Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Lettere

4 A Felice Cameroni

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A Felice Cameroni

Roma, Hôtel Milan, XVI di febbrajoLXXXXVIII

Carissimo,

se per avventura li intimi miei ed a me carissimi, si fossero mai persuasi che un viaggio avrebbe potuto rinnovellarmi la psiche ed il gusto, o meglio confondermi nella realtà della vita vissuta, farmi una molecola della società che debbo sofrire, rendermi una persona del momento esterno e presente, non avrebbero mai dovuto consigliarmi una visita intensa e profonda (come quella ch’ora io faccio) a Roma.

Roma è a punto la città che rende ragione del mio modo etico ed estetico di vita, Roma antinomia, Roma che concilia gli opposti, Roma pagana e papale, Roma non moderna e modernissima, Roma antica e non morta. Roma a punto, la sento così completa, così logica dentro di me, che avvalora e corrobora me stesso; io sto in questa Roma coll’anima di un Quirita, colla intenzione di un umanista del Rinascimento, collo spirito di un integralista di duemila anni venturi. Qualunque stranezza qualunque nozze di idee e di sensazioni contradittorie è qui possibile; qualunque modo di vivere trova la sua logica attuazione in questa terra a cui sembrano flore autoctone e geniali li stili delle colonne e le absidi infrante, a cui è negato il fiore di prato, concessa la stilla di palude, ad encomio prodotti i cardi ed i fichi selvatici.

Forse il popolo più moderno è questo romano, perché in apparenza vivendo modernamente, non può nascondere la sua genesi, la stirpe, la genialità del sangue gli esce, gli sprizza ad ogni gesto, ad ogni parola. Esso è il contemporaneo di Servio Tullio, di Marco Aurelio, di Paolo e Pietro; sa di Cornelio Agrippa e dei grimoires occulti di Paolo II, di Sisto V, di Leon X e di Machiavelli, del Cellini e del Francia, del Bernini e della Cenci: esso è tutta una storia vivente, tragica, umoristica, pia, passionale, potente, la storia universale della stirpe Latina. — Or io udii dei ciociari e dei fiaccherai raccontare di tutte queste cose, e davanti alla fontana di Trevi che, come sai, esprime l’acqua vergine, accoppiare i miti di favole greche e romane alla benedizione papale, fasci di littori e balenare di coorti legionarie col mite e profondo gesto della santificazione.

La è qui eretta a sistema; la storia è favola, la vita è favola, Li ignoranti, li indotti possono temere Roma, possono temere questo popolo, lo studioso deve inchinarsi.

Per mezzo dell’Amico Bruzzesi, figlio del colonnello, qui ora a Roma, dove sposerà una nipote della Giuditta Arquati-Tavani, vittima della polizia angioina-papale, nell’ultimi torbidi che prepararono la reintegrazione della Città alla Italia, ho potuto avere il mezzo di conoscere le conventicole segrete delli ultimi Ciceruacchi. Fuori ripa, nel Trastevere, in faccia alle cupole vaticanesche, dei popolani, delli ignoranti, dei giganti muscolosi dalle faccie leonine, dei bambini coi bimbi, delle fanciulle colle popolane. E tra il vin bianco dei Castelli e le parole alte e coraggiose ho compreso come questa vecchia risurrezione di Roma non possa essere vana; come questa plebe, vedi Menenio Agrippa dell’apologo sull’Aventino, come il palazzo de’ Cesari e quello papale non possano esistere davanti alla loro coscienza se non come creazione spontanea del loro stesso sangue e della loro propria attività. Roma, ad onta di tutte le servitù, è pur sempre repubblicana, perché è profondamente egoista; Roma è un centro perché non si accorge che da torno si suscita un’altra, la sociale, civiltà che dovrà distruggerla. Quindi Roma non è socialista. È questo l’errore di aver portato qui l’«Avanti!» che non risponde alle necessità di questa popolazione.

Ho vista Via Giulia ed uno pseudo palazzo Roccanera: ora un ultimo Roccanera è colonnello garibaldino, vive qui e mangia preti; Zola ignorandolo, e fantasticando sopra la famiglia or mai spenta. Da vicino e bene osservando, ho visto moltissimi errori dello scrittore che tu prediligi. Rome è un parto della sua fantasia non della realtà. Solo è vero lo Zola, quando si ferma sui pini italici e sulla morta gora del Tevere; altrove imagina: forse la sintesi a tutta oltranza che, per me, diede un carattere simbolico all’opera, guastò la sua concezione, e la monumentalità dello stile rese a lui quella secchezza che i primi suoi lavori non avevano. — Ma come grande Zola privato, uomo, ora per di più! —

E parliamo di noi. — Qui mi fermerò ancora qualche giorno: ho visto alcune critiche sui giornali romani delle mie Imagini. Che strani! Ora che accettano D’Annunzio non vogliono saperne di me: forse hanno ragione. Ojetti di una compita posa vivente mi introduce nella vita presente, il Bruzzesi e la mia erudizione mi spiegano i cimelii. Non fui ancora in Vaticano: sarà per domani. Se vedi qualche cosa che mi riguardi sui fogli quotidiani od altri, spedisci qui, ché ne avrò piacere; fino a nuovo avviso. La mia Giuditta ti saluta e con te la Pina; a te ed al Dottore che si interessa di me i miei. Sta bene e sano, e bestemia un poco a decifrare questa orribile lettera mia; tuo

Orso della Grona.

 

Ho ricevuto ora la tua carissima colla presentazione al Bissolati; tanto io che l’Ojetti ti ringraziamo. A rivederci.

 

 


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