Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Lettere

6 A Felice Cameroni

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A Felice Cameroni

Napoli il XXV di febbraio 1898

Carissimo,

Ti dirò ancora di Roma perché or mai questa diventa la mia ossessione, tanto più che ho troppo vicino il rapporto disgraziato di Napoli la quale mi ha deluso sopra tutte le speranze, e mi ha quasi direi ingannato. — Ancora e sempre mi si rappresenta la Città (l’Urbs, certo nel più largo significato latino) come un portento delli uomini e della natura. L’ingegno cumulativo della razza latina ha un primo e grande merito davanti alla Storia, quando ha scelto per la propria dimora questa terra tragica e tormentata. Non sul mare, vicino al mare, non in montagna ma montuosa, non nelle piane sterminate, ma una similitudine di pianura estenuante ed irrequieta quasi, sempre in movimento, nella mia idea, verso la spiaggia. Per comprendere queste mie parole che vogliono fare della poesia a base geografica, è necessario aver veduto la Campagna romana com’ora io l’ho vista, nel viaggio da Roma a Napoli. — Tutti i colori, tutte le tinte le più acri, le più violente, le più cupe, ma di un cupo caldo, si sono avvicendate sopra il Lazio. Ho visto di quei verdi impensati, di quei persi giallini, di quelle terre di siena non imaginate mai, nelli azzurri stessi ho scoperto l’amalgame delle lacche violette e purpuree; nei grigi dei giallolini, nei bianchi dei riflessi d’oro. Era un cielo stupendo, flagellato di vento, rotto di nubi dal verde all’oro, inondato di quando in quando di subite piogge. Un tormento di cielo che si scuoteva, che gridava coi suoi colori una intensa passione: e la terra sotto che si avvallava o si protendeva verso le nuvole, delle file di alberi dai contorcimenti di pini italici, una terra terribile e ribelle che si volge bestemiando al cielo e che lo vuol far discendere a lei per tingerlo delle sue atroci soferenze. Oh quest’ira era latina: mi raffigurava l’insorgere dell’eterno paganesimo, della materia, dell’eterna forza epicurea, contro a questa costrizione cristiana che le voleva soffocare: c’era del Capaneo dantesco, del Prometeo d’Eschilo, c’era l’uomo nostro, se vuoi mio; era la mia terra, la terra della mia patria. Non mai come qui compresi, per me solo, non per li altri forse perché di me non sanno nulla, la necessità delle mie Maschere, e le trovai rispondenti in tutto al sentimento multiplo e dell’uomo e della natura.

Un’altra cosa: non so (eccetto Stendhal il quale nella sua Physiologie de l’Amour, ha toccato il tasto dell’amore regionale) se vi furono delli scrittori che si interessassero sulle modalità erotiche dei diversi paesi da loro visitati. Ora questo sarebbe un volume da farsi e credo di una non dubbia utilità, certo un libro non fatto da me perché nessuno lo leggerebbe. Bada che la maggior diversità dei modus amandi sono da studiarsi particolarmente nei casi della Venere pandemia e venale: e ciò, ripeto, sarebbe cosa curiosissima. A voce più estesi particolari.

Napoli: giorno di pioggia e nebbioso. Sparito quindi l’incanto dei colori e del sole. Ho visto del brullo eccessivo, dei prati magri e bruciati, delle piante spogliate. Le colline del golfo hanno pure, sembra, perduta la grazia delle curve, e guardano malinconiche il mare, rabbioso. Colline cieche, direi, dalli occhi senza pupille che si ostinano ancora a guardare quanto non possono più vedere, delle povere pupille perdute, che hanno conservato nel cervello dell’orbo il ricordo della visione splendida non rinnovellantesi mai più.

Napoli: rimase il lurido dell’anima e del corpo; lo sconcio delle vie e delli uomini, il fango accatastato sulle coscienze e nelli angoli dei palazzi: rimase il lazzaronismo inguaribile, l’ozio eretto a sistema di governo, a sistema di vita. Oh questa palla enorme di cannone al nostro piede, poveri ed infaticati Galli! Apparenza in ogni luogo: dei negozi splendidi di oreficerie, di guanti e di profumi: ad ogni due botteghe un botteghino del lotto: ad ogni via che sbocca a Toledo quattro o cinque disgraziate che si offrono dalla mattina all’altra mattina a presso. Ed hanno vergogna di loro stesse e si protendono come chiedessero l’elemosina. In vece una diminuzione di mendicanti di professione sembra che si siano tanto imbecilliti da non aver né pure più la energia di stendere la mano e di chiedere. Altro che i Fellahs dell’Egitto, peggio dei Fakiri, enormemente più terribili dei Parias. —.

Io rimarrei tutto il giorno, per fuggire da queste insistenti apparizioni di miseria, nel Museo Nazionale. Qui, solo, mi ritrovo ancora, so d’essere me stesso, vado [con] la mente a ritrovare le nobili fatture greche. Per fino Posillipo e Bagnoli e giù verso Cuma la stessa oppressione disgraziata, lamentosa, morbidamente rassegnata. — S’io dovessi rimanere a Napoli, ad onta del mare, del cielo, di tutto l’aperto e di tutto il libero dell’orizzonte, io morirei di soffocazione. La vita dello spirito esula o si ammala a morte.

Non ho visto ancora Pica: non ho visto nessuno: non me ne curo. Domani a Pompei: tra i ruderi, tra la vita vera, dico io: null’altro. — Saluti cordiali a te ed al Dottore, saluti pure dalla mia Giuditta anche alla Pina. Tuo

G. Pietro

 

che non comprende Napoli e che non la ama

 

 


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