Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Prosa

Spirito ribelle

II

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

II

 

Ora, dopo la scena, il tempo era passato nel naturale torneo delle stagioni. I campi, finita la mietitura, si stendevano arsi, gialli, senza il pingue ornamento delle spighe, colle paglie sorgenti così dalla terra, a mezzo tagliate, intrecciantisi, piegate, schiantate, come se sulla campagna avesse infierito un uragano o vi fosse passato sopra un reggimento d’artiglieria a tutto galoppo.

E venne la grata stagione dell’autunno; il caldo eccessivo si attutiva; la sera e la mattina veniva dal Ticino un’aria fresca che tutto ristorava, e la piana interminata incominciava ad acquistare varietà, i verdi freschi dei prati spiccando, poi il brullo dei campi che riposavano, mentre gli alberi segnavano in linee tremule al vento i corsi d’acqua irrigatori del canale Villoresi e qualche fattoria bianca e rossa spiccava; in giro all’orizzonte, uscenti da una cortina di piante che tutto lo segnava, i campanili alti e monumentali di M... e di C... s’ergevano.

Dolce era la fatica per il contadino; finalmente, dopo la mietitura, esso lavorava per sé d’attorno al melgone, al suo cibo; il signore lo lasciava libero di dedicarsi alla sua propria vita, ed esso pareva che sudasse non sulla terra del padrone ma sulla sua proprietà, con anima e passione, poiché almeno quel grano giallo orientale non gli veniva portato via. Quindi una buona gaiezza si spandeva pei campi, ed erano canzoni che passavano per l’aria rinfrescata ed un chiamarsi da quadrato a quadrato, un rispondersi, raccontando i fatti del villaggio. Spesso tutta una famiglia veniva ai lavori; a mezzogiorno mangiavano sotto gli alberi di confine, che frusciavano al vento, gridando e piagnucolando i bimbi, le donne sgridando e gli uomini portando il cibo a pezzetti, sulla punta del grosso coltello, alla bocca.

E pure in questo ridestarsi dei rurali a più benigna vita, non sentivasi Gian Pietro mosso dalla comune letizia. Parve anzi che più si intristisse. Dopo la scena aveva sentito dentro di se l’ira e lo sdegno atavistico dei suoi padri, per generazioni e generazioni oppressi, bollire nel suo cervello e nel suo cuore, ed il fumo salirgli agli occhi, velandoli in una visione rossa. La lotta col fattore, la prima che avesse fatta per la sua idea, l’aveva eccitato, l’invogliava alle azioni, come l’odore del sangue spinge la belva alla strage. Onde in casa non parlava mai, raramente vi rimaneva, come la avesse a peso; vi giungeva pel cibo e pel sonno, poi sempre fuori all’aperto, alla grande aria, così passeggiando e guardando al cielo, come un povero folle che in se stesso voglia trovare una favolosa scoperta od una immensa ricchezza, vagando così di notte e di giorno; spregiando ora i suoi compagni che per poco all’accenno della rivolta rialzavano il capo, ma poi di nuovo chinavano le terga, obbedienti come prima, peggio di prima. «E sta bene, diceva, essi devono far questo: non sono che del fango impastato.» Il suo pessimismo contadinesco e rozzo lo portava a dubitare di tutti, a sprezzar tutti, anche se stesso, restringendosi nei principii male assimilati e strani di una nullità eterna ed indistruttibile.

Quindi i vecchi in casa si lamentavano. Ecco, ora che essi credevano finalmente di riposarsi, di godere dopo la fatica dei campi di un po’ di vita quieta, almeno prima d’andare alla terra per sempre, non lo potevano; e non era pel figlio che si rammaricavano, poiché l’osservavano di nuovo, presto, amoroso come prima della partenza, ma tuttociò era come nascosto, non si poteva spiegare ampiamente, quasicché qualche cosa lo opprimesse, obbligandolo. Era verso la città, il governo, la vita militare che loro sentivano una specie d’odio e di paura, poiché come cose ignote e strane e quasi malvagiamente divise li riguardavano; essi soli, avean loro mutato, cattivamente mutato il figliuolo, tanto che in mezzo ai suoi pareva un estraneo.

Nella sera, che già incominciava a divenir lunga, vicino al fuoco semispento, mentre la madre ossuta, eretta, filava, il padre canuto, cogli occhi infossati, curvo, come già inchinasse alla terra che doveva dissolverlo, a quella cui tutto aveva donato, così discorreva. Alla tenue luce della lampada ad olio il fuso girava, girava prestamente per l’impressione delle dita sulla punta, come spinto da una forza misteriosa nella semi-oscurità, poi a tratti si fermava: la donna gli avvolgeva intorno il filo umido di saliva, rispondendo ad intervalli al marito. Allora entrava Gian Pietro; anch’esso, dando la buona sera, si sedeva e colla testa china fissava continuamente il fuoco. Esso rilevava i rabeschi dorati e purpurei delle bragie e la candidezza delle ceneri recenti.

Così tutte le sere.

E frattanto venne il tempo della seminagione: ancora erano belle e soleggiate le giornate, ma fresche: il cielo s’era intenerito in un azzurro limpidissimo; delle nuvole bianche e diafane striavano in alto, alle volte porporine ed infocate al tramonto, ora che i giorni cominciavano a decrescere. Gli alberi si attristavano all’annuncio dell’inverno, si facevan brune le rame e perdevano le foglie ingiallite. Esse cadevano sul suolo, facendo un alto strato che a poco a poco imputridiva, mandando all’aria un odore di concime e di cosa pingue che si dissolva.

Era un gran lavoro. I contadini, con un grembiule di tela bianca annodato sul ventre e con un gesto ampio e sacerdotale della mano destra, facevan volare le sementi bionde che ricadevano sul terreno appena arato: i buoi fumavano nel sudore ed il fiato usciva visibile, leggerissimo ed azzurro; muovevano il vomere dell’aratro, lucente nel fendere la terra, compresso dalla mano del contadino, spesso mugghiando e come richiamandosi e rispondendosi da un campo all’altro. Poi venivano dei carri di letame; la bruna massa pareva cuocere, spandendo intorno un odore ammoniacale: sparsa a forcate sulla terra, fumava ed il suolo l’assorbiva con avidità quasi si ricongiungesse con una parte di se stesso, a lungo smarrita, e per essa ampiamente si fecondasse.

Allora, così bighellonando, veniva ai lavori Gian Pietro e li osservava.

I bovi aggiogati tiravano lentamente, con uno sforzo di groppe ed una tensione di muscoli del collo: a tratti il coltro ed il vomere stridevano nella terra bruna, incidendola fortemente, come in una buona ferita, da cui urgeranno nelle propizie stagioni le sementi trasformate in ispighe, mentre l’orecchia, che pareva si sprofondasse negli inguini della terra, squarciatone il derma, ridonava all’influenza del sole e dell’aria gli strati interni, vergini ancora e non sfruttati, in zolle grasse e pastose come la creta e quasi umide, che si rovesciavano pesantemente, con un fruscio di cose lucide e seriche che scivolino l’una sull’altra nella caduta. In fondo, sui campi non ancora arati, volavano le sementi e stavano i letami scaricati; dall’alto monticello questi venivano dagli uomini a poco a poco ed a forcate sparsi sul suolo, in una specie di tappeto, mentre essi ciarlavano dei fatti del villaggio.

Ora adunque, quivi venendo, Gian Pietro ritrovava i compagni. E c’era Battista Infanti, detto il Ciavetta, poiché altissimo della persona, magro e con una testa più grande che non la comportasse la sua corporatura, uomo già vecchio con grandi baffi grigi e gli occhi azzurri tenerissimi, dallo sguardo fanciullesco e strano, sempre rivolti al cielo, come compresi dalla sua immensità, cui non sapevano spiegare; padre di una schiera di fanciulli mocciosi, laceri e piagnucoloni, che da lui avevano ritratto quegli occhi azzurri di sognatore e la vacuità servile della sua mente.

Con questo si metteva a parlare. Andavano di pari passo, con grandi gesti nell’aria; tratto tratto si soffermavano, fermandosi anche i ruminanti, che l’aratore spingeva col pungolo e col grido gutturale:

«, , via

Diceva il Ciavetta, con la sua voce lenta:

«Ecco; a poco a poco il lavoro diventava pesante per la sua età: nel tempo della seminagione però non poteva lamentarsi: andava meglio. Se non fosse per l’acuto freddo della mattina e del vespro che pareva gli volesse toglier via le mani... ma pure s’accontentava. Erano gli altri lavori che gli riuscivano faticosi. Davvero colla sua mente non riusciva a comprendere come tanti uomini robusti e forti stessero obbedienti al cenno del padrone e lo temessero come un soprannaturale; egli faceva così perché tutta quanta la sua famiglia, da quando era venuta sulla terra, aveva fatto così, perché aveva ereditato anch’egli la pazienza degli antenati e, come un obbligo lasciatogli dai maggiori, lo rispettava e non credeva di dover ribellarsi. Pure i tempi diventavano tristi e penosi. , , via

«Dite bene, Battista» l’interrompeva Gian Pietro.

«Ora poi che il fattore pretendeva troppo! Sentite, si trattava di diminuirci la paga, sicuro, di dieci centesimi al giorno. Dice lui che le giornate si fanno corte, che noi non lavoriamo di buona lena, che ci vuole un esempio. Intanto i debiti crescono ed un bel giorno ci manderanno via. Sopra una strada a crepar di fame in pieno inverno! ed allegria a chi resta! Che se ne doveva fare?»

E sorrideva stentatamente, cogli occhi azzurri e colla bocca in una smorfia grottesca:

«, , via

Così, in mezzo al silenzio ed al grave lavoro dei campi, in piena aria, Gian Pietro cominciava l’esposizione della sua dottrina. S’alzava dalla terra, declinando il sole, una leggera nebbia che sfumava le sagome degli alberi ed estendeva l’orizzonte in profondità vastissime e come incommensurabili; l’aria si faceva più fresca ed una gran pace pareva venisse dal cielo a lenire le angoscie del contadino.

Diceva:

«Ora finalmente anche loro cominciavano a comprendere e la ragione li aiutava in quel progresso. Si rallegrava; il tempo era dunque vicino. Un po’ di coraggio, un po’ d’anima, si sprezzassero quelle ridicole paure, si facessero vedere uomini. Non chiedeva, no, del sangue e delle stragi, ma una opposizione lenta, costante, un razionale concepimento dei propri diritti e un volerli ottenere costantemente, fermamente, col retto criterio di chi giudica e sa dove arriva. Finalmente, finalmente, un po’ di coraggio, Battista

Il chiamato, come era alla fine del campo, fece voltare i ruminanti, e scrollando il capo:

«Cose lunghe, lunghe; a volte, anzi sempre, sognate. Quando li avranno? Mai, mai!»

E si rassegnava, ricadendo nell’abbattimento sciocco di quella eredità di pazienza e di patimenti, trovandosi in quella così contento, e non volendone uscire pel santo timore delle novità, dei turbini popolari, fermandosi sempre a questo punto, come un fatalista: ciò era predestinato e non se ne doveva ricercare le ragioni od il miglioramento. Poi dava la voce ai bovi:

«, , via

Gian Pietro lo lasciava e pei campi andava innanzi mesto e sfiduciato, ricercando i compagni collo sguardo e soffermandosi vicino a loro.

Intorno ai mucchi di letame ed ai carri scaricati stavano gli uomini. E c’era Carlo Anzoni detto il Scavalcatecc, giovane altissimo, cogli occhi a fior di testa ed una enorme bocca, una chioma incolta, ruvida, d’un colore oscuro ma indefinibile, dalle ombre cineree e fredde. Agilissimo e motteggiatore, il dialetto gli usciva pronto e vivace con un sale pungente, ma rustico e la sua più grande gioia era il far nulla, un bicchier di vino ed una zuppa, ed alla fine una gran storia intricata di fatti inventati, di verità avvolte in un velo iperbolico, come una confusione strana e, nella sua campestre rudezza, armoniosa ed artistica.

C’era Angelo Lanzoni, detto il Ross, tarchiato, con un collo toroso e delle braccia forti nel giuoco dei muscoli, che sotto la pelle si rilevavano a rigonfiature, come in un nudo di Michelangelo: una testa inespressiva, di buon bue che fatica tutto il giorno e la sera si lascia andar stanco sullo strame fangoso della stalla: due grandi occhi sempre attoniti, un naso camuso; e già avanti in età, ma ancora celibe, senza un pelo di barba, tranne una lanuggine sulle guancie brune di frutto silvestro ed acido. Sul capo aveva un ciuffo di capelli rossi, prepotente, ispido, sempre diritto, come se egli fosse continuamente spaventato ed il ribrezzo lo facesse arricciare in ogni pelo. Carattere che s’accendeva, a tutto ciò che non arrivasse a comprendere, credendosi deriso, imbestialiva, come un toro nei giorni di furore alla vista d’un panno rosso. La forza allora gli si aumentava: colla testa bassa, gli occhi stralunati, correva incontro all’avversario, picchiando, picchiando forte, poi, ripiegandosi lui stesso in due, cadeva a terra e piangeva come un bambino, nell’eccesso della sua ira sfogata, ma non sazia. Vestiva neglettamente, state ed inverno teneva aperto lo sparato della camicia, come sprezzando le ingiurie delle stagioni; solo al cominciare delle brezze d’autunno si fasciava il collo d’un gran fazzoletto sucido; dicevano le male lingue che, da che era nato, egli l’aveva portato sempre così.

C’era Battista Franzi, un omino vecchio, detto il Barba, con la faccia sempre rasata, aperta e gioviale, che, ridendo, mostrava ancora nella sua vecchiezza una fila di denti bianchi e sodi. Vestiva colle brache corte e con una marsina del principio del secolo: era rimasto vedovo e solo, il figlio ammogliato in America, da cui ogni tanto riceveva qualche cosa, onde diceva un gran bene di quel paese lontanissimo, parendogli come lastricato d’oro e splendente di gemme.

Adunque con questi ritrovavasi Gian Pietro e nella imminenza della sera gli uomini lo salutavano:

«Oh, Gian Pietro

Rispondeva:

«A lungo rimanete al lavoro

«Ma! Così era la loro vita; dura, faticosa, da cui forse non uscirebbero mai; si poteva crederlo

Intorno ai mucchi di letame Lanzoni ed il Franzi si fermavano, appoggiando la persona sul manico delle forche infisse nel suolo, mentre il Ross continuava il suo lavoro, tratto tratto sclamando nella conversazione, ed altri sparsi per la campagna si fermavano intorno al crocchio. E come prima col seminatore aveva parlato dei benefici della rivoluzione, così ora davanti a quelle persone egli si estendeva ad enumerarli. L’uditorio gli era più benigno, essi astrattamente ed alla lontana venivano a comprendere ciocché Gian Pietro loro diceva; spesso il frizzo usciva dalle labbra dello Scavalcatecc e lo interrompeva:

«Dici bene», e lo approvava.

Gli altri, in coro, chinavano nel consenso la testa e l’oratore improvvisato prendeva animo davanti ai neofiti suoi, spingendoli in quella via razionale:

«Se fossero tutti come voi, la cosa camminerebbe bene; non ci vorrebbe altro che gettare per un mese la zappa e l’aratro in mezzo all’erbe e lasciarli ad irrugginire, alla pioggia ed al vento: i borghesi affameranno: tutta questa grande città senza pane verrebbe a pregarvi. Voi avete la forza, la potenza; adoperatela

«E mangiare, come si farebbe allora senza lavorochiedeva il Ross.

Gian Pietro con un largo gesto indicava lontano sull’orizzonte un punto immaginario, a lui solo noto, scorgendovi quasi le mura della città, fra le nebbie della sera.

«, , nelle botteghe di lusso, splendide di gemme e di sete; n’avreste fino alla gola, fin alla nausea, se voleste... se voleste...»

E ritornava ai suoi sogni.

Gli occhi degli ascoltatori luccicavano ed un sorriso si accennava sulle labbra smorte; ora l’indefesso lavoratore smetteva la fatica e si mischiava al crocchio attirato da quella visione rapida e promettente, ed attento lo ascoltava.

«Sì, sì, la città

In mezzo alla natura sorgeva un soffio caldo di rivolta; tutti si animavano, cento proposte uscivano insieme, i parlari si confondevano, vociavano alto, bestemmiando, sorridendo, con una specie di tremito convulso nelle mani, un’agitazione in tutto il corpo, un orgasmo, quasicché il momento fosse giunto, tutto fosse preparato e non mancasse che la scintilla allo scoppio delle polveri.

«Così, così, tutto ciò si farebbe, si credesse a loro.»

Poi si lasciavano con rudi strette di mano: i cavalli aggiogati ai carri, nel greve silenzio, scrollavano le groppe con un tintinnio di ferramenta ed un percuotersi di corami; lentamente, stridendo le ruote, partivano, e la campanella squillava nella pace, e sfumavasi la comitiva lontano, come una carovana sperdentesi nei silenzi e nelle profondità dei deserti.

E da quei giorni cominciavan le radunanze dei compagni sull’aia della casa di Gian Pietro, ora che il freddo non eccedeva e nelle stalle all’inverno raccolti intorno al lume della lampada ad olio ed al caldo alito dei bovini. Il nuovo profeta partiva ora dai campi contento, eccitato, dopo la prima sconfitta e dietro a lui sentiva che a poco a poco attingevano alla meta. Così fosse finalmente!

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License