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Solaro di Varazze, il IV di febbrajo MCMVIIII
Il tuo Manifesto consuona coll’epoca: e pure non desidero che accampi la sua moda esclusiva codesto terremoto di letteratura. Vulcanizza ed erotta la tua prosa tra rombi e boati, come una lava ardente e l’avvii tumida, schiumeggiante, frenetica alla distruzione. È un modo di comportarsi giovanile; risponde al tuo carattere, al perché della «Rassegna internazionale» che tu dirigi. È ancora un’altra esplosione ideologica, un’altra forma di romanticismo; attesta il bisogno di singolari imperialismi per l’estetica e per la politica, che, oggi, sembrano irriconciliabili.
Non parli al paragrafo nono di militarismo e di patriottismo e non li colleghi insieme col gesto distruttore dei libertarii? Questa roba si foggia in una micca di pasta dura, ad uso Boulanger; allora vi si informarono Déroulède, Barrès, Paulus, e tutti li altri infusorii del boulevard, i quali si chiamano nazionalismo. Altro che anarchia! Ridiedero lavoro a Deibler ed onore alle chiacchiere spruzzate d’acqua santa!
Non importa: ai poeti non si domanda esattezza logica e scrupolosità filosofica di ragionamenti: il poeta canta e furoreggia demenziale; tutto il resto non è affar suo. Non è nemmeno suo compito l’affiggere un Manifesto del Futurismo. Futurismo? Ne abbiamo bisogno? Perché? Mio caro, un’altra malattia! Importa dunque annullare tutte le etichette, che furono incollate sopra i prodotti avariati delle arti, in tutti i tempi, e che diedero loro un qualche valore di categoria, perché li fissò ad una scuola, per stampare, poi, quest’ultima, che pretende a maggiore sincerità? E sarà la recentissima che darà il tono a tutta l’orchestra?
Né una parola di nuovo conio, né la volontà ed i desiderii di singoli letterati possono fondare ed imporre una nuova scuola. Le scuole si esprimono naturalmente come bisogno collettivo; non vengono ammesse o negate, dalla retorica; sono degli organismi, i quali si manifestano, nelle arti, a richiesta del tempo e di alcune più alacri anfizionie, ma non traggono origine dal Verbo di un qualunque demiurgo d’estetica. La tua concezione di scuola è biblica, non è biologica; ora, ricordiamoci sempre: l’Arte è un organismo; li esseri vivi non sono prodotti da parole; ciò bastava per la Genesi mosaica e per il Deuteronomio, non ha più valore dopo la critica lamarckiana, e le attestazioni scientifiche e positive moderne. E poi, scuola? Impaccio. Perché farne? Abbiamo testé pubblicato un volume di settecento pagine, il Verso libero, per dimostrarne le sciocchezze, per ridurre la designazione scuola ad un semplice motivo scolastico, ad una mera facilità mnemonica; ed oggi ne vuoi un’altra? Scuola? Luogo Pio Trivulzio, significato da una ventarola. Ma io non ne sento il bisogno né la desidero, né saprei di quale utilità sia. In torno al nome di Futurismo tu vedrai correre una quantità di piccoli genietti irrequieti e cachettici, ai quali non parrà vero di mettersi al riparo di una congregazione ben definita, con propria bandiera e proprio istituto. Se verranno ad essere aggrediti da qualunque critico, invocheranno la vostra solidarietà; e voi sarete obbligati a proteggere, a sostenere queste piccole deformità inconcludenti. A questo la scuola ajuta. Ecco la contradizione che non dovrebbe consentire! Volete distruggere e Musei e Gallerie, e Biblioteche, popolati non da uomini meschini ed invidiosi, ma da opere grandi e meravigliose, perché li considerate come il seminario e la pépinière della accademia e della retorica, e serbate, per la delizia delli intriganti, dei minimi omicciattoli gravi ed ambiziosi l’istituto scuola?
Volete distruggere? Distruggiamo: e prima d’ogni altra cosa le menzogne, le sciocchezze inutili, le chiesuole, i cenacoli, li ignobili lupanari delle lettere, delle arti, della vita dove si raccolgono bonzoli e chierichetti ed abatini e badessine ed arcivescovini e papetti e tutta la geldra scombiccheratrice e pasticciona, e tutti li imitatori irresponsabili e miserabili ed impotenti e fanatici e da disprezzarsi. Questo devi tu fare; far tabula rasa; non ammettere altri pretesti per la conservazione di questa fungaja putrida ed avvelenata; ma i Musei, le Gallerie, le Biblioteche, i Monumenti grandi del nostro passato, rispettali, sai perché ci irritano, perché muovono l’ira nostra, perché vorremmo distruggerli? Perché noi abbiamo vergogna d’essere così infimi e vili quando ci mettiamo in diretto contatto con quei colossi del pensiero, della dignità estetica, del coraggio civile, dell’amore di patria. È inutile: in ciascuno di noi sonnecchia e demenzia il nascosto Erostrato. Come avremo incenerito il Tempio d’Efeso la rinomea ci darà la gloria? Ora, la gloria è appunto conservata da quei monumenti contro i quali il Futurismo scaglia le sue minacce e le sue bombe livellatrici.
Qui il Manifesto delira come un Yankee ubriaco di whisky e malato di fegato; ragiona similmente come un irresponsabile. Il Manifesto ha dimenticato che, appunto, Biblioteche e Musei sono i serbatoi delle migliori attività della razza; che qui s’immergono le curiosità vuote de’ giovani e ne riescono ripiene e doviziose, confermate e robuste, sopra tutto conscie del proprio valore, quindi determinate alla lotta, con certa speranza di vittoria. Musei e Biblioteche operano tuttora, autenticano coll’arte che hanno conservato, la Natura. Musei e Biblioteche non hanno nulla a che fare con chi li custodisce, colli invalidi che li dirigono, coi pedagoghi che li passeggiano innanzi ed indietro, traendosi ai fianchi le scolaresche annojate, spiegando loro, nel loro falso modo, dipinti, statue, testi. Non confondiamo la glossa coll’opera; non l’esegetico di Dante, colla Divina Comedia; non l’imbiancatore di soffitti diplomato, col Leonardo; non i restauratori e i contraffattori, coi cimelii adulterati dalle manipolazioni; insomma non i sacri depositi dell’arte con quelli che li predispongono e se ne serbano un ben rimunerato monopolio e ne sono li aggiotatori usurai ed i trustisti della banalità. Andate nelle basiliche della perennità italiana e mettetevi di fronte ai capolavori senza sottintesi in corpo, senza Futurismo, senza classicismo, con occhi vergini e cuor sincero, da uomini intelligenti, specialmente da galantuomini italiani: e non ascoltate le cantafere, le chiacchiere, le fole dei signori canuti e calvi, che hanno per mestiere lo spiegare secondo i programmi. Non vi commovete? Male: voi siete troppo giovani per rimanervi indifferenti: non fatemi dubitare della salvezza della patria, che è confidata alla vostra mente ed al vostro braccio!
Il Manifesto ragiona quindi egli così deliberatamente moderno, come la patristica medioevale: la quale allevò e blandì leggi d’ignoranza punitiva e pene contro animali che non facevano se non esercitare le proprie funzioni di animali. Vi furono, così, delle scrofe giustiziate perché avevan divorato de’ putti di latte e de’ muli impiccati perché avevan percosso a morte, con un calcio, il bimbo del vicino del cavallante. Povere e sacre bestie! Ed i custodi di queste, che loro avevano permesso libertà al delitto, impuni. Eccole le male bestie! bruciare distruggere Musei e Biblioteche certo è più facile che non ascoltare, ed opporsi, alle glosse, che i critici ed i pratici, pagati ad hoc vanno blaterando sui quadri, i poemi, le statue, la storia d’arte e l’estetica. Sopprimete questi intermediarii tedeschi che guastano la vostra commozione, che interrompono la communione col capolavoro; esso è di tutti i tempi; voi dovete sentirlo; se non lo potrete, voi vi siete giudicati da voi stessi; altro che Futurismo! Colla vostra frenesia di vivere sarete già morti.
Il Futurismo, cioè la volontà nostra di resistere al tempo, colle ragioni più lucide e più positive dell’opera nostra; il nostro desiderio di essere i coetanei di qualunque generazione a venire, la quale troverà in noi li attributi di una continuità operante; il Futurismo, cioè l’ambizione di essere uno delli anelli essenziali della catena, per cui il passato si collega a quanto sarà, rappresentandone uno stadio ed una crisi perspicua nella continuata evoluzione; il Futurismo, come tale inconscio, latente, in potenza, è, e fu, sempre, uno de’ più necessarii elementi d’arte; astratto dalla sua funzione, portato fuori come termine nudo, infine come indice: Futurismo non sarà che un altro cartellino da impegolarsi sopra roba vecchia biascicata, digerita, dejetta, per bollarla di un contrassegno venuto di moda; avvierà, per i mercati, merce vilissima, accomandata dalla ipocrisia e dalla menzogna ben valutate in quella estemporaneità.
L’arte non è né antica né moderna, né futura; se questi aggettivi la precedono o la seguono, non costruiscono che delle categorie, stabiliscono dei casellari, opera di pedanti, che tu abborri con me; perché essi gioiscono, quando possono dividere, spiegare, numerare, disporre a gradini, a numeri tutto, ed anche la loro ignorante pigrizia. L’Arte ubbidisce ad una legge di costanza psichica continuativa per se stessa; vale ugualmente ed in modo assoluto, non relativo; significa l’uomo sempre con un’unica cifra. Le sculture sulli ossi preistorici, le ovvache peruviane, la piramide, il Partenone, Giove feretrio, Antinoo, il Mosè, La Battaglia di Anghiari, Perseo, La Maternità del Segantini, sono diverse espressioni di una sola forza psichica che, per i secoli, non ha aumentato, né diminuito intensità. Si manifesta diversamente, ma lo sforzo dell’artefice in quanto crea fu identico e nell’età delle palafitte e al XIX secolo: i prodotti diversi si equivalgono. Non vi è bellezza più bella: venere non comporta aggettivi comparativi, dispregiativi, superlativi: la vogliamo, piace; eccita i nostri sentimenti; ci promuove al possesso, alla soddisfazione. Futurismo! La libertà voglio: questo è uno stato di fatto, non di ciance; qui si riprova il nostro valore; qui si cantano il pericolo all’energia ed alla temerità, il coraggio, l’audacia, la ribellione; ma qui si conservano la Vittoria di Samotracia e l’automobile al loro posto, belle, e non una più bella dell’altra; perché qui si rispettano i termini e le relazioni delle cose e dei fenomeni, senza di cui non è Arte; perché Arte è equilibrio, cioè armonia. Certo, noi non sappiamo ancora tutte le gamme per cui si svolgeranno li accordi armonici del mondo e della bellezza; e noi ne andiamo sempre scoprendo; ma ciò non significa che, oltre ad un dato limite, le combinazioni ben sonanti non si arrestino e non intervenga il rumore, che è un disgusto, cioè un dolore.
Ora, l’uomo, il tuo uomo frenetico del Futurismo, caro Marinetti, non è uno stoico perché abborre l’immobilità pensosa, e deve più che ogni altro fuggire il dolore: anzi, questa sua trepidazione, che qualche volta sarà epilettica, manifesta, in modo specifico ed esemplare, il suo sentimento: la paura del dolore. E vedremo l’inversione naturale, ma illogica, di costui che, per schivarsene, per sequestrarsi, come un dio febricitante di energia, dalla necessità angosciosa di vivere, richiamerà lo strazio a se stesso per ogni suo gesto, perché non rispetta i termini, non osserva l’equilibrio, non confessa la vita, perverte la vita.
Certo, excelsius: sempre in su, avanti; oltre le nubi; oltre le stelle; fin dove vorrai, alla conquista delli infiniti; ma la vita ha ed avrà un limite nelle nostre conoscenze; ne ha uno l’arte, che è vita; ne ha un altro la bellezza, che è un organismo vivo. La Natura acconsente ai mostri ed alli aborti, indifferentemente; questi esprimono una qualche bellezza d’orrore, non rappresentano tutta la bellezza.
In queste circostanze il fenomeno, nella storia della letteratura internazionale, non è nuovo. Si riprodusse sotto altri nomi; ebbe diverse nomenclature a seconda dei paesi in cui si espose, ma disse lo stesso sentimento, il medesimo bisogno, fu l’esponente di eguali volontà. Si chiamò: gongorismo, eufuismo, marinismo, ebbe, in sostanza, li attributi massimi del barocco e dell’iperbole. Non lo disprezzo, lo ammiro anzi in alcuni punti, colà risplendettero stelle di prima grandezza: Shakespeare, Calderón de la Barca, il Cavalier Marino, Giordano Bruno, geni; ma, colà, trionfò il grottesco, il quale, mi ripeto, non è tutta l’arte; qualche volta è semplicemente l’artificio.
Di fatti rientrarono, dopo poco, montoni, capre inuzzolite, torelli estrosi, polledri viziosi e bizzarri, pecore barocche in Capanna, ed al cenno del Pastorello, ogni mattina, riuscivano a brucar l’erba per il bosco Parrasio e per l’Arcadia, lacrimevole remissione. Poi, recentemente ci vennero a magnificare le loro intime e possenti psicologie Han d’Islanda, Bug-Jargal, l’Uomo-che-ride, Quasimodo, Rigoletto, personalità romantiche, ma come in oggi riconosciute? E pure sono li indici di un futurismo victorhughiano e generoso; farà di più il vostro? Ma a che prò se non rispettate i termini? Perché arte è anarchia; ma l’anarchia è sorretta da ineccepibili leggi naturali, per cui fioriscono nuove vite e si avvalorano eccezionali organismi; ma codeste leggi anomale — se posso così esprimerle — debbono venir osservate. La materia amorfa non si manifesta con forma d’arte, perché tutto elide ed abburatta dentro il suo caos; ed arte senza forma dove? Le belle forme sono l’evidenza perspicua di ottimi organismi, sani; la malattia è deforme: si può vivere anche ammalati, ma si vive male. Non è naturale eleggere il dolore al piacere.
Voi siete del resto coraggiosi e generosi; troppo, la vostra è temerità; non vi accorgete che, a sommuovere tutta la palude fangosa e ripiena di biscie livide e subdole, vi convocate contro anche la indifferenza delli accidiosi. Non si muoveranno in vostro aiuto; il fondaccio borghese, che non ha mai parteggiato d’arte, schiamazzerà d’un tratto; la visione del cataclisma, che voi promettete, sarà posta davanti alli occhi loro in modo spaventoso e delittuoso. Udrete le bestemie del proprietario, colla maledizione del prete, a chiudervi le case d’ogni ben pensante e voi sarete i Barbari. Non nego che questo potrà essere glorioso; ma tutti li altri, tutta questa masnada senza opinione, senza carattere, senza idee, senza ardire si coalizzerà e si darà mani e piedi e cervello legati e fasciati, tra le braccia di D’Annunzio. Insperato trionfo: egli sarà il restitutor Italiae! Egli, che non vi ringrazierà, apparirà il massimo conservatore delle nostre naturali bellezze, il poeta nazionale; ciò che non è; ciò che non sarà mai: e voi gli avrete fabricato sotto il plinto più solido per la sua statua d’argilla. Eccolo che sorride caprinamente colle labra tumide e moresche; tace e considera l’abbondanza della vostra anima con molta soddisfazione: quanto egli non potrà mai fare, né ottenere di virtù propria, la vostra inconsiderata abbondanza viene a porgergli davanti: costui non avrà che coglierne i frutti a portata di mano.
Semplifichiamo la vita e l’arte; niente aggettivi; niente insegne; niente tabernacoli. L’arte repudia qualunque predicato; tutto ciò che vuole definirla la limita; Essa è. L’unico modo in cui vive bene consiste nella libertà; ed io così la voglio, nuda, schietta, sincera, personale. La voglio colla Libertà incondizionata; e che ciascuno faccia da sé, per se stesso, sul mondo e sulli uomini; e dimostri il proprio carattere colle sue scoperte estetiche, di cui sono capaci i suoi sensi. Ed io desidero essere Io senza limitarmi, senza offese, nella circolazione esosa ed erosa nell’attrito e nel consumo delle mie forze, con una mia filosofia, una mia lirica, una mia politica, una mia prosodia, le quali tutte mi completino, come individuo, ma non mi astraggano dalla mia razza e dal mio suolo, e mi propongano seguitamente in contatto alle universe forze reagenti colle mie, e mi dichiarino me stesso, con sigillo speciale, con attitudini diverse, in relazione d’amicizia e di affinità non in confusione e confessione di sudditanza e di comando. Non faccio parte di nessuna setta secreta e pubblica, non trovandone la necessità; perché dovrei aderire ad una signifìcazione verbale. Futurismo? Ben venga, lo rispetto; se avrà organi vitali vivrà, e si farà adulto, e vincerà. Mi travolgerà vecchio e testardo rivoluzionario delle lettere e della filosofia, perché sarà in molta parte opera mia, ed è logico che la Rivoluzione divori i suoi figli: passerà sopra di me, ma nel giorno nel quale mi vorrà giustiziare, in quello consacrerà certamente la mia gloria.
«In fondo» tu dirai, «è la parola che tu non vuoi, perché, su molti punti, andiamo d’accordo». La parola — che non è tra le più brutte uscite dal ponzone modernista — ed il suo concetto. È un avviso, un consiglio imperativo, che si eleva in mezzo ad un quadrivio: la mano punta l’indice: «Per di qui, Signori!» E per le altre tre vie; e per ogni altra via, anche per quella dell’aria, o di sotto terra? Vedi, dunque, che le parole tradiscono. Tu sai quanto io sia contro la consuetudine; ma se vuoi fare il nuovissimo accetta il Diluvio universale senz’arca di Noè, senza futuro, come proponeva Ibsen al suo amico oratore rivoluzionario. Se vuoi vivere, bisogna che tu conceda la memoria al passato che è il modo per cui esso vive nel presente: ciò che è tuo obbligo, è fare diversamente, sorpassare il passato, cioè creare e trovare altri valori etici, estetici e sociali.
Questo interessa; con ciò si persiste nella vita: i nostri programmi li faranno i nostri prosecutori per intendersi con maggior facilità, e saranno le critiche sull’opera nostra. Per dar loro materia di disputa, mi rimetto a lavorare.
Ma ti ringrazio pur d’avermi stuzzicato colla tua elegante ed arguta proposta; la colpa non è mia se ho scritto tanto da farne un paralipomena al Verso libero. Con affetto
Le bon mot; per celia: Il Futurismo è l’arte di salire in automobile, di abbandonarvisi, rapito dalla corsa vertiginosa, declamando se stesso, per terminare, col rompersi il collo insieme alla compagnia, al primo ostacolo che non potrete scansare. Già, viva la Morte! — Viva la Vita! Io sono più vecchio di voialtri, ed ho qualche diritto per ritirarmi, tra li spettatori in osservazione; sono anche più saggio — voi direte più poltrone — ma conservo in me i diritti del passato, che si affacciano, per l’opera mia, in sui confini del futuro. Ammiro la vostra audacia, non ne sono invidioso; ma, oggi, non mi comprometto.