Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Prosa

Autobiografia

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Prosa

Autobiografia

Chi si rimira si ricompone

 

Meritamente, però ch’io potei

FOSCOLO

 

Messo t’ho innanzi; omai per te ti ciba

DANTE, Paradiso, Canto X

 

 

La famiglia. Non per fare pompa o sfoggiare magnanimi lombi ma per darvi notizia di miei precedenti gentilizii, che vi potranno giovare nel comprendere bene tutta la mia personalità, già che mi è possibile, vi espongo alcune particolarità della mia famiglia, dalle quali potete aver giudizio sul mio carattere e sull’indole mia.

I genealogisti del seicento si sono sbizzarriti ingegnosamente intorno al nome ed alla sua derivazione. Pensarono alla Gens Lucinia romana plebea che ebbe magistrature nel Tribunato e che venne al seguito delle legioni sulle sponde del Lario. Vicino a Como vi ha Lucino, una borgata difesa da castellotto nel medio evo, ora pingue di coltivi, e nella Germania meridionale un Lucinburgo. I genealogisti fantasticarono che la fondazione di queste cittadine fosse dovuta ai Lucii. Fatto è che nel Compendio delle Cronache della Città di Como raccolto da diversi autori e diviso in tre parti etc., Francesco Ballarini cittadino comasco, Dottor di Leggi, Protonotario Apostolico, ed Arciprete di Locarno (1619), notava un Goffredo Lucino che con Jacopo Lavizzario fu rettore della Lega Lombarda della Marca et di Romagna ed un Giovan Lucino che nell’anno MCCXC veniva chiamato al governo di Milano come podestà. Questi sarebbero Guelfi.

All’incontro e nella stessa famiglia, fratelli e cugini: vedi un Giovan Lucino capitano di Gente Comasca nelle guerre contro Milano che concesse il passo a Federico Barbarossa per la via Regina, dai Grigioni a Milano e parteggiò per l’imperatore apertamente. Un altro Lucino fu Console di Como e giurò fedeltà all’imperatore Enrico VI l’anno 1191.

Un altro Giovan Lucino fu inimico di contado Rusca (guelfo) e combatté coi Vitani (famiglia lariana). Poi fu chiamato alla prima magistratura a Perugia l’anno 1302.

Un Giacomo Lucino fu ambasciatore di parte Vitana nel concludere la pace tra Guelfi e Ghibellini promossa da Marco Visconti Duca di Milano l’anno 1404.

Benedetto Lucino legista compose la controversia tra Nobili e Plebei in Genova l’anno 1575.

Da qui accorgete le due tendenze nella casa: o col Papa o coll’Imperatore. Costoro erano in genere uomini d’ o di toga, ambiziosi ed inquieti, prepotenti e deliberati. Dopo il cinquecento si danno all’arte ed alle scienze. Dal Barbarossa forse incomincia la loro nobiltà: l’insegne portano «D’oro e di scarlatto spaccato: un’aquila nera (concessione imperiale) nel primo, tre lucci a polo nel secondo passante». L’arme è parlante. Luccio = pesce carnivoro, il pescecane del lago di Como, la ferocia, si dice in dialetto Lus; Lucini si dice in dialetto Luçin, Luzin, piccolo luccio. Ecco dunque i tre lucci nello stemma. Più tardi qualche umanista ha voluto sopprimere i Lucci per una Lampada tenuta da una mano, erta sopra uno stagno donde emergono alcune teste di rane: la divisa: «Hac lucente silebant». Più tardi ancora lo scudo divenne rosso e rosso e nero a barre nella parte inferiore, e portò in trofeo un teschio. Ma tutte queste sono follie e stranezze e non conviene distrarvisi a lungo.

Però il Crescenzi Romani (1624) nella Corona della nobiltà d’Italia avvisa in Carlo Lucini che fu di gran nome come medico, dottor collegiato de’ Fisici di Piacenza, ed amico di Ambrogio da Rosate primo medico di Ludovico Sforza Visconti, colui, il da Rosate, che si fabbricò la casa di Corbetta che avete veduto l’anno scorso quand’io vi ho passato quel mese e che ora è dell’amico mio Pisani. Badate curiosa coincidenza.

Poi vi ha un Giovan Francesco Lucini, carmelitano scalzo. Scrisse De immaculatae Deiparae Conceptione (1663). Ancora un Francesco Lucino caro a Federico Borromeo, cantore del Duomo: stampò tre o quattro Raccolte in opere musicali da lui scelte; Concerti diversi a 2, 3 e 4 voci con partiture per organo, 1616.

L’indisciplinatezza, l’uscir dalle regole e braveggiare è costatato ancora sotto il dominio del Duca d’Ossuna da certi fratelli Marchesi Lucino, i quali spadroneggiarono per molto il borgo di Porta Vercellina di Milano, rubando monache dai conventi per farsene delle amanti. (Vedi Gregorio Leti, Del governo del Duca d’Ossuna.)

Quindi si diedero a fare il pedante col Quintilio Lucini Passalacqua, canonico della cattedrale di Como, scrivendo la comedia Lucina. Ed un Luigi Maria Lucini fu cardinale nel 1746 e la lapide ed un medaglione suo si conservano alle Grazie sotto il portico della seconda corte.

Durante la dominazione austriaca fanno parte dei Decurioni o del Magistrato dei LX di Provvisione. 1734, Giovan Pietro Lucini. 1745, Giulio Antonio Lucino: giudice.

Fra tanto le ricchezze si profondevano in festini, gozzoviglie, pacchianerie famose, la famiglia si allontanava dalle cariche, dall’armi, dalli studii, e decadeva rapidamente.

Un mio prozio fu ufficiale napoleonico: mio nonno segretario del generale De Wallmaden nel 1848 comandante la piazza di Milano.

Giovanni Lucini, il nonno, fu un curioso carattere. Fedelissimo ai tedeschi, si sentiva non di meno italiano. Nel ’48 fu tra i primi a vestire il famoso elmo di Scipio della Guardia Nazionale, mentre aveva raccolto in casa sua il vasellame ricchissimo e le gioje del generale fuggitivo. Restituì il tutto l’anno dopo recandosi espressamente in Boemia. Mio nonno fu chi suggerì a Wallmaden le parole ormai storiche pronunciate in una conversazione nel palazzo Stampa di Lucino a proposito dei fatti di febbrajo 1848, quando i milanesi boicottarono il tabacco il panno e tutte le merci austriache e si ebbero li eccidi sul Corso e in Galleria De Cristoforis. Parlando con alcuni ufficiali austriaci che si gloriavano di quelli sgozzamenti li rimproverò: «Se volete attaccarli date loro altrettante spade e poi battetevi con loro. Sapranno difendersi». Il nonno fu religiosissimo.

Mio padre fu materialista, repubblicano e garibaldino: fuggì nel ’59 da casa paterna ed alla fine della campagna era furiere: nel ’60 fu colla seconda spedizione Medici ed al Volturno era capitano di stato maggiore. Fu ufficiale d’ordinanza di Sirtori e di Medici. Nel ’66 riprese la camicia rossa. Ed ecco qui ancora le solite contradizioni, e le antitesi caratteristiche tra l’indole del padre e del figlio.

Le ho io riassunte, le ho io fuse nel mio carattere, nella mia opera? — Voi troverete ad esempio nel libro delle Figurazioni ideali molto misticismo: nell’Academia molto impeto battagliero: un grande senso musicale nel mio verso: in tutto forse una superbia che mi ha nuociuto in un secolo, come questo, remissivo a chi volge la schiena implorando alle bastonate del ricco e dell’ignorante che paga ed assolda coscienze e volontà.

Notate inoltre che mia nonna è d’Ombriaco sopra Bellano, di una famiglia che ebbe legami di parentela con Sigismondo Boldoni ed il Grossi; è con lei che si ritempra ancora più il sangue lariano della famiglia. Donde la sintomatica migrazione di noi tutti verso le rive del lago di Como le quali esercitano un fascino arcano ed antico, e ci attirano come sono e veramente la culla di nostra razza e fors’anche le conservatrici delle nostre energie.

Anche di queste troppe cartelle tenete pochissimo conto. Ho pensato bene seguendo la dottrina che primo il nostro Vico ha formulato, che dopo Montesquieu ha svolto, ed ora integrato lo Stendhal a sua volta derubato dal Taine, e dal Renan, darvi il fondamento del mio carattere fisico e morale. Oggi io sopporto colle mie malattie costituzionali il peso del vizio e lo spreco delle energie vitali de’ miei maggiori. Essi da lontano mi hanno legato l’infermità e questo scheletro deforme e molle che accoglie tutti i germi patogeni cronicamente. Mi han però regalato anche l’intelligenza per cui sulla bilancia della vita si compensano i difetti fisici: ed io li ringrazio di aver ampiamente vissuto coi sensi in ogni senso se mi hanno potuto regalare una mente che li completa, li afferma, li scusa, prodotto di una lunga raffinatezza e forse di un non inutile orgoglio fondamentale.

 

N.B. A titolo di curiosità: Como ha intitolato una sua strada cittadina alla famiglia Lucini.

 

 

Nascita. Nacqui non sono quarant’anni a Milano nella via di San Simone, nella stessa casa e nella stessa camera in cui nacque Cesare Correnti che fu il primo segretario comunale di Milano nel 1848, cospiratore, repubblicano, uomo di governo, e tenne poi il magistero delli ordini Cavallereschi dei SS. Maurizio e Lazzaro. Coltissimo, fu il primo compilatore del famoso Vesta Verde, almanacco retorico e sbarazzino ai suoi tempi e purissimo nella lingua. Fanno testo anche le lettere ch’egli scriveva al proprio calzolajo: fu tra li uomini di governo che non dimenticano le bellezze formali della letteratura.

Oggi via e casa di San Simone non esistono più. Al loro posto vi è la via Cesare Correnti, che allargò la vecchia e per passare abbatté anche la casa che mi udì vagire per la prima volta.

Nell’anno 1867, il 29 di settembre. (Nota del 1909). Ed il successivo venni battezzato in San Lorenzo, la più vecchia basilica milanese, tenuto al fonte da Giovanni Cattaneo, commilitone di mio padre ed allora ufficiale dell’esercito, oggi ricco industriale a riposo e conservatore. (Nota del 1913).

 

L’ambiente. Il mio amore per Milano cresce come cresce la lontananza che mi separa dalla città. Quando mi vi trovo mi comporto come un forestiero che sappia già per lettura quanto vi ha di curioso e degno d’esser veduto: faccio così i miei pellegrinaggi metodici, rievocando sentimenti e sensazioni. Mio padre mi ha abituato a delle lezioni peripatetiche per le vie di Milano. Alla sua scuola ho studiato il meneghinismo e le vicende della patria sulla mia stirpe. Ecco il perché di miei ricorsi quando mi provo nelle monografie: Stendhal a Milano, Il Diario del Pittor Bossi.

Ma amo ed ho sempre amato viverne lontano. Di buon’ora ho gustato l’ampiezza delli orizzonti, le molli curve delle sponde lariane, le ripidità delle prealpi, e l’infinito inquieto del mare. Non potrei vivere né in case cittadine circoscritte e racchiuse nelle vie, né in ambienti che siano solamente ed affatto moderni.

Fui abituato presto alle grandi sale secentesche, barocche ma maestose: un palazzotto di mia nonna rustico e quadrato ad Ombriaco mi ebbe nella infanzia nelle vacanze che protraevo a metà inverno. Una villa mezzo castello delli amici Porro in riva al Lambro e poggiata sopra un’alta terrazza naturale mi accolse nella fanciullezza. Qui porticati, torrette, stucchi alle volte, scaloni, viali limitati dalle mortelle o mura, e regolati coll’arte topiaria di duecentanni sono.

Poi il palazzo de’ Lodi nella valle di Ravagnate.

L'amicizia co' Frisiani e coi Besozzi mi diede opportunità di abitare spesso nelle loro ville. Ebbi l’amore per le anticaglie, i bei mobili massicci, le belle casse intagliate, i ferri battuti, i vetri e le porcellane.

In casa frequentavano artisti. Il Magni tra l’altri, autore del monumento a Leonardo in piazza della Scala. Il Praga delle Penombre, Rovani.

La scapigliatura del 1860-1875 fu amica di mio padre. Ho delle vaghe ricordanze delli scrittori violenti del «Gazzettino rosa» indomito repubblicano: Bizzoni, Fabrizio Galli, Tronconi, Cameroni che vi scriveva sotto lo pseudonimo del Pessimista. Uno de’ Besozzi: buon scrittore meneghino e pittore.

Vidi il generale Medici e Sirtori parecchie volte a pranzo con noi. I garibaldini erano nostri frequentatori. Il maggior Fontana: Bellisomi: Missori: Bruzzesi: Bezzi. Quando Garibaldi venne a Milano nel suo ultimo viaggio inaugurando il monumento a Mentana, mi baciò bambinetto in fronte.

Io assistevo a discorsi ed a colloqui: ero una spugna che si impregnava di tutte quelle sensazioni indelebilmente.

 

A nove anni incominciai ad ammalarmi. Da allora data la riflessione e lo studio. Lunghe ore a meditare sopra di me ed il disgusto di sentirmi giornalmente contrafatto dalla malattia. Sullo stato continuamente morboso della mia salute, di dieci in dieci anni si avvicendano delle crisi ricorrenti di un periodo acuto ed infiammatorio per cui è necessario l’intervento della chirurgia.

Quindi lunghe convalescenze. La mia erudizione è frutto della inerzia di questi periodi, inerzia fisica ed obbligata da cui sfuggivo colla maggiore alacrità del pensiero. Quanto più la malattia mi limitava i rapporti e le relazioni fisiche, tanto più, per ottenere un equilibrio, allargavo le mie potenzialità e le mie conoscenze intellettuali. Da qui incomincia l’amore mio per il libro non solo come contenente, arte o scienza, ma come oggetto esso stesso d’arte, d’ordine tipografico, di bellezza reale come rilegatura, illustrazione.

Quando mi alzai la prima volta dal letto dopo la prima malattia, ho scoperto nelli occhi di mia madre un lampo crudele di scherno nel vedermi contrafatto. Da allora sottoposi alla mia critica ogni suo gesto ed ogni sua intenzione. La mia ostilità si fece forte di molti fatti capitali che l’accusano.

In fondo credo che il disaccordo tra le nostre due anime sia di natura. Il sangue suo e l’altro di mio padre non si sono fusi bene in me. Fors’anche un’atavica ragione d’astii viveva tra la famiglia di mia madre e quella di mio padre per cui la commistione in una stirpe sola non poteva avvenire. Mia madre mi rappresentò in casa la dominazione spagnola, crudele ed ignorante: dico oggi ancora: «l’han vanzada i Spagnoeu», è un regalo delli Spagnuoli che ci han lasciato quando se ne andarono. Vi deve esser un lanzo castigliano tra li antenati di mia madre. Ora la lotta a mezza lama più crudele e più intensa. Ho conservato la forza di riderne. In qualche parte dei Drami delle Maschere vi si incontrano questi motivi: vedete I Monologhi del Poeta I Monologhi del Pierrot.

Quando la malattia mi dava tregua viaggiavo. Ho conosciuto così l’Italia ed il riflesso della sua bellezza nell’arte sua.

 

La grande bellezza di un’unione cordiale che dura per quattordici anni, e vince il malvolere, l’ingiuria, la calunnia de’ più prossimi e persevera fresca e profumata come un fiore perenne! Tale la nostra dal '92 ad oggi. E nessuna ragione che non sia d’amore e di stima, nostra; e sui principii nessuna sanzione legale e chiesastica; nessuna abdicazione della nostra coscienza al clamore pubblico insorgente. E da questo culmine morale, su cui riposano li spiriti, come è piccola l’umanità che passa sotto, perché appare ricca e felice nell’aspetto, ma non lo è nel cuore. E come questa nostra ricchezza d’amore l’abbiamo munificamente profusa intorno. E come da questa semente germinarono li aconiti e le digitali che uccidono ma che guariscono anche! E come fummo disconosciuti, ed invidiati e derisi: ma come la nostra sincera lealtà ha sempre prevalso e trionfa oggi umilmente.

 

Non ho avuto mai paura della solitudine. Essa fremeva con me all’impeto della mia imaginazione e si moltiplicava avanti ai miei occhi in mille altre imagini che mi rispondevano come altre tante mie creature devote. Il deserto fu popolato dalle fantasime projettate fuori e vive della mia mente; e queste ebbero per me le danze più meravigliose che occhio umano abbia potuto contemplare.

 

Un mio primo tentativo di novella fu portato da mio padre a Cameroni, allora nel fiore dell’intelligenza perché me lo giudicasse con un criterio non scolastico. Da lui ebbi incoraggiamento. Esso da quel saggio ha indovinato me, come ha incitato Dossi e lo ha difeso a spada tratta. Io gli sono riconoscentissimo. Gli sfuggii presto però di mano: io zolaneggiavo allegramente ed ero troppo giovane, 16 anni. Quando ho lasciato lo stampo per divenir me stesso, Cameroni si è messo in dovere di combattermi colla sua critica. Oggi egli sa che non ha più ragione per sostenere il naturalismo ed io gli risparmio la gioja della sconfitta della sua scuola d’elezione.

 

Frequentai le redazioni di giornali e vidi la vuota e sconsolata jattanza di giornalisti di professione. Costoro usano della lingua come un imbianchino adopera il pennello. E costoro formano l’opinione pubblica e la dirigono! È ben vero che gregge rognoso ha pastore lebbroso.

 

 

Germini patologici e genialità. Ma dove si debbono trovare i germini della mia attitudine a tradurre originalmente ed esteticamente le sensazioni, cioè a scoprire sempre nel nostro vecchio mondo le verità personali ch’esso contiene a soddisfazione della curiosità e della delicatezza nostra colle quali l’andiamo interrogando, è senza dubio nella famiglia di mia madre.

Furono i Crispii, o Crespio (Crispus), molti membri della quale fecero parte del Gran consiglio delli 800, e della Credenza, istituto medievale milanese che rappresentava come una specie di parlamento di ottimati vicino alla autorità viscontiana e sforzesca. Da questo consesso ebbe luogo il Consiglio comunale e prima il Magistrato dei LX ed i XIJ di Provvisione sotto li Spagnuoli e li Austriaci. I Crespi furono uomini di legge ed ecclesiastici, artisti e mistici. Usarono ed abusarono quindi della facoltà imaginativa: loro culla è Busto Arsizio.

Passando le memorie di quella città si notano: Benedetto Crispi, che fu canonizzato. Fatto da Sergio I arcivescovo di Milano, fece abiurare dal paganesimo il re dei Sassoni Ceadvala. Governò la chiesa milanese 47 anni. Morì l’11 marzo [...] e fu sepolto nella più insigne basilica ambrosiana. Scrisse: Nonnulla Commentaria. Scrissero di lui: Carlo Bescapè, Giovanni de Deis, Francesco Besozzo, Giovan Battista Cerico etc.

Pietro Agostino Crespi, canonico di S. Battista in Busto Arsizio. Scrisse: La Vita della Beata Giuliana da Busto Arsizio Vergine e Monaca.

Pietro Antonio Crespi, canonico di S. Battista in Busto Arsizio. Scrisse: Insubria e Historia Burgi Bustii Arsitii.

Giovan Antonio Crispi. Ebbe cura d’anime a Busto. Scrisse: Istorici commenti di Busto, Gallarate, Castel Seprio etc. ancora inediti e conservati nella collegiata di S. Battista.

Ma chi non conosce i Crespi pittori del rinascimento e del 600 pure della borgata di Busto Arsizio?

Giovan Battista Crespi detto il Cerano padre del Daniel Crespi (1590-1630) che col Procaccini diffuse nel milanese pitture energiche, agitate e gonfie di azione, quasi plastiche, che sorpassavano la consuetudine e nelle quali impresse una sua inquieta e pensosa genialità.

(Vedi la mia tendenza alla plastica ed alla letteratura colorata in movimento, tipo l’Intermezzo della Arlecchinata e La Parata dell’Introduzione.)

Pietro Crespi padre di mia madre nacque a Venegono in un piccolo possedimento che la famiglia sua aveva ancora avanzo di feudi antichi. (Venegono è paese in collina vicino a Busto Arsizio.) Fu un industriale di idee napoleoniche: identicamente presumendo sopra la possibilità di attuare la sua imaginativa periclitò e compromise la sua fortuna che nei primi tentativi più modesti aveva accumulato. La lega doganale poi composta e giurata nel 1859 tra Francia e Italia terminò coll’accelerargli la rovina. Proprietario di una imponente forza d’acqua sopra Lecco alla Forca, vi aveva fatto impianto di ferriere e di trafìle con macchine di sua invenzione ma che non poterono gareggiare e vincere nella concorrenza francese dei grandi forni di Creuzot e delle ferriere mecaniche di Mulhouse. Mentre le necessità economiche internazionali per cui la patria si integrava, perché questa Lega doganale fu uno delli articoli sui quali si era stabilito l’intervento di Napoleone III contro l’Austria, un fratello di mia madre si arruolava nell’esercito sardo e cadeva ferito ufficiale a San Martino. È leggenda in casa la corsa di notte del nonno sul campo di battaglia dove rischiarando i paesi con una lanternetta s’imbatte nel figlio ferito.

Mia madre è una donna di scarsa coltura ma di una grandissima intelligenza e di una fenomenale imaginazione. Animale estetico per eccellenza ed impulsivo, mal rigovernato dalla mistica, perché troppo ne hanno usato i suoi maggiori, atrofìzzandole l’organo mentale di questa operazione, non temedio né il diavolo, è egocentrica, dominatrice, avida di imperio. Anarchica, riducendo tutto a se stessa è logico che si debba venire a battaglia con me, che sofro il suo stesso temperamento. La nostra lunga e diuturna lotta verte sopra l’esclusivo imperio sulla famiglia. Dubito che nella famiglia di lei si trovino delli impulsivi delinquenti per genialità e libidine di potere. Mia madre che sa poco indovina moltissimo: profonda e machiavellica diplomatica conduce li avvenimenti al suo desiderio facendo muovere senza che altri se ne accorgano le forze individuali di coloro che la circondano e valendosene del fatto loro anzi imputandoglielo e quasi sofrendolo, ma in fondo avendolo desiderato così, anzi voluto e sollecitato così.

I Crespi portano: spaccato in due d’argento e d’argento ed azzurro a fasce orizzontali; un albero sul tutto con cinque poma rosse. Cima: un elmo ed un cappello cardinalizio. Inscrive Per fas et per nefas = Crispua crepuit.

Nota: La mia attività letteraria si divide:

I. Lirica. Domina sopra tutto: ha per organi la squisitezza e la delicatezza, l’impressionabilità, l’entusiasmo. Sono delle forme mistiche e passionali d’imaginazione e di cerebrazione. La mia lirica è perversa, e candida nel medesimo tempo: è lo specchio dove la mia semplice animalità si rispecchia e qualche volta si contempla.

II. Critica storica. Organi: dottrina ed erudizione, intuito di rapporti tra il presente ed il passato, il passato ed il futuro. Mezzi efficienti: il lungo ozio per la malattia, la vita sedentaria ed isolata, la riflessione. Elaborazione dei pensieri altrui, adattare le proprie scoperte nelle categorie dello scibile e riporle al loro posto nella scala delle ideologie.

III. Filosofia. Stoicismo anarchico (autognosi sperimentale, sincerismo critico). Riflesso della mia vita di dolori fisici sopra l’osservazione del mondo. Quindi una grande indulgenza per li altri, per trovare una severità contro l’inganno e la menzogna. Desiderio assoluto della libertà, cooperare all’avvento di tutte le libertà. Sostituzione della fede scientifica alla fede cieca. Misticismo scientifico. Ammettere la scoperta dell’Inconoscibile (Dio). Ammettere che l’Uomo sta per divenire Dio: che cioè Dio è l’ultimo gradino di una evoluzione biologica in cui culmineranno tutte le Energheje umane in espressione ed in potenza.

IV. Politica. Negativa: cioè: poiché la politica è una pratica, osteggiare questa pratica corrente e parlamentare come impropria all’umanità perché la riduce ad accontentarsi del poco ed a sdrajarsi nel minimo comune denominatore della mediocrità borghese e socialistica. Ergo: impedire che questa politica stia colla Lirica, la Storia, la Critica, la Filosofia, coll’azione letteraria, cioè il Romanzo.

 

 

Studii. Ho fatto un corso di studii regolari, ma irregolarmente.

Ebbi tre maestri che lasciarono in me traccie non dubie della loro didattica:

I. Cesare Savonarola. Un determinista della scuola di Ausonio Franchi, prima ch’avesse a disdirsi e ad abjurare ancora. Fenomenalista non dava essenza che ai fatti ed alle forme: il mondo è quello che è, non ne cerchiamo le cause ma studiamone li effetti. Donde il mio ottimismo che permane e forma il fondamento dell’adattabilità del mio essere all’ambiente, senza perdere nessuna delle mie qualità personali.

II. Luigi Poma dei Mille. Un repubblicano classico: fu de’ Mille e circonfondeva della stessa gloria Garibaldi e Foscolo. Da lui seppi la bellezza greca e romana, ciò che fu e dovrà essere sempre il nostro perché d’arte latino. Era dogmatico ma sincero. Impetuoso nell’insegnare come quando prese alla carica il camposanto di Capua-Vetere al Volturno. Spumava libertà e la monarchia sabauda non ha potuto domarlo. Avrebbe potuto essere professore universitario se avesse saputo piegare le terga. Egli mi fece comprendere che sia «l’armonia morale» di un verso. Temprò il mio carattere e lo fece tenace, qualche volta stoico. Ho compreso da lui il sarcasmo di Foscolo che irrigidì l’ironia troppo cortese e congelò le lagrime troppo pietose e deboli. Egli fu traduttore di Sappho e di Anacreonte e soleva dire che «la bellezza è nuda come la verità». Ed è una grande mente ed un gran cuore.

III. Angelo Cabellio. Un guelfo rosminiano. Ebbe una coltura bionda come i suoi baffi ed una delicatezza feminile. Fu l’uomo del dettaglio e delle minuzie eleganti. Avrebbe amato Pascoli; fu ordinato e di buon gusto. In fondo remissivo ed un debole. Morì d’amore, di disgusto e di alcoolismo giovanissimo, e sospirando come un’anima romantica. Egli mi diede la gentilezza ed un profumo vago e nebbioso. In qualche parte la mitica dei primi 18 sonetti del Libro delle Figurazioni ideali sarà un suo riflesso. Mi ha fatto comprendere la vanità di molte cose e con lui traducevo in latino i Dialoghi disincantati e pessimisti di Leopardi. Fu una breve doccia ghiacciata di nihilismo e sotto la sferza lucida e cristallina della freccia d’acqua revulsiva, mi sono rialzato più combattivo di prima. (Vedi in oltre Giulio Lazzarini nel Verso libero.)

Questi tre uomini mi diedero in sintesi l’interpretazione filosofica del mondo.

Il primo colla scienza pura dei fenomeni, senza intervento di autorità o di voce metafisica.

Il secondo colla volontà ed il divenire in piena e libera esplosione de’ suoi vizii, de’ suoi difetti, delle sue virtù.

Il terzo col dubio e colle lagrime, colla carità come obbligo sociale, col riconoscimento di una gerarchia infrangibile. Per cui egli attossicato di spiriti affatturati moriva, conscio del suo piccolo posto, incapace di salire.

 

In fondo a me stesso ho ritrovato la verità filosofica. II male ed il bene sono due forze: la morale è lo studio delle diverse attività umane. I contrari si elidono o si confondono. La volontà è ciò che ne rappresenta nel mondo: ma il mondo non può essere per noi senza la nostra volontà. Tutto che voglia, l’uomo può. Si nasce bello, forte, intelligente e sano come si nasce onesti. Sono queste qualità native. L’uomo non deve che coltivarle, non può farle crescere dove non sono. L’essere onesto è un privilegio di natura: per rimanerlo non occorre che una vigile azione conservatrice, tanto più facile in quanto è richiesta dall’organismo. Così conservate la salute e la bellezza con una serie intelligente di piccole attenzioni igieniche.

Or io nato intelligente ed onesto non ho nessuna gloria per essermi conservato tale.

 

Oltre le lingue morte e classiche so il francese con qualche profondità, lo spagnolo ed il portoghese per saperli leggere bene; l’inglese per comprenderlo. Studiai il tedesco per cinque anni: so appena leggerlo e lo comprendo malissimo. Mio nonno era poliglotta.

Quando ebbi studiato le discipline legali, mi accorsi del grande vuoto che contenevano queste sanzioni aprioristiche, queste classificazioni di diritti e di doveri, questo castello di carte equivoche su cui si fonda lo Stato. E dissi che sapeva il codice per quel tanto per cui era necessario il distruggerlo. Diversamente mi comportai colle scienze esatte. L’algebra mi diede ineffabili soddisfazioni intellettuali: nelle mie più allegre giornate racchiudevo sotto il simbolo di una formula algebrica molti problemi di morale. La medicina ed in genere le scienze mediche esercitano un vero fascino sopra di me. Il mio terreno di osservazione pratica fu il mio corpo e questo fu così ricco di esperienze per me come una sala mista di clinica.

Lo studio non mi fu mai di peso. Era un lavoro che richiedeva volentieri la mia mente. Curiosità, riflesso del pensiero. Avevo bisogno di sapere come altri ha bisogno di mangiare. Non fui mai eccitato dalla emulazione. Ignoro le grandi fatiche delli sgobboni e quindi i grandi successi scolastici. Studiando poi in casa e solo ho schivato il contatto per me nojoso del prossimo. Forse ne è derivato il mio essere un poco selvaggio chiuso e schivo: ma se non mi comunico colla voce ai vicini mi rivelo colla penna ai più lontani ed allora non esprimo di me che quanto è necessario sappiano.

La mia selvatichezza è in ragione diretta del mio riflettere.

 

 

Altri motivi. Ma non bisogna lasciar da parte la benevola ed efficace influenza ch’ebbero sopra di me l’unione e la communione d’anima e di desiderio ch’oggi mi legano colla mia compagna. Così per produrci in faccia al mondo, dominatore, abbisognammo di tale volontà e di tale sagacia, di tale insistere, che mi insegnarono poi come io dovessi permanere nelle mie intenzioni e nei miei scopi estetici. Scuola dolorosa ma determinativa di una energia insospettata in me, debole per corpo, bisognoso di cure famigliari. I miei nervi irrobustiti dal superamento trionfarono e della mia debilità e della ostilità altrui.

La mia unione fu come il mio verso libero. Combattuta, ma voluta: accettata: ricercata.

Esperimentai nello stesso tempo quale fosse il perché tradizionale ed atavico della casa: conobbi che anche in anime [...] com’era mio padre, si appesantiva la forza di inerzia dell’abitudine e quella frigidezza mentale che ripugna alla fatica dello studio di un nuovo fenomeno anormale ed anomalo. Tale io era. Tali sono del resto le creature ultime che nascono nelle crisi di un tempo in cui la febre puerperale per costruir la nazione esaurì il corpo sociale, mentre lo stesso corpo sociale mal si contenta di una indipendenza ma vuole la libertà. Indice di questi ultimi bisogni, la generazione che sopravvenne dal 1865 al 1880.

Nel medesimo tempo quale tesoro di affetti, di fiducia, di sacrifici nella donna prescelta e diletta. Quale abbandono sicuro e paziente della propria gioventù e della propria bellezza! Quale lirica quotidiana di gesti e di sguardi, quali cure; infermiera, sorella, sposa suaditrice alla vita, all’amore ed anche alla morte se fosse stata necessaria, partecipata!

Per l’arte mia fu un erudirsi d’ogni giorno, d’ogni minuto al contatto della sincerità feminile, dote rarissima: nulla mi tenne nascosto, e tutte le sue parole scoprivan il funzionare di un’anima riserbata ed impetuosa ad un tempo ed il massimo sdegno delle comuni lussurie addomesticate e permesse dalla ipocrisia.

Da lei, per opposizione vidi le altre anime feminili. — Le Ironie del Melibeo che sono tanta parte della mia vita passionale sono anche il frutto di queste visite alle diverse anime feminili che incontrai. Le trasposizioni delle passioni tradotte nei versi denotano il timbro ed il metodo coi quali la successione dei fatti morali veniva ad essere svolta ed espressa dalla mia speciale tecnica, dalla mia speciale ed individual funzione estetica.

Così il poeta lirico e meditativo si forma al contatto degli esseri e dei fenomeni semplici e primordiali, che noi infagottati di sugestioni moderniste vediamo complessi e dubii. Così appare alla critica il simbolismo nostro perché vogliono studiarlo scomponendo colle regole scolastiche i periodi e ne vogliono costruire delle favole d’apparato. L’uomo s’appressi all’uomo in tutta sincerità per sentire, non per conoscere; il senso scopre l’intelligenza astrusa. Per perdonare bene, cioè per conoscere le cause di una qualunque colpa non bisogna saper giudicare, ma saper amare ed assolvere con un argomentum ad homines: Avrei io potuto fare diversamente?

Tutto il mio giure è qui: per ciò accuso e condanno la società presente, nel medesimo tempo che mi avvedo che non può fare diversamente. Ma l’accuso e la condanno perché sono oltre e fuori di lei, perché ella non mi può giungere, perché io non le domando nulla, perché ella stessa non mi ha voluto impiegare, temendo, e con giusta ragione d’incontrare presso di me delli obblighi.

Io non so se vi fu mai uomo che come me ha regalato tanto alla società, cioè alli altri senza averne ricevuto a compenso gratitudine.

Il mio affare coi Baldini e Castoldi, colli operai della Tipografia, col Quaglino competitore nel collegio di Menaggio, i miei mille altri affari con tutti quelli che mi circondarono fanno fede di questo mio vizio generoso.

Dare e non ricevere mi sembra per me un atto naturale: mi stupirei se altri contracambiasse. Regalo al mondo idee, e non me le faccio pagare: articoli ai giornali, periodi ai giornalisti, imprestiti alli amici a fondo perduto, amicizia perché venga sfruttata, ospitalità perché se ne abusino. Ed è l’egoarca della leggenda luciniana, il piccolo Sardanapalo dei banchetti simbolistici, il demiurgo delle Maschere, l’egoista, diciamola la parola che corona la leggenda, il quale cotidianamente esprime e promana da sé una serie di benefìzii, e vive senza saperlo sacrificandosi, e per colmo d’ironia passa per scettico indifferente, maligno, mentre la sua ironia adopera per adattarsi una corazza di falsa insensibilità, e lo stoicismo imbraccia a scudo per parare e nascondere l’angoscia fisica e morale. Certo, questo è il mio modo di vivere felice, fuori ed oltre la società, regalandola, ed è anche il modo col quale mi si offende e mi si ributta come inutile.

Di me, delli artisti, di questi uomini inutili si fanno le rivoluzioni: cioè si inlievita il tempo per un avvenire di scienza e di fede tanto ardenti e splendidi che le piccole tempre e li occhi deboli se ne abbruceranno e diverranno ciechi abbacinati. Noi li asociali disinteressati fomentiamo questo intimo vulcano, cooperiamo a questa disgregazione: sopprimere l’attuale gerarchia, sostituire delle altre e razionali autorità.

Non si creda con questo ad un mio socialismo: ma ad un mio anarcheggiare.

Lo stato di natura, di questa natura oggi saputa colle scienze, oggi allettata colle arti, oggi raffinata colla serie evolutiva delli esseri, compresa coll’amore e colla solidarietà umana, a questo stato di natura, come Gian Giacomo Rousseau anela il mio pensiero etico-politico. È sempre una Utopia.

Ho un concetto tutto mio e tutto vago di uno Stato futuro. Lo Stato dovrebbe essere quella opera pia le leggi della quale dovrebbero essere meno evidenti e meno interruttive delle energie individuali.

Pochissime leggi di carattere generale, che possano, pure stabilendo dei principii di massima, seguire lo sviluppo della umanità ed evolversi come la vita stessa si evolve. Oggi il codice arresta i movimenti. Domani il socialismo livellerà tutto al minimo comun denominatore della mediocrità operaja. Vi sono due tirannie: quella delle perversità ricche e raffinate (la presente), l’altra delle ignoranze barbare, presuntuose e brutali, della sciocca onestà umana (la futura socialista).

Noi usciremo dall’una per ripiombare nell’altra, e forse senza il conforto di una rivoluzione che farebbe tanto bene alla nostra arte paurosa e vile, ma per crepuscoli d’anime, di istituti, di lustri sempre più grigi, soffocanti ed annojati. Credo che la funzione dello Stato sia semplicemente di amministrazione. Promuovere e conservare alla nazione una continua atmosfera di libertà in cui si possano compartire: cibo alla mente ed alla pancia; amore e sicurezza. Il Demo futuro deve essere maestro, nutrice, proxeneta, nel buon senso della parola. Nessuna legge che imponga una eguaglianza, né un privilegio: non preferire, né disprezzare. Perché eguaglianza non v’è in natura, e tutto si bilancia con equilibrio istabile sopra la equivalenza. I cittadini del mio Demo saranno certamente equivalenti in faccia alla comunità, non mai eguali, perché le qualità ed i difetti di natura non si possono mai né toglierecolmare. Certo io non sono Antinoo: posso essere Esopo: ora codeste due forze umane si equivalgono filosofìcamente, perché sono due bellezze.

 

Comunque la naturale aristocrazia non può venire abolita per rescritto di principe o per sanzione di legge democratica. Il popolo, la massa, dovrà sempre accontentarsi di stare popolo e massa: è la materia inlievitata dallo spirito (aristocrazia) quando si passa per una crisi ad uno stato superiore da un altro inferiore. Ma il Popolo è sempre conservatore anche se sia rivoluzionario: ha dei doveri verso il ventre ed il sesso, imprescindibili, mentre l’aristocratico non ha che dei doveri verso la mente, e dei diritti sopra tutto il resto.

Del resto Pietro Verri che è ben accolto dai consorti i quali lo fanno loro perché portava le nove perle sopra la corona chiusa, potrebbe essere invece un attuale e temibile sovversivo; scrive: «Per popolo io intendo anche i signori, i ministri, i sovrani, tutti coloro che non hanno per norma della loro vita l’opinione; ed unicamente escludo dalla classe popolare i pochi uomini che trassero il bisogno d’istruirsi, e lo ebbero costante, e forte a segno di superare ogni noja, ogni seduzione, ogni difficoltà. Questi uomini privilegiati che hanno l’abitudine di pensare e il discernimento della verità, sono perseguitati per lo più quando vivono, ma colli scritti loro comandano al mondo più che non lo può un sovrano.» — Codesta è aristocrazia: tale ed efficiente quando espressa da un impeto vulcanico della massa e cosciente delle proprie forze si pone in azione. Sorgono questi uomini, questa minoranza in un punto di spazio e di tempo quando la maturanza di alcuni istituti umani è già passata ed incomincia la putredine. Questa ingrassa e feconda il lievito rivoluzionario: sono le menti singole che l’accendono e l’obbligano al popolo. Il popolo rimane ossessionato da quel contagio. Detona ed abbatte. Tutte le rivoluzioni sono opera dell’arte e della letteratura: l’89 venne fatto dai pittori, dai poeti e dalla fìlosofìa. Il popolo soccorre con la forza dei muscoli, raramente sa quanto faccia ed a che cooperi: è attratto: vi sono delli ammalati d’isterismo demonico, delli ossessi di rivoluzionarismo. Le monache indemoniate di Loudun patirono lo stesso male de’ septembriseurs del '93.

Nella lingua comune dunque si dice democratico quanto è veramente e semplicemente aristocratico: l’anarchismo latente del partito repubblicano attuale è l’indice più evidente di quanto dico: in quel partito si rifugiarono tutte le intelligenze più alacri e più personali italiane: dal Bovio a Rapisardi — da Arcangelo Ghisleri al papa Leone XIII, dal Fratti al Bosdari: tutto il resto è socialista: il Re, Sonnino, il Cardinal Ferrari, Giolitti, la prostituta da cinque soldi, il contadino, l’operajo, il cenciajolo: tutto ciò è passivo, ha bisogno del dio, del padrone, della ruffiana, dell’imprenditore, delle banche, del vizio e della prostituzione: tutto ciò è l’uomo comune, moderno: li altri sono delli eroi: perciò sono asociali: distruggono perché sanno che sono capaci di rifabricare, con miglior ordine e con maggior profitto.

 

Il senso angoscioso della precarietà fisica esiste in me, contro la sicurezza della morale perennità: come organismo oggi che mi avvio a varcare forse vittoriosamente il mezzo secolo di vita, riconosco la mia inutilità ed il mio provvisorio. D’altra parte alla vista delle opere mie condensate in carta stampata, alla rivista dei miei ricordi espressi in vita cui nulla può eccepire la più meticolosa revisione, mi sento sospeso in sulla bilancia di un dilemma il risultato del quale si esprime così: «Darà assetto duraturo fisico anche al mio organismo, la sicurezza del mio pensiero

A contribuire a questo mio costante stato d’animo concorse l’opinione espressa e tacita che mio padre ebbe di me. Premetto ch’egli morto presto non poteva supporre la mia ascesa, ma poteva indovinarlo se mi avesse saputo ciò che non fece in tempo di fare. Egli nessuna promessa né tanto meno risultato concepì di me: davanti al mio carattere eccezionale che sottopose tutto a revisione prima di accettarne il contatto, davanti alla mia grama salute, che non prediceva della mia lunga vita, si accontentò a formulare la speranza ch’io gli premorissi ed a stabilire senz’altro della mia sfortuna: «Se te fasset el cappellée tutt i omen nassarissen senza câo».

Egli fu falso profeta, ma comunque ipotecò me stesso fisicamente con un suo atto a dei fatti che in superficie sembrano dargli ragione: cioè privò me di elementi e di mezzi con cui dargli torto. Egli fu inoltre pessimo psicologo e si vantava d’esserlo. Tutto il suo repubblicanesimo era forse svampato nelle battaglie garibaldine; dopo, le diuturne commistioni coi numeri della economia politica e della banca lo costrinsero troppo alla routine giornaliera e fallace per discostarmelo dalla comprensione generale e filosofica. Innanzi al significato dell’aneddoto, del dettaglio, dell’episodio, smarrì di vista il complesso, la sintesi. S’era fatta la sua tranquillità quasi felice, il suo riposo non voleva usarne, desiderava pensare secretamente come un anarchico, cioè come un aristocratico, si espresse pubblicamente e nei rapporti sociali come un conservatore; la sua fu insomma la sorte riservata ai garibaldini che si fecero venir sul collo la Monarchia, e per amor di quiete più che per amor di patria la tollerarono e la ajutarono. Erano esauriti, ecco tutto; la Monarchia ha saputo inverniciarli di quelli onori che il loro pensiero anarchico avrebbe rifiutato, ma che la loro brolla praticità subito vestì e portò, anche con orgoglio. Una tale mentalità doveva essere antitetica alla mia, il conflitto per antitesi scoppiare. Mio padre si spaventò della mia apparente misantropia, delle mie lunghe divagazioni, dell’amar la solitudine e lo studio in quell’età che altri sprecano in bagascerie, del mio riflettere troppo, delle mie violenze libertarie e distruttrici, della mia irrisione alle leggi al codice, al sancta sanctorum delle borghesissime virtù che sono inganno o vigliaccheria. Come aveva dubitato della mia stabilità fisica, dubitò della mia salute mentale. Decisamente fui per lui fuori quadro in fatto di originalità: desiderò il suo vero amore per me, giudicatomi improprio alla vita sociale, una foresta inerte: tutti i suoi atti si svolsero in faccia a questa pregiudiziale: egli doveva sopravivere: quindi mi dotava di tutto quanto poteva bastarmi ad una brevissima vita, non per una esistenza normale, e privandomi di due terzi delle sue facoltà, testamentariamente, perché non di più credeva mi spettasse fatto il calcolo delle probabilità delli anni che in mente sua mi rimanevano da godere, beneficò di quelli mia madre, accrescendo in lei i mezzi d’imperio, in me diminuendo le facoltà di resistere al precario.

Diremo la parola esatta: mio padre in seguito alla scelta da me fatta della mia compagna, scelta che gli parve assurda perché contrastava con tutti i suoi preconcetti primo dei quali ch’io non avrei potuto amare, e non lo avrei dovuto rispetto alla mia morte prossima ed alla mia impossibilità d’essere utile come attività economica in un matrimonio, mio padre aumentò le mie difficoltà diseredandomi, poi accordandomi quanto la legge gli proibiva di togliermi. La sua condotta ciecamente borghese mi perseguitò così anche dopo la sua morte, e mi impedì di sviluppare tutte le altre mie energie intellettive rese più facili ad esercitarsi in uno stato di maggiore agiatezza col rendermi sottoposto alla volontà bizzarra di mia madre la quale allargava o richiudeva i cordoni della sua borsa d’ajuto a secondo del capriccio dell’ora, se cioè l’odio contro mia moglie era in quel a marea bassa od alta. Vi assicuro che fu quasi sempre in alta marea perché quel mare veniva intumidito dalla sua gelosa nevrastenia, dal suo aberrante isterismo. Comunque riguardandomi in dietro ho fatto nel mio ambiente più di quanto potevo; cioè colla mia volontà mi sono superato ed in qualunque dolore ed angoscia ho conservato la linea cioè quella misura e prestanza filosofica che il tono alla estetica, che fa un carattere di costanza, che inchina il movimento della personalità.

Perché codesti procedimenti di mio padre verso, o meglio, contro di me, sortirono l’effetto opposto. Mentr’egli accumulava le difficoltà nella mia vita e cercava limitarmela col pretesto che presto avrei goduto della pace perpetua, la mia volontà si esasperava a dargli torto. Chiamò a raccolta tutte le energie, tutte le sue facoltà in azione, ed ogni giorno che passava rappresentava una vittoria. Al nihilismo usato per ispirito di conservazione da mio padre essa apponeva una meravigliosa continuità ottimistica. Non importava né ad altrui illudeva che l’amore mio alla solitudine diventasse selvatichezza, che nel mio silenzio io solo sedessi parlatore ed avessi quindi sempre ragione, che nel commercio co’ miei simili l’orgoglio mio accampasse sempre quindi non l’indifferenza, l’ironia od il sarcasmo: queste doti, difetti nella vita pratica, mi diventavano preziosissime nella letteratura.

Oggi è dal culmine della mia onesta letteratura che mi metto a giudicare il successo delli uomini, e pochi possono fuggire alla mia condanna. Anche mio padre rientra ne’ miei prevenuti: e quanto più l’amo e lo stimo e l’ammiro tanto più sono severo per lui: «Egli non mi ha compreso: scialacquò tutta la sua aristocrazia di nascita, tutto il suo romanticismo ghibellino nelle imprese garibaldine e non un gocciolo più ne riserbò per la vita di poi. S’egli ne avesse conservato un atomo, per questo mi avrebbe compreso; ma fu indigente di generosità dopo il 1866, né io potevo chiedergliene di più. Egli ha cercato di sfìduciarmi ma debbo ringraziarlo perché sommosse la reazione che gli grido: hai torto di dubitare di me.» — Che appare infatti la sua gesta garibaldina rispetto all’opera mia di letteratura? Non sarà egli nella storia per me e trascurato nelle cronache dal suo Generale? Gli era obbligo il presentarsi a Varese, al Volturno; a Bezzecca: gli è pregio preziosissimo essere mio padre. E però come Carlo Dossi a suo padre potrò incidergli l’iscrizione:

 

Ferdinando Lucini

che mi diede la vita

cui l’ho ridata.

 

Alcune massime. L’arte non deve avere né morale, né utilità, né opportunità cercate. È tutto questo nativamente: possiede il più grande dei valori sociali cioè la Bellezza.

 

La letteratura è l’arte e la scienza insieme di inscrivere in una frase musicale semplice e chiara una verità soggettiva e personale. Codesta verità può essere un’imagine: ed avremo il simbolo rappresentato, espressione diretta delle sensazioni; può essere un concetto: ed avremo un giudizio cioè un rapporto di pensiero tra imagine ed imagine, ossia la cerebrazione delle sensazioni ed il riflesso dei sentimenti. Donde le due parti della letteratura: La Lirica - la Meditativa. L’Orgiastica - l’Espositiva.

 

L’umanità fa suo cammino coll’allontanarsi ogni giorno più dalla fondamentale bestialità da cui esce. Il suo progresso è una continua eliminazione di principii animali che ci reggono la vita. Le funzioni dei sensi e della pura vita vengono ad essere assorbite dal cervello in cui ha sede il grande magazzino delli acquisiti atavici; cioè del ragionamento che si sostituisce all’istinto. Ma perché invece le doti più lucide e più efficienti nell’arte sono a punto quelle che ne regala la pura animalità? La squisitezza dei sensi, la sottigliezza delle sensazioni, quel vivere, sapendo per esperienza e per simpatia la natura, nella natura, sono facoltà di bambini e di selvaggi. E pure l’arte si fonda sopra queste semplici virtù e sull’altra di una abilità manuale e lesta, se trattaste di plastica di disegno o di musica. La letteratura interviene quando al canto si sostituisce lo scritto, ed alla inquietudine della migrazione sistematica la tenda stabile o la capanna dell’agricoltura. Allora il bisogno di ricordare per li usi della tribù diviene la necessità della letteratura, ed al suo ufficio adempiono coloro che non vivono nel presente, ma nei sogni del passato e nelle visioni dell’a venire.

 

Il poeta è come una lastra preziosa sottile e sensibilissima immersa in un liquido continuamente percorso da correnti, per ogni verso. Tutte le onde di quei movimenti percuotono la lastra ed essa vibra ricevendone li urti opposti e contradittorii e rispondendo ai loro movimenti. Così il poeta si comporta verso la natura, li uomini e li avvenimenti.

 

In genere i letterati di professione che sono de’ gazzettieri, e quasi mai de’ veri poeti, odiano i dilettanti ai quali mancano e l’esperienza, e la forma, e la elasticità mentale per cui è facile comprendere i diversi aspetti della vita. Ma tutti e due odiano ancor più il letterato puro: che è il poeta, che è nato poeta, che sarà sempre un poeta, che interromperà colla sua vita e colle sue opere sempre ed in ogni tempo il dogma, le leggi, le preparazioni stanche, che uscirà sempre fuori dal quadro normale già stampato ed affisso vicino alle tabelle di promozione nelle anticamere ministeriali. Ora verrà un giorno in cui questo poeta vero, sdegnerà editori e fama e vendite perché tutto ciò sarà commercio, affare ignoto a lui: così stamperà a proprie spese per cinquanta o sessanta amici, senza preoccuparsi di mandar copie alle biblioteche pubbliche. In questo modo forse si incomincierà a scrivere correttamente in italiano e con quella nativa ingenuità d’espressione sincera oggi a nessuno concessa quando la tiratura minore di un qualunque opuscolaccio è di mille esemplari. E preparerà al critico ed al bibliofilo futuri la gioja della scoperta di un libro raro e di una più rara genialità se potrà trovare nella libreria privata li libriccino di poche pagine, l’ode di poche strofe, il racconto in tre capitoli di x.y.z. l’intelligenza sconosciuta durante tutta la sua vita.

 

Non comprendo in questo mondo di borghesi saldati allo scoglio dello stato la Università popolare. Essa diventa una pura Academia di disoccupati che si fanno reclame in torno col protesto di istruire l’operajo. Ciò è inganno sopraffino; e sento una grande tristezza se mi metto a riflettere sulla condizione presente del popolo. Tutto ciò cospira ferocemente contro l’intelligenza sua peggio che non cospirasse il prete: ed il borghese che sfrutta la sua forza nelle officine riempie la sua testa di nuvole e di fumo in compenso.

 

Ho notato che nella società attuale tutte le azioni umane qualunque siano sono equivalenti. Così una lirica ha lo stesso valore di un metro cubo di muratura. Tutto ciò è possibile solamente dopo l’89 ed i grandi principii. Ma tutto ciò non significa ridur l’uomo al minimo comun denominatore? Per quanto il mio egoismo comprenda l’egoismo delli altri e si faccia in per lasciargli posto, non vorrà certamente sacrificarsi in prò di un contadino, mi dia pure il frumento per il pane. Io sono abituato a mangiare idee: la pasta mi fa indigestione. Perché dunque questa equivalenza? — Il mio individualismo anarchico sorge da questa domanda vittorioso.

 

Si dice da qualche medico psicologo che se Leopardi fosse vissuto oggi ed avesse sottoposta la sua spina-dorsale alla cura ortogonica e razionale della spondilite non avrebbe scritto la straziante Ginestra. Ciò è falso e lo provo col mio esempio. La mia deformità non mi ha mai fatto maledire la vita. La vita mi ha concesso tutto quanto io potevo desiderare da lei. Incensi di adulazione: sorrisi di donne: menzogne di nemici: saldezza d’amicizia: pochissime ma tenaci affezioni di stima e di riconoscimento tra i più degni. Ed in me la certezza di valere assai, più di quanto non appaja e di comprendere moltissime cose, anche tra le più oscure. Ed ho goduto: li odii, li amori, le dimenticanze, e godo la pace serena della mia coscienza che sa produrre e gioire della sua creatura, inebriandosi d’incesto come una olimpica divinità.

 

La grammatica e la sintassi sono la probità dell’uomo di lettere. Ed un cruscante sotto le regole delle due discipline scriverà come si scrive. Ora bisogna sapere la grammatica e la sintassi, per saper farne anche a meno con buon gusto e logica. Ed un poeta scriverà come egli solo sa scrivere.

 

Un valore nuovo, secondo la terminologia di Nietzsche, in letteratura è il Verso libero.

 

Baruch de Spinoza: Questo enorme animale che è il Mondo! — Non è scientificamente esatto, dopo la costatazione della necrosi dei metalli, dopo la scoperta dei microbii, dopo la radio-attività? Non si riduce tutto ad una serie viva di molecole aggregate o compresse a materia, prima onda d’energia, vibrazioni di luci o di elettricità, anime? Questo grande Dio che è il mondo. Il monismo si ricompone nel politeismo, si rinsalda sulla trinità, si svolge dalla trimurti, si completa nelle storte della chimica, si condensa nell’idraulica, freme nella mecanica, si rivela nella elettrolisi, ed è il dio, l’uomo, il mondo, la Forza in fine che sta e si conferma alla nostra ragione per il nostro volere.

Nessuna cosa ha valore se non ci rappresenta.

 

Chi raffigura un simbolo vi materia una forma la cui anima è una verità. Se gli fosse stato necessario di darvela nuda non l’avrebbe vestita d’arte e di splendori.

 

Ciò che differenzia l’arte antica dalla moderna è la coscienza della soferenza umana. Fidia può darvi le lagrime, non la malinconia. Canova se scolpisce i due genii sulla tomba delli Stuart, non li fa piangere ma li ritrae melanconici. E Canova è un classico. La rinascenza ci diede sotto la forma greco-romana il suo spumeggiante ditirambo alla vita. Essa gioisce e si incanta di tutto quanto è vivo, combatte, freme, ama, odia, profuma e risplende. Il secentismo è l’esagerazione del movimento. Sono delli iperemici che impazzano per delle sciocchezze. Tutto dalla prosa ai marmi scolpiti è invaso dal vento della passione. Il romanticismo è la sentimentalità del sentimento. È morbido, già mai sereno. Ha cerebrato dei piccoli motivi personali sulla infelicità del mondo d’Hartmann e reso vile l’uomo. Spesso è insincero. Goethe il grande romantico fu un perfetto egoista cinico e beffardo tra le pareti familiari. Berlioz che gli mandò la traduzione musicale della sua opera, La dannazione di Faust, e Berlioz fu uno de’ più grandi e sinceri romantici, non fu da lui compreso. Il Faust di Goethe è un’opera speculativa sottoposta al compasso tedesco, ad una specie di positivismo idealista per cui (i tedeschi) furono li esegeti della Bibbia ed i divinizzatori della materia. (Strauss-Büchner). E Wordsworth può iscrivere sul mondo:

 

Suffering is permanent: obscure and dark,

And has the nature of infinity.

Soferenza perdura misteriosa e oscura:

ha la natura dell’infinito.

 

Perciò è possibile un’arte cristiana. E pure un greco ha fatto dire nella vulgata a Cristo:

Καταμάθετε τὰ χρίνα τοῦ αγροῦ πῶς αυξάνει ού χοπιᾷ οὐδὲ νήθει (Considerate i gilii del campo come mai prosperano: non si consumano lavorando e né pure filano).

E come concepire l’odio contro l’arte dell’iconoclasta, con questa figura del gilio, creatura d’arte che vive di sole e di rugiada? Cristo od il suo autore greco ha sentito dentro di sé la funzione sociale della bellezza che è l’inutilità, e la negazione della produzione commerciale e rimuneratrice.

 

 

Alcuni fatti. Nelle penultime elezioni politiche la mia vanità fu sopraffatta. Accondiscesi ad essere portato contro il Rubini nel collegio di Menaggio. Per altra ragione ebbi l’opportunità di ritirarmi in tempo prima di vedere il mio nome macchiato dalle stampe oleose delli avvisi elettorali. Ora sorrido di queste sciocchezze.

 

Fui nel 1897 tra quelli che rilevarono la Casa editrice Galli. Mi trovai in compagnia di un mercante di vino, di un commesso di mode, e di un commesso di libreria. Avendovi impiegato del denaro ho dovuto subirmi la loro vicinanza. Ho conosciuto il commercio de’ libri, cioè delle idee stampate: ed è così turpe e così vergognoso da preferirgli il ruffianesimo. So come si fanno le firme false, come si derubano li autori, il pubblico, e come l’editore venga derubato dalli autori alla moda. Tale fu la mia ripugnanza a metter mano ed a consentire a queste faccende da spazzino municipale da farmi dopo pochi mesi uscire dalla società con grave mio danno. Codesto è un atto di coscienza, per l’amore della mia conservazione che mi è costato assai. Ma la profilassi è pur qualche volta pericolosa e la si paga caramente.

 

Nell’anno successivo esperimentai il buon volere di una comunità operaja. Ad essa affidavo un’azienda che non poteva mai mancare di lavoro, un capitale per condurla, dei consigli per dirigerla. Sei mesi dopo dovevo intervenire perché ogni cosa era disperata e si parlava di fallimento. Da qui ho pensato a quale amministrazione poteva affidarsi la patria, quando fosse l’avvento del socialismo.

 

Il mio amore a tutto quanto è bello non è platonico. Desidero cioè voglio. Ecco la mia biblioteca: ecco i moltissimi miei quadri di qualche valore ed i ninnoli di Breglia etc. Il possesso è il fatto materiale per me che certifica di un aumento della mia personalità.

 

La mia unione colla buona e nobile creatura che or mai mi fa da suora di carità fu l’inizio di lotte e di conflitti familiari non ancora terminati. Tutto questo non ha smosso per un istante la mia serenità, non mi ha inasprito contro li altri poveri ammalati che sono il nostro prossimo, ma me li ha fatto compatire.

 

Come li Ariani primigenii amo i cani ed i cavalli. Questi animali completano l’umanità e mi sono più cari in quanto non parlano ma pensano di più.

 

La morte di mio padre mi privò del mio più grande amico. Nelli ultimi tempi esso è vero mi aveva tradito sotto l’influenza di mia madre. Ma io mi sono sempre volto a lui colla massima confidenza e colla più grande sollecitudine: ebbi da lui consigli sempre, non mai castighi. Egli deve aver molto soferto per avermi dovuto trascurare: fu troppo debole, ma come mi ha insegnato a vivere.

 

La reazione savoina compiuta da Bava-Beccaris, il nuovo Haynau di Milano mi ha sollecitato all’azione politica più direttamente. Il partito repubblicano mi si è presentato, sia per la nobiltà della sua storia, sia perché qualche tradizione di famiglia mi vi inchinava (il prozio, mio padre) come il più atto ad accogliermi. Pur troppo questo nulla ha fatto e cade giornalmente in discredito: quelli che più gridavano furono i più sollecitamente addomesticati a pagamento. Ciò mi ha nauseato. Mi son rimesso a guardare dalla finestra ma con qualche detonante fra le mani per gettar nella mischia all’uopo.

 

Per l’arte e per la libertà che sono le due magiche parole e riflesso di un solo concetto, la vita; per l’avvenire d’Italia non invoco che la guerra civile. Questa è quanto ristorerà a se stesso il popolo italico: la coscienza del proprio nostro valore l’acquisteremo dopo una grande, crudele, ma necessaria carneficina fraterna.

 

Il cervello è fatto per pensare come lo stomaco per digerire. La dejezione normale del cervello è il pensiero. Il pensiero non deve essere doloroso all’organismo. Se il cervello s’ammala per il pensare, segno di sua debolezza o sua inettitudine a questa funzione. La fatica cerebrale di un autore è rappresentata dalla maggior quantità di pentimenti che la idea primitiva subisce prima di prender veste letteraria. Le maggiori correzioni che si riscontrano sopra manoscritti celebri non mi sembrano il segno di una cercata perfezione, ma di una reale insufficienza. Il lavoro mentale deve essere calmo, lucido, continuo e sereno. La mente deve aver la forza di eliminare dentro di sé dalla frase o dal verso quanto non si addica loro. La scrittura deve essere piana e non tormentata da cancellature e pentimenti. Il lavoro d’arte deve essere giocondo. Ecco perché mi diverto non solo, ma ho piacere scrivendo. La mia idea, la mia forma, come furono dettate dalla mia mente hanno ben di rado a mio giudizio bisogno di ritocchi per acquistare il rilievo necessario e la necessaria lucidezza. Esse sono come nacquero, e forse bene nacquero ostetrica la penna e la volontà mammana sapiente.

 

Le mie vere pezze di nobiltà mi vennero conferite dal governo savoino che detiene, dopo l’usurpazione sul sangue e sui sacrifici del popolo italiano, Italia in feudo da sfruttarsi.

E sono:

Il processo per reato contro l’esercito: VII dicembre MCMJ per aver fatto conoscere in una recensione sull’«Italia del popolo», Il militare di professione del Hamon. Vi fui assolto e difeso dalli onorevoli Pellegrini, Federici, Pio Viazzi.

Il processo, assolto in sede d’istruzione, per l’articolo Bandiera rossa riportato dall’«Italietta» sopra il «Grido della folla», foglio anarchico. XIX Giugno MCMIJ.

Ebbi in questo caso lettere di una Signora Nella entusiasta, ingenua, anarchica, che sono delli ottimi documenti e che vi farò vedere a Breglia.

 

 

Alcuni giudizii sopra di me: metteteli d’accordo.

Egli è classico nojoso ed antiquato.

Vi ha sproporzione tra la sua forma e la sua intuizione. È un avvenirista per idee che fa l’aristocratico nell’espressione.

Egli è un capo scuola (Dove la scuola?).

Egli fu a capo di un gruppo di giovani dell’alta Italia, i quali interruppero la consuetudine (etc.).

Esso è il più francese delli scrittori italiani.

La sua oscurità è sibillina.

È un originale che posa.

È uno sprezzatore della tradizione.

Ed è immorale (Fogazzaro).

Dossi disse: «Siamo due campane fuse nello stesso bronzo; ma diamo suoni differenti».

E poco fa: «Ma è tanto alto il concetto che io mi ho della potenza dell’animo tuo, che penso come nulla ti possa debellare e che tu vivrai sempre e col corpo e senza».

Perché li altri tutti non dicono: è una persona che sinceramente quanto può e che pensa sopra tutto colla sua testa?

 

 

Verso libero. Ha la sua ragione in una mia personale dissociazione del concetto Poesia.

Poesia equivale ad imagine e musica. Quel mezzo letterario per cui sarà possibile una fusione logica di imagine e di musica sì che l’una sia nell’altra compenetrata, sì che l’altra vesta l’ultima non con abiti posticci comperati dal rigattiere ma con giuste maglie e perfette guaine seriche sarà Poesia.

La cellula prima della poesia è il verso. Ridurre il verso al suo ufficio di cantare, di esprimere dipingendo e vivendo le idee fu il perché del verso libero.

Il verso libero rappresenta una modificazione moderna della nostra coscienza. È l’indice formale della tendenza alla individualizzazione che dovrebbe caratterizzare i poeti della nostra generazione.

Il verso libero deve ondeggiare seguendo tutte le emozioni del poeta, apportandovi quelle diversità di ritmo e d’armonia che meglio convengono ai diversi pensieri che si succedono. Nessuna regola rigorosa ed aprioristica deve impedire che ciò avvenga, nessun perché didattico e di facilità può opporsi al suo movimento logico d’organismo vivo.

Idealmente il Verso libero deve più che in altra lingua comporsi nella nostra, dove la cadenza è fortemente segnata dallo accento tonico e naturale di ciascuna nostra parola. Che questo abbiano sentito i nostri poeti è fuori di dubbio. Specialmente nella poesia popolare e nel nostro folklorismo noi siamo di fronte a dei fatti antichi di verso libero. Notate certi settenarii, ottonarii, novenarii etc. che non tornano secondo le regole prosodiche e che pure nei canti popolari hanno una loro speciale sonorità ed una distinta loro bellezza.

Dal ’500 in poi la reazione contro il verso e la strofe anche nei dotti è giustificata ed aperta. Ecco il mirabile ditirambo, Bacco in Toscana del Redi che interruppe tutte le formole della strofe: e la canzone del Chiabrera: e l’impeto del Frugoni: ed il verso sciolto di Foscolo: e la canzone leopardiana: e la ritmica barbara del Carducci. Tutto ciò non solo deve scusare, ma deve ammettere il verso libero che non è se non una continuazione di questa tradizione libertaria nelle nostre lettere. Del resto non sono versi liberi quelli della Farsa cavajola rimati o con assonanze a metà verso; e l’altri dei Misteri medioevali? E rispetto alla metrica latina, non è verso libero il verso della liturgia cattolica, rimato ed accentato alla volgare e pur scritto in latino?

Il Verso libero è la lunga parola poetica che esplica e chiude un concetto nella sua forma, nel suo calore, nella sua armonia, come nasce direttamente nella mente del poeta. È il mezzo per cui senza dispersione e senza aggiunte un pensiero è manifesto. Deve quindi essere pittura, scoltura, musica, suggestione.

Credo di essere stato il primo ad usarlo in Italia; i miei primi tentativi informi datano dal 1887. Nel 1896 essi eran quasi perfetti. (Vedi La pifferata sulla «Domenica letteraria»). Di tutto ciò la critica non ha mai tenuto calcolo. Un Ricciotto Canudo l’altro giorno sul «Mercure» battezzava D’Annunzio introduttore del verso libero in Italia. Egli sarà, come fu sempre, il Vespucci di qualche Colombo, la sua manualità si presta del resto facilmente a queste descrizioni: ma la genialità che gli manca gli impedisce d’indovinare e di prevedere. Egli ha guardato in Francia, l’italianissimo D’Annunzio: io, il francese Lucini, condussi alle ultime ragioni la tradizione italica e contemporaneamente al Kahn trovavo in Italia la nuova metrica. E chi padre di tutti allora? Vi è qualcuno che si chiama Walt Whitman, come chi dicesse Dante, non è vero?

 

 

Il simbolismo. Il simbolismo (parola falsa e vuota per significare uno stato d’animo moderno ed un perché attuale d’arte) ch’io per il primo proclamai e difesi in Italia, mi mise alle calcagne tutto un canile di botoli e di cuccioli. È strano che nel 1896 i più furiosi ad addentarmi erano i più giovani e li appena slattati. Che ferocia nei dentini!

Poi si vide la «Nuova Antologia» sillogizzare per opera del Graf e di Panzacchi e spropositare più che mai. Al qual proposito sarebbe da scrivere un saggio umoristico sopra I tre anni di regno della Nuova Antologia: Assomigliano ai 40 anni della nuova Italia. — Max Nordau, in parte, e l’eccessivo Lombroso fecero il resto. Essi confermarono nei cervelli miseri l’idea che Simbolismo è Decadenza e Degenerazione. E famosi storici invero non seppero che significava invece principio, rinascimento.

Fatto sta ch’io fui tra i primi ad essere abbacchiato da questi criticonzoli, ed oggi sono ancora tra i primi ad assistere al trionfo delle mie idee proclamate 10 anni or sono.

Di allora è un mio saggio Pro Symbolo stampato sulla «Domenica letteraria» che può tutt’ora far testo in proposito.

Torno a ripetere che la parola simbolismo per indicarmi è errata. Chi accetta il segno per la causa inverte la logica normale. Ed io non sono uomo che si occupi a perfezionare un libro mentre non appresta medicina al suo corpo che va ammalandosi. Ho aperte tutte le finestre della casa perché l’aria, la luce, il sole, la vita entrino e si mettano in comunicazione colla mia.

Ho presto demolita la mia turris eburnea, ma anche in mezzo alla folla che grida «noi!» mi faccio sentire a vociar «io!» e non mi confondo.

Ma che è il simbolismo? La risposta non è più oscuradifficile: oggi si può sbrigarsi a rispondere: Una reazione al naturalismo zoliano.

Ma si può anche dire: «È la negazione d’ogni e qualunque scuola in quanto obblighi una disciplina. È quell’arte che procede per riflessi: cioè che adopera dei simboli, cioè delle imagini per rappresentare le idee, valendosi di secrete concordanze soggettive il cui valore completo e complesso sfugge alla analisi critica ma è sentito. Il simbolismo è l’arte dei sensi, per ciò deve essere assolutamente libera. È l’effervescenza di un’anima nuova che non si accontenta di vivere, ma vuol vivere forte, libera, egoarchica, e quindi anarchica. Il simbolismo è antico come la letteratura che insorge. È il grido del ribelle contro la consuetudine: è l’arte di fronte allo stampo ed alla fotografia. Ciascuno che incominci è simbolico. Noi ci siamo abituati a chiamare classico colui che fonda una scuola (cioè colui a cui nolente si aggiungono delli imitatori). In questo caso Dante, il Cav. Marino, Zola, Carducci, Michelangiolo e Cremona sono simbolici. Essi inventano: li altri ricalcano sopra i loro dettagli di tecnica».

 

 

Io sintetizzo l’epoca nostra mistica e lirica. Ho detto spesso e posso tornare a ripetere qui come l’epoca nostra sia mistica e lirica; e mi vi do in prova avendola e preceduta annunciandola e rappresentata vivendola in sommo grado colla mia letteratura. Se vi è qualcuno il quale pretenda di sintetizzare il proprio tempo, io sono quello, per quanto coloro che mi vissero vicini troppo casti in ogni senso forse non si accorsero perché non ne vollero sapere dell’opera mia e credettero che ogni mio gesto rappresentasse un episodio mecanico non una sequenza razionale donde il mio vivere, indipendentemente dalla mia volontà fu sistema.

Il moderno misticismo ch’io ho insieme elaborato e sopportato si compone di elementi antitetici che raramente si vedono associati e si presenta sotto un aspetto particolarmente indicativo. Misticismo anarchico, fonda il concetto d’ogni realtà nella evoluzione puramente spontanea delle forze la di cui libertà è l’unico motivo d’essere: ripudia, come erose di inganni e di tare, le idee d’ordine e legge pur definite intellettualmente e con queste la gerarchia non piegandosi al monito od alla istruzione di una rivelazione e tanto meno di una tradizione positiva. In questo modo non accampa una fede esclusiva e certa. – D’altra parte è misticismo scientifico, ragionatore, per quanto a suo modo antirazionalista: conserva per ciò un contatto permanente colla scienza e la logica delle quali si serve onde render più potenti e più facili e più ordinati i mezzi di esprimersi e di farsi comprendere, cioè le proprie discipline intellettuali.

Perché adunque da queste assisi dove si sono ben ricomposti li oppositi tarderà a nascere l’individualismo? Eccolo ch’egli sorge sfrenato ed inquieto, inspirato e sofistico: i suoi slanci più disordinati del cuore imprestano per manifestarsi i processi più sottili della ragione e della critica: tutte le forze della intelligenza che è senza legami e della critica senza tolleranza: tutte le freschezze della gioventù ingenua si fanno valere senza nuocersi, alleate. La volontà determina e regge la passione, donde l’ardore creativo, l’aspirazione ad abbattere il mistero, a procedere verso l’inconosciuto, a protendersi in divenire Dio.

Non è l’opera lirica? Non è questo il del poeta, cioè mio, che raziocino anche sulle imagini ed il grido del bambino e me ne lascio commuovere? Ho esaurito dentro di me le novità che il razionalismo di vent’anni fa m’accomandarono; ma sbocciò l’arte nuovissima per la generazione che viene, con un entusiasmo, una confidenza indicativi di una grandissima epoca lirica: ho fatto ridestare la poesia che dormiva in coma tra le fatiche del pedante e le dispersioni del libertino. A me spetta il vanto di aver ridato l’ossigeno che è l’ideale alla letteratura italiana e di aver resa respirabile l’aria della patria ai polmoni delli uomini liberi ed ai giovani di aver ridato il gusto della azione non rimunerativa e della rivolta. Perciò, quand’anche i contemporanei non se ne siano accorti, vissero di me ed io non mi son fatto pagare, ma li ho pur rifiutati dal momento che posso, indicando al futuro, giudicare anche i posteri.


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