un mio vecchio compagno di collegio a Monaco; tu, mamma, devi rammentartene del marchese Cybo: più che compagno, l'amico e il fratello di Gabriele....
Rigida accoglienza a tutta prima, forse pel timore d'aver che fare con un secondo Visdomini, il quale si fosse creduto in obbligo di ripetere per cerimonia le fredde esortazioni e i magri conforti, imbalsamati d'arroganza cattedratica; ma quando intesero un assai diverso linguaggio, timido, schiettamente commosso, che alimentava la loro fiducia invece d'abbatterla, le signore Voltagisio si rabbonirono; a poco a poco diffusero una gentilezza squisita nelle loro parole dall'accento veneto spiccatissimo, gentilezza di riconoscenza e di simpatia, quando furono persuase d'aver trovato l'affinità d'un'anima mistica.
Da allora bastò che vedessero Marco Cybo per corrergli incontro, attorniarlo, trattenerlo, se all'uscita dall'oratorio non era lesto a sparire. Volevano da lui i crudeli ragguagli che Filippo dimenticava o taceva per proposito, le parole, i desideri, i sospiri, gli strazi dell'infermo, ansiose le poverette donne d'esser presenti almeno in ispirito all'agonia e numerarne i minuti, gaudenti come d'un santo diritto di soffrirne anch'esse le torture.
– Glielo dica a Gabriele – supplicavano – glielo dica che siamo a Roma. Filippo non vuol saperne, non capisce, come non lo capiscono i medici nè i superiori, che di vederci nella sua stessa casa con gli occhi del cuore, a due passi da lui, venute apposta per lui, sarebbe per l'ammalato una grande consolazione.
E la madre:
– Ne ho fatto sacrificio di quel mio figliuolo quando volle lasciarci a tutti i costi, ero pronta a vederlo partire missionario per l'India, per l'America, a non vederlo più.... ma mi sono rassegnata non perchè il Signore se lo pigliasse così presto; sbaglierebbe il Signore se volesse pigliarselo! un santo di più in Paradiso: grazie! in Paradiso ne ha già un subisso di santi!
– Me ne appello a lei – soggiungeva la madre, incoraggiata dal silenzio – non è vero che pei tempi che corrono, i santi rendono più gloria a Dio sulla terra, in carne e ossa, predicatori, professori, confessori, facendo opere di carità, che a passeggiare in cielo sulle nuvole? ed è per questo che noi abbiamo fede nel miracolo.... ma che miracolo! lei m'insegna che per Dio miracoli non ce n'è, a lui tanto costa lasciar morire una creatura d'accidente o dopo quarant'anni di paralisia, come farla guarire in un attimo. Lei è stato a Lourdes?
– Ha visto quante guarigioni? tutta gente spedita, malattie terribili d'ogni specie; il padre Albis, se gliene parlo, cambia discorso, non so se sia come Filippo che vuol vedere per credere – cambia discorso; pazienza! io e lo mie figlie, che abbiamo visto, non diciamo altro al Signore: Signore, figuratevi d'essere a Lourdes!
Una delle sorelle mordeva il freno, la più giovine; parlava poco, ma una collera aspra contro chi le vietava d'approssimarsi al letto di suo fratello moribondo, le veniva sulle labbra. Era lei che insisteva di non lasciar Gabriele nell'ignoranza della famiglia presente a Roma, e due o tre volte tirando Marco in disparte, lei sola, a quattr'occhi, sembrava dalla convulsione dei gesti che volesse commuoverlo.
Visdomini se n'era accorto di siffatti duetti e bontà sua l'aveva presa pel verso di dar la baia a Marco in metafora:
– Abbiamo meditato un capitolo del Cantico dei cantici, stamattina?
Oppure:
– San Benedetto e santa Scolastica, san Francesco d'Assisi e santa Chiara, san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal.... questi sono esempi da imitarsi, massimo durante gli esercizi! non è vero, marchese?
E altre simili. Senonchè la vigilia di Natale, tornato quasi a notte dalle sue corse in città, grondante acqua e imbrattato dalle calcagna ai capelli, piombò d'un salto nella stanza di Cybo. Non più in vena d'umor faceto, quantunque un momento prima, entrando, la signorina Voltagisio l'avesse pregato di dire al marchese che essa l'attendeva nel vestibolo.
Fatta subito l'ambasciata senz'ombra d'ironia:
– Le reco i saluti del cardinale Schiaffino; abbiamo discorso a lungo di lei, anzi da parte di Sua Eminenza le comunico ufficialmente il desiderio che voglia lei incaricarsi dell'indirizzo pel ricevimento papale della rappresentanza ligure; io avevo espresso il dubbio che essendo sulle mosse per la Francia....
– Infatti ho intenzione di partire domani.
– Vuol proprio lasciarci? nell'imminenza della solennità che si prepara? – anche gli occhi interrogavano ma in altra guisa dalla voce, fissi, penetranti il segreto negli occhi di Marco – certo non si piglia una determinazione così grave senza averla prima ponderata, tuttavia il cardinale non dispera.... se le istanze del cardinale fossero tanto efficaci....
– Ringrazio Sua Eminenza! ho già scritto a mia madre e domani parto – affermò l'ingenuo, brusco per tagliar corto, credendo di liberarsi.
– Non parliamone più; solamente le assicuro che sarà un gran dispiacere per noi tutti il giorno dell'udienza non vedere con noi in Vaticano il nostro marchese.
Fervorino d'obbligo che sarebbe stato di chiusa molto bene, se Visdomini non avesse avuto in testa un suo certo chiodo:
– Procurando io stesso di lusingarmi – continuò dopo la solita pausa inseparabile da ogni fervorino – sapevo benissimo purtroppo che lei non si sarebbe lasciato smuovere; lei non è mica una banderuola; stabilisce: quel dato giorno partirò, e quel dato giorno s'imbarca, andasse a rotoli il mondo! A Sua Eminenza glielo dissi, e non voleva credermi; lo dissi al principe Romoli, al conte Bentivoglio.... perfino a una signora forestiera, che non so chi sia.
–Pensi: ricorda monsignor Emanuelian, vescovo armeno di Cesarea, che abbiano conosciuto al congresso di Lucca? mi dicono che è alla Minerva; vado oggi a ossequiarlo, non lo trovo; discorrendone col portiere dell'albergo, capita una signora – o una signorina, chi lo sa? – parla francese, potrebb'essere una russa, una boema.... chi lo sa? domanda: il marchese Cybo?
Per quanto naturale fosse l'intonazione che Visdomini si sforzava di dare al suo racconto, c'erano dei chiaroscuri nella voce.
– In materia di donne io ho preso l'abitudine d'essere così distratto che non mi accorgo mai se sono belle o non belle, vecchie o giovani, ma in questa circostanza, nell'udire il nome d'un amico, l'esame fu involontario, sfido! e se non m'intendo di bellezza, notai che quella persona, oltre esser giovanissima e fin troppo disinvolta, doveva avere i nervi un po' sconquassati; pensi: prima una gran fatica a capacitarla che lei, marchese, era fuori di Roma, poi un'irrequietudine addosso, una tempesta di domande, e non finiva più di mettere sulla croce il portiere; allora, proprio per compassione, entrai nel dialogo anch'io; il francese lo so! siccome non si trattava d'un segreto – ho fatto male? me lo dica se ho fatto male – per terminarla scelsi l'espediente più semplice: cara signora, il marchese Cybo pel momento si trova nella casa dei gesuiti a Monte Mario....
Guardalo in faccia Visdomini, non abbassare gli occhi, non impallidire davanti a lui come uno scolaretto! basterebbe un'occhiata per domandargli con quale diritto s'intriga delle cose tue e chi gli ha dato l'incarico di venirti a spiare. Vera o falsa – fosse anche vera – la storiella è un pretesto: torturandoti, egli vuol leggerti nell'anima a che punto siamo, strapparti un indizio che tutto non è finito.
Ma i ragionamenti erano vani, erano vani gli sforzi, vana la volontà: dal primo accenno a una signora – o signorina – forestiera, che all'albergo aveva chiesto di lui, Marco Cybo si era sentito un freddo nelle ossa; via via che l'intrigrante coloriva la scena e la persona, più delle parole usando l'astuzia delle reticenze o delle inflessioni di voce, e si dilungava nel narrare la gratitudine della sconosciuta, gli pareva a Marco d'avere il cuore serrato tra le morse d'una tanaglia. Sì, datevi l'aria di chi subisce per cortesia una cantafavola insulsa che non lo riguarda o provatevi a ribellarvi! Cento volte si era già tradito, allorchè piacque a Visdomini, ormai illuminato, di lanciargli la frecciata ultima:
– Curiosa! lei non arriva a figurarsi chi possa essere.... la colpa è mia, dovevo pensare a domandarglielo; anzi, ci ho pensato, me ne astenni per un sentimento di delicatezza.... capirà.... e poi....
– Poco male –– abbastanza franco dissipò Cybo l'insinuazione che si preparava., riuscito a rimettersi in carreggiata – varie volte ho fatto per Roma da Cicerone a qualche signora forestiera, conosciuta in casa della principessa d'Olevano; tipi stravaganti; suppongo che una di queste, non vedendomi più, abbia mandato all'albergo la cameriera per aver mie notizie, nient'altro.
Andò verso l'uscio e l'aperse:
– Non ha detto che la signorina Voltagisio m'aspetta?
– Si raccomanderà a lei perchè interceda presso il padre Albis di lasciarla assistere questa notte all'ufficio e alla messa di Natale – disse Visdomini.
Nel corridoio si separarono, l'uno a dritta, l'altro a sinistra. Erano già accesi i lumi. Allontanatosi appena d'alcuni passi, Visdomini si fermò:
– Se permette, domani verrò a salutarla alla stazione – aggiunse, e rimase un momento in attesa della risposta, ma l'altro non pensò neppure a voltarsi.