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Ora mietevano, e la lunga fila dei lavoratori si stendeva lontano, nera per il giallo delle messi. Il gran sole d’estate era montato da cinque ore sull’orizzonte e la campagna lombarda si spiegava folta di biade, sotto un cielo infiammato; e quel mare biondo, che sembrava riflettere la irradiazione di un fuoco, onduleggiava al minimo soffio dell’aria. Del resto spighe e spighe, senza che si discernesse un albero, una casa, l’infinito delle spighe. Spesso nella caldura si risvegliavano gli aromati dei vegetali essiccati ed un odore di fecondità fumava, esalando dalla terra.
Gli uomini lavoravano da cinque ore. Non un grido od una canzone interrompevano la fatica, non una giovialità; essi continuavano sempre ritmicamente, come bruti, ed il muro spesso delle spighe cadeva, cadeva, cadeva. Solo udivasi lo strisciare metallico della piccola falce per mezzo le paglie ed il rumore era come un sibilo attutito, uno zuffolìo di sferza che fenda ripetutamente l’aria.
Gli uomini lavoravano da cinque ore: senza un lamento, la schiena e la testa alla gran luce, essi si lasciavano riscaldare e pareva fumassero nel sudore. Il continuo movimento delle braccia nella segatura le intorpidiva, le voleva staccar loro dal corpo, con un gran dolore ed un formicolìo nelle spalle, uno stiramento penoso di muscoli nella continuata prensione della lama. E, solo, dopo tanto lavoro, Gian Pietro si ribellò, gettò la falce in mezzo al grano, e fieramente alzossi.
«Cristo!»
E gli occhi fiammeggiarono.
Poi tranquillamente si cacciò in bocca un mozzicone di sigaro, e così, colle braccia conserte, ritto nella gran luce, riguardò i compagni chini al lavoro, davanti al muro alto dei grani.
«Ecco: dopo ch’egli era partito pei suoi tre anni di soldato, parve che ad un tratto avesse cambiato carattere, che tutto si fosse mutato. L’aria della grande città, la compagnia dei commilitoni, l’istruzione rozza a poco a poco gli avevano aperta la mente. Prima era un gagliardo, robusto, alto, forte, che lavorava, lavorava, senza chiederne il perché, una gran macchina umana che a mezzogiorno ed alla sera empievano di cibo, come una locomobile s’empie d’acqua e di carbone, e che poi slanciavano alla fatica, sicuri che fino ad una data ora non avrebbe smesso, cessata la carica e non si sarebbe esausto di forze: prima nulla chiedeva, dava tutto se stesso ciecamente e l’assegnato compieva, come una bestia da lavoro. Oh! egli si ricordava della gaia canzone che la mattina gettava all’aria ancora sonnolento, nella freddezza dell’alba, quando il sole si ergeva in fondo alla pianura lentamente, come da mare, e per le plaghe celesti dei gran raggi d’oro si sperdevano, ascendendo vividi e corruscanti, quasi immense lame. Ed allora il lavoro non gli era fatica: sempre ritrovava la barzelletta scurrile, allietando i compagni, la sua gaiezza non si interrompeva mai, ma spiegavasi, in grandi scoppi di risa, e nei freddi autunni, nei lavori delle sementi e negli afosi estati, durante la tagliatura delle messi. Ed ora? Quella lunga inerzia della guarnigione pareva che l’avesse dissuefatto dai campi, come un arnese che l’ozio irrugginisce e che, di nuovo, posto all’opera, va riluttante e faticoso, si arresta, stride e, costretto, schianta. Un nuovo soffio di libertà l’aveva pervaso ed in esso egli ora riviveva: forse che prima aveva vissuto? No. Le teorie nuove del socialismo gli avevano messo nell’animo una grande tenerezza ed una compassione pei suoi compagni di lavoro, un nobile orgoglio di sentirsi uomo; lo spirito della ribellione lo aveva tutto scosso e fortificato: essere umano, allora solamente, si esplicava e come tale voleva operare. Ed era un turbinio di idee e di concetti male assimilati, che fremevano nel suo cervello e che l’esaltavano; la lunga servitù dei contadini, lo sfruttamento insistente di tutte quelle forze umane, costrette dai padroni, la lotta faticosa colla terra che tutto assorbiva, vigore e vita, la folla ricca e tripudiante delle grandi città che viveva alle spalle dei faticanti e li irrideva, l’ozio ed il lusso che imponevano ai rustici di nutrirli sempre, senza alcun premio come obbligati. E ciò poteva durare?
Si ricordava; per certo tutto doveva finire: il magro finalmente avrebbe divorato il grasso; eguaglianza per tutti, i grandi diritti aperti ad ognuno, per nessuno ristretti. Esso vedeva sorgere questa nuova alba di pace e di serenità dopo tanto tempo, sorgere un buon sole dopo le intemperie dell’inverno; vedeva l’affratellamento dei popoli che volgevansi alla terra ed alle manifatture in comune, tutti lavorando e vivendo del frutto delle loro fatiche. L’era nuova sentiva, davanti ai suoi occhi d’allucinato, intera, come una cosa reale, ed ecco, ora l’avrebbero raggiunta nella felicità mondiale. Così, chino avanti la fantasticheria di quel sogno di poeta gagliardo, esso si dimenticava, si prostrava dinanzi a lei, come un bramino nell’estasi del Nirvana, adorando un Dio proteiforme ed onniveggente. Ma, poi, dalle altitudini dei generosi pensieri egli ricadeva, si trovava terra a terra, costretto, spinto... oh la ribellione, la ribellione. Ma tutto ciò era una fantasia. Il lavoro sempre opprimeva i poveri; nessun quartiere a loro; crepino alla campagna! La città da lungi, come una gran piovra, li assorbiva, li sfruttava, li maciullava, ricca di sangue e di oro, chiassosa colle sue larghe botteghe splendenti di specchi, illuminata la notte dalle lampade a gas, frequente di carrozze lucenti, di belle donne eleganti che sorridono e baciano, gioviale nella borghesia pasciuta e divota, scapigliata nelle orgie frammezzo ai vini generosi, ai cibi fumiganti e saporiti e alle femmine nude. Oh, sacr...! Ciò non poteva durare: fuoco e ferro!...»
Li altri continuavano il lavoro: la massa delle spighe cadeva a terra, mollemente frusciando, come una cosa tenera e pingue; a poco a poco il campo segato si ampliava, sparso di messi a mucchi, di paglie intrecciate, accalcate, e, dietro ai falciatori, altri formavano i covoni immensi, alti, legandoli come in una ruota d’oro filato e fiammeggiante. Tratto tratto qualcuno arso dalla sete nell’ora meridiana, usciva dalla fila, prendeva una bottiglia sdraiata sulla terra e, sturatala, beveva senza disgusto: l’acqua leggermente acre dall’aceto e tiepida gli scendeva vellicante e nauseosa per la gola, insopportabile come un emetico, mettendogli una patina in bocca ed un borbottamento nello stomaco: sazio, ma non dissetato, asciugavasi col rovescio della mano le labbra, e di nuovo alla fatica.
Ora erano venuti i carri: le ruote larghe lasciavano sul campo dei solchi paralleli, i cavalli ampii colla testa china sudavano, dando le groppe lucide e le criniere seriche al sole che le illuminava suscitando vivi colori tra i crini ed i peli, come vi rifrangesse i suoi raggi. E veniva la faccenda del caricamento. Gli uomini, formati i covoni, li legavano con delle corde di paglia, tenendoli fermi, tentando di abbracciare quel viluppo enorme di spighe colle magre braccia, pigiandoli col petto fortemente e, posti sulle cosce, alzati, gettandoli sul carro con un giuoco di muscoli penoso e continuato. Questo a poco a poco si empiva, sopra formandosi come una catasta alta, e, poiché si metteva in moto (l’altro sopraggiungendo), andava via barcollando quasi un briaco, zeppo di tanto pane, a stento nella terra non battuta del campo che gli si affondava sotto, frusciando, prendendo qua e là qualche spiga o qualche lunga cannuccia di paglia. Poi spariva sulla via bianca in un fumo di polvere, sotto il cielo azzurro che aveva impallidito, annunciandosi il meriggio.
«Fuoco e ferro! poiché i diritti non sono loro accordati, essi se li sarebbero presi, presi colla forza di tutta quella turba imbestialita, cieca dopo il grande servaggio ed animalescamente umana nei suoi appetiti a lungo frenati. Avrebbero avuto finalmente paura! Dinanzi a Gian Pietro si stendeva l’orrore della rivolta, i fumi e le fiamme dell’incendio, le grida dei feriti, la bufera umana degli accorrenti, e soprattutto il ruggito degli oppressi che si vendicavano. La rivincita, perdio, la rivincita tanto aspettata, tanto sognata, arrivava! sangue ed oro! La città crollava conquistata. Nella notte l’incendio colorava il cielo di una rifrazione purpurea d’aurora boreale, da lungi si udivano i crollamenti delle case, strepitosi, pesanti, e nei grandi silenzi della distruzione, a tratti, il canto dei ribelli: la rivincita! essi la tenevano.»
Il contadino fece un gran gesto di minaccia nell’aria calda e sostò colla testa alta, come aspettasse qualcuno e lo ingiuriasse, forte come un gigante, libero come una bestia selvaggia e grande come un umano.
Ora il fattore veniva per la visita; Prospero Coli, un uomo alto, magro, con due baffi bruni, con un’aria di carabiniere in ritiro, sempre serio, rude e nelle piacevolezze villano. Passava vicino ai lavoranti, guardandoli fissamente ad uno ad uno, mentre ch’essi aumentavano l’alacrità; poi si fermò vicino a Gian Pietro.
«E tu fai nulla?»
Il contadino, riscosso, lo guardò torvo.
«No.»
L’altro fece un movimento brusco, ma si ritenne. Si videro dopo discorrere animati, soli, nella grande pianura falciata, poi percuotersi fortemente coi pugni in mezzo al petto. I mietitori si alzarono stupiti dell’audacia, come bestie assuefatte all’obbedienza; qualcuno gridò:
«Oh, Gian Pietro! Gian Pietro!»
Poi silenzio.
Nel gran sole i due si battevano fortemente ed i colpi risuonavano, come dati su di una pelle tesa; infine il fattore cadde a terra, colle braccia aperte, segnando come un gran crocifisso.
Di lontano vennero i tocchi di mezzogiorno; la sonorità della campagna si sgranava per la volta del cielo tersa e lucente, come se fosse materiata in un marmo leggermente azzurro.