Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Lettere

8 A Felice Cameroni

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8

A Felice Cameroni

Roma il II di marzo 1898

Carissimo,

Eccoti messo nella necessità di adempiere alla minaccia dell’avvelenamento duplice, a mezzo di stricnina, non dico aqua tofana perché sei un arrabbiato modernista. Tempo pessimo: a Napoli non si poteva più reggere. Il chiuso al quale mi obbligava la pioggia ed il vento mi faceva uggiosa ogni cosa. Di quei giorni, i quali fortunatamente ad intervalli lasciavano sgusciare un pallido raggio di sole dalle nubi basse ed ingorde, ho perfino trovato dei difetti di plastica nell’Antinoo favoleggiato, ed alla Venere Capitolina preferii la Callipigia. — Non ho mai visto come al Museo di Napoli la vita vera, pulsante, possente, gioconda, gloriosa, la vita costretta nei marmi. Ed anche tutto quanto per fortuna il Vesuvio ci conservò sotto le sue ceneri a Pompei (se no la ignoranza e la rapina delli uomini, vedi Roma, ci avrebbero distrutto irreparabilmente) ha avuto per me vita e movimento. Non lo saprei dire quante idee, quanti fatti, quanti squisiti periodi per le Nottole e i vasi mi suggerirono quelle disparate visioni. E se pure abbia lamentata la mania nostra dello spogliare le rovine del migliore per catalogarlo e classificarlo nei musei (abborro tutto quanto sa di analisi) venni a riplasmarmelo in una sintesi armoniosa che finiva a rendersimi vivente. — Se passerai da Napoli ti raccomando sopra tutto I Ciechi e l’Autunno di Bruegel: io ne rimasi incantato, e non ho parole per saperti dare pallidamente la mia commozione: perché non ho ammirato ma mi son sentito fremere. — A corollario del mio viaggio la lettura di Stendhal: ho trovato in lui la smania delle esemplificazioni e del generalizzare: forse ultimo de’ romantici e primo delli analizzatori realisti il lievito passionale e direi mistico che ancora persisteva in lui gli hanno obbligato l’iperbole: così vediamo nello Zola che inalzò all’ultima potenza questa esagerazione e che per questo fece possibile il simbolismo moderno.

Ruta mi condusse alla tomba di Leopardi ch’è Fuori Grotta, sta vicinissima a lui sopra alla facciata della chiesa. Di fronte sul promontorio di Posillipo, l’apocrifa ultima dimora virgiliana. Qui certo una menzogna medievale che si collega al ciclo del Simon Mago del Merlino e della Tavola Rotonda; (Leopardi) una sconcezza ed una postuma ingiuria del Ranieri, l’amico interessato e strozzino di lui, l’incestuoso fratello, il mentitore della epigrafe. I bambini mezzo nudi del villaggio hanno consacrato la lapide a sostegno delle loro innocenti immondizie e vi stercano sopra. Il Cecini pascua rura duces del distico latino del tempo d’Augusto fa degno riscontro come attendibilità storica alla stercorea tomba del pessimista, gibboso di Recanati. Ho imaginato in un futuro Dialogo de’ Morti un trattenimento notturno tra questi due scheletri in cospetto a Partenope e credo che Heine o Sterne non avrebbero potuto essere più humoristi: ho imaginato ma non ho scritto, non per questo il Dialogo non è perfetto.

La bellezza feminile delle napoletane lascia, per me, molto a desiderare; tipi caldi olivastri, una cura eccessiva di capelli che hanno splendidi, ma non senza pidocchi; le forme troppo tozze e troppo grosse. Espressioni violente nell’occhi, supplici colle mani sempre tese; una profonda ignoranza di quanto sia sincerità. Io credo che la menzogna fu e sarà ancora l’arma più subdola e più terribile che i popoli oppressi possono maneggiare contro la tirannide, perché ai Borboni i Lazzaroni oziosi e mentitori hanno strappato più franchigie che la rivoluzione del ’31 o i liberali del ’48. Questa canaglia incosciente ed innocente d’essere tale ha vinto e forse vincerà ancora colla menzogna, ed inganna il prete, il re, il dispensario celtico, la prigione ed il mare anche, coll’atto supplice che nasconde l’intenzione di una coltellata.

Le maggiori bellezze ch’io vidi a Napoli, e tu riderai, furono la maschera del corpo intiero di una giovane, ch’io credo liberta greca, ricavata dalle ceneri intatte di un cadavere rinvenuto nel palazzo di Diomede a Pompei, ed uno squisitissimo plasmo di un volto pure feminile di un cadavere perfetto scoperto presso a Cuma. Nulla mai di così perfetto (e fu vivo questo) non ho mai veduto; ed ho detto dentro di me che l’arte non potrà mai raggiungere la perfezione della natura e della vita.

Ed ora eccoci qui di nuovo a riposare in questa città che è la Città guastata dai legislatori. — Ci fermeremo poco: due altri giorni a Firenze, e poi ritorno. Il borsellino è troppo smunto, troppo leggero e se l’arte mia potesse riempirmelo non domanderei di meglio che di continuare questa vita, ma ohimé io sono troppo un animale di lusso, costo troppo e non produco per me nulla che possa vendere a mio profitto, e, non essendo commerciale, mi accontento a dar meno che sia possibile commercio. Oh s’io potessi senza tradire la mia mente ed il mio gusto, essere utile a me stesso! Utinam! direbbe Cicerone. Ma anche le mie stesse produzioni non solo mi costano di mente [ma anche] di quattrini, quando mi prende la fantasia di darle fuori con contorno di quelle forme che mi sono tanto care.

Per ora basta: la noja raggiunse il desiderato per te che leggi.

Saluti quindi cordiali per te ed il Dottore (vidi solo una volta Pica e scambiai con lui poche parole). Saluti a te ed alla Pina dalla Giuditta mia che si sente ancora muovere lo stomaco da una passeggiata fatta con me a Porta Capuana ed a Santa Lucia dove ha veduto l’incredibile cui non potevano medicare benignamente né il sole per grazia apparso, né l’incantevole golfo che ci sorrideva in faccia.

Sta bene ed a rivederci. Tuo e quanto mai

Orso della Grona

 

 

 


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