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Di quel tempo (era il principio dell’inverno) ritornò al villaggio da Milano, dove era come domestica in una casa di borghesi, Giovanna Bruni, figlia di Caterina e di Pietro Bruni. Il suo arrivo aveva portato come una specie di agitazione nelle femmine rusticane; ora poi che il lavoro più non le pressava, che indugiavano il giorno e venivano quasi tutte la sera nella stalla ampia e bassa del cascinale di Gian Pietro.
La ragazza non era bella, ma di forme sode e tornite; il bruno colore della campagna veniva temperato dal lungo rinchiuso della città, che l’aveva soffuso di una leggera tinta dorata, invermigliandosi alle guance; due grandi occhi azzurri tenerissimi, un po’ imbambolati, ma che a volte mandavano vivi lampi di una malizia rude, acquistata nelle conversazioni delle serve la sera, quando s’incontravano sulle scale, colle secchie in mano od alla spazzaturaia e si fermavano lì in mezzo alla corte alle stelle a chiacchierare di cose grasse ed a sparlare dei padroni. Quel lampo chiaro e risplendente di solito accompagnava il sorriso aperto e gioioso delle labbra porporine e rendeva a tutta la sua fisionomia, d’un tratto ravvivata, quel carattere spiccato e triviale di una giovane ebbra, che si rallegri per le scioccherie che dice o che si commova alla gioia per una scena salace ed impudica. La sua maggior bellezza era una lunga treccia di capelli castani, o meglio di un colore ora cupo ora biondo e lucentissimo, mobile ad ogni cambiamento di luce, nelle variazioni delle tinte ora brillante, ora confuso colle oscurità. Ed era codesta venuta una mattina (la strada era gelata), e non se ne sapeva il perché, non avendolo mai voluto confessare. Le vesti a volanti, a pieghettature, a drappeggiamenti, avevano subito occupato le donne; la si guardava, la si ammirava, se ne tentava la stoffa, la si faceva rigirar da tutte le parti. Giovanna, fiera del trionfo si dava delle arie, si metteva là in mezzo ai crocchi colle mani grasse strettamente inguantate, assaporando compiacente quella stagione di celebrità che le si faceva d’attorno, da regina che accolga con grazia, ma non premurosa, gli omaggi ben tributati dai suoi devoti e fedeli sudditi. Affettava il parlare cittadino, accentuandolo grottescamente in mezzo alla generale conversazione nel sermone del villaggio, voleva in tutto apparire staccata dalla folla e quasi porsi in alto su di un piedestallo, come un essere speciale e delicato, per farsi circondare d’attenzione e di cure amorose.
La città l’aveva cattivamente raffinata; l’aveva raccolta con quella misera istruzione di campagna, con quelle superstizioni che infonde un culto di religione non intesa, con quella malizia contadinesca rozza e plateale, con quella ingenuità ignorante. Ora ritornava con delle cognizioni male assimilate, con delle notizie a spizzico, lette sui fogli cittadini ed interpretate nel peggiore dei modi; sfatata dalla paura del suo Dio ed incredula dei benefici dei santi protettori, maligna di quelle crudeli e lubriche rivelazioni delle sue compagne sui fatti dei loro signori, e presuntuosa della sua capacità. La mente sua, che male aveva distinto, s’era rapidamente sviluppata in tutto ciò che materialmente l’aveva colpita; l’onestà, che dapprima aveva poco pregiata, credeva ora una cosa da nulla e se non era caduta (se pure era possibile, poiché nulla se ne sapeva) avrebbe però facilmente ceduto. Soprattutto il guadagno l’aveva attirata, l’idea dei facili successi e delle fortune astutamente acquistate: si parlava di serve compiacenti che erano diventate padrone, di cameriere belline e non ritrose che si erano lanciate in quella vita effimera e lussuosa delle moderne etère: in ciò solo credeva ed a ciò solo aveva tentato, con nessun talento, con nessuno di quei pregi che fanno dimenticare tanti difetti e che a volte spingono ad innalzare o ad abbassare codeste femmine: v’era l’embrione della cortigiana, ma mancava la potenzialità all’ultima e splendente meta. Col capo pieno di queste idee, che non avevano fruttificato, s’era trovata in diritto nella sua ignoranza di dire il più gran male possibile del luogo donde veniva: nessuna amicizia l’aveva astretta a persone della sua classe, tutto crudamente giudicava e nella sua ferocia di demolizione c’era pure gran parte di vero, comecché la sua immaginazione ottusa non la spingesse ad amplificare, ma solo raccontasse quanto aveva veduto e sentito. E poiché tutto era turpe, assimilando, la sua esperienza si riduceva a giudicare sopra di un luogo immondo.
Così corrotta era ritornata, coll’amaro in bocca e la stizza in cuore di non essere riuscita in ciò che voleva, come uno di quegli esseri che vedono la bellissima meta luccicare lontano, attirandoli, ma che la loro ignoranza, il nessun ardire, la naturale e conosciuta debolezza delle loro forze, penando, li costringono a rimanere dove sono o a cader più basso: si trovava quindi una spostata, non di quelle che le circostanze assoggettano, ma di quelle altre che sperano ciò che naturalmente non possono effettuare.
In questa parità di circostanze non era forse necessario che Giovanna ritrovasse grata la compagnia ed il discorso di Gian Pietro? Quei due esseri, né buoni né cattivi, dovevano affatto comprendersi.
Quindi si ritrovavano alla sera nella stalla del cascinale. E vi veniva il Ciavetta colla sua fila di figli, e l’Angelo Lanzoni ed il Battista Franzi e la madre di Gian Pietro ed i parenti di Giovanna; delle ragazze bruttine ed apatiche, le madri, dei giovanotti che si davano delle arie attorno a Giovanna, dei bimbi strillanti in fondo nel buio ed altercantisi per un rozzo giocattolo di legno. Il crocchio si faceva in un angolo del lungo presepio. Dalle travi basse scendeva una pendula canna, cui s’appiccava la lampada ad olio e quella luce che veniva così dall’alto illuminava il capo e le mani in faccende, lasciando il resto nell’ombra. Quando c’era la luna od una fresca nevicata, una finestrina in fondo s’illuminava ed il chiarore sidereo e vivo faceva sulla parete nera in faccia come una specie di disco lunare, evanescente, dolcissimo e strano a vedersi. Le piante di fuori, martoriate dal vento, vi facevano passare la loro ombra netta, svettante, angolosa, curvata, come figurine chine si su di una tela candida e trasparente.
I vecchi ricordavano le annate prodigiose e felici del passato e le rimpiangevano: i giovani rozzamente tentavano le ragazze di amore e si facevano intorno alla signorina Giovanna. Essa lavorava, quasi noncurante, all’uncinetto: le sue dita, grasse ed inerti al giuoco agile dei muscoli, s’impacciavano nel filo sottile e sull’asticciuola d’acciaio, onde il merletto riusciva sucido e goffo, spesso sbagliato. Un contatto repentino di quei villici la irritava,. si faceva in sé come una mimosa sensibilissima, si rassettava le vesti sulle cosce e vicino alle gambe, con piccoli colpettini di sdegno.
«Oh, dico, fatevi un po’ in là, che mi soffocate.»
Ora dopo i primi giorni di celebrità era succeduto una specie di raffreddamento e di gelosia nelle femmine rusticane; che si sentivano a mormorare:
«Ecco, poi che si credeva mai di essere quella smorfiosa? Alla fine era del paese anche lei e tanto boria non la dovrebbe avere. E poi...»
Una fanciullona alta e secca, la Maria, con una massa di capelli rossi e le labbra strette e vivissime, accennava che si chetassero e facessero piano; e continuava ella stessa:
«E poi per me..., non dice nemmeno per qual cagione è ritornata; sicuro... un mistero, qualche cosa di cattivo.»
E bisbigliando: «Se sapeste anche», e sorrideva. «Dalla mia finestra la veggo in casa. La mattina s’alza tardi e la scorgo vestirsi. Non credete che tutto quello che ha indosso sia suo, tutt’altro; guardate, appena alzata è così liscia come la mia mano. La veggo io, si rimpinza di stracci qua su al petto, ma cose... da ridere!»
Le altre, messe in buon umore, rattenevano a stento l’ilarità, che poi scoppiava villana e triviale, come un insulto.
E ritornava la calma. Dicevano le madri:
«Oh sì, davvero!»
In fondo, tra gli uomini, il Barba ritornava alla storia del paese lontano, al di là dei mari.
«... Una maraviglia vi dico. Là si guadagna senza lavorare, e monti d’oro dappertutto. Fortunato mio figlio, fortunato», ripeteva colla insistenza senile di un vecchio che stenti ad afferrare l’idea e che ripeta sempre le parole dette prima, come per risovvenirsi.
A volte si faceva un gran silenzio. Le vacche sdraiate ruminavano ritmicamente in una nenia indecisa e pesante, che induceva al sonno: ora si alzavano con dei tintinnii di catene e con dei gran riscossoni e volgevano indietro la fronte cornuta a guardare gli umani, contente della loro compagnia. Si sentiva il frullo sibilante del tornear rapido dei fusi e l’incontrarsi dei ferri da calza nervosamente e destramente.
Qualcuno entrava. Dal vano della porta aperta urgeva un’aria fredda e letificante in quel caldo umido e greve dell’ambiente, facendo vacillare la tenue fiamma. Il nuovo arrivato salutava:
La parola sacramentale passava su tutti i toni della gamma umana e pareva uno scongiuro od un segno di riconoscimento agli adepti d’una nuova religione.
Egli si sedeva sulle assi, scambiando qualche parola sul tempo: poco dopo russava, conciliato e cullato dal tepore e dal mormorio della conversazione che s’andava animando, mentre qualche altro usciva, salutando come il veniente, e di fuori l’ascoltavano allontanarsi con dei passi lunghi e misurati, sul terreno gelato.
Sul tardi veniva Gian Pietro, come un elegante che si faccia desiderare ad una festa da ballo, e come si avvicinava alla Bruni, i giovanotti che le stavano attorno si sbandavano. Malignava spesso Carlo Anzoni, con quegli occhi a fior di testa e con quella bocca ampia che faceva mille smorfie.
«Ecco, ecco, era arrivato. Si rallegri la signorina che le è giunto l’amante. Oh quante cose belle avranno da dirsi.»
Qualcuno sorrideva, qualche altro lo stuzzicava che stesse zitto e non eccitasse Gian Pietro.
Egli rispondeva: «Oh, lo si sapeva che era un buon figliuolo e che non voleva male a nessuno; diceva così perché gli piaceva tener allegra la brigata. Se fossero all’osteria, davanti ad un boccale di quello rosso di Piemonte, ne racconterebbe delle storie, da tenersi il ventre dal gran ridere.»
Quindi non era strano ch’egli tornasse sempre a parlare dei suoi amori bacchici e della pochissima voglia di lavoro.
«Non era poi esagerato; un bicchiere di vino, un po’ di pane ogni giorno; non voleva di più, ma senza lavorare, veh! Era questo il suo peso, la sua croce. La settimana avrebbe dovuto essere composta di sei domeniche e di un lunedì, sicuro...»
Carlo vagava così nel suo dire figurato, dimostrando la sua filosofia tutt’affatto buona e dilettevole ad udirsi, ma impossibile ad effettuarsi.
«Diavolo, era questo il suo peso, la sua croce.»
Gian Pietro si sedeva vicino alla fanciulla. Tra loro due l’intimità s’era subito fatta, sebbene prima della partenza pochissimo si conoscessero e si frequentassero. Le stesse idee, che non manifestavano completamente, ma che solo accennavano, il loro carattere, quella stanchezza irresoluta ed inconscia del presente li avevano avvicinati; e si parlavano rudamente asciutti, ma con una certa amorevolezza di vecchi amici che godono della reciproca compagnia. Non era amore, era una affinità fisiologica e morale, né d’amore parlavano. Pure spesso tentava il giovane d’usare quelle frasi comuni, che aveva imparato corteggiando la sera le bambinaie nei passeggi pubblici e spesso tentava la fanciulla di mostrare quella civetteria delle corteggiate, onde per poco si ritornava alla vita trascorsa. Si rammentavano i giardini larghi che s’imbrunivano, le panche di legno su cui s’erano seduti sotto le magnolie fiorite, mentre l’orchestra si spegneva in fondo davanti al caffè e s’andavano accendendo i fanali del gas fra la verzura. Era un ritorno a quella vita gaia ed elegante che non avevano gustato, ma in cui si erano trovati come intrusi, alle vesti di seta, allo sfarzo delle carrozze che correvano in fila su ai bastioni, mentre i pedestri di sotto ai platani le osservavano e così sorgeva una rabbia nella donna per non aver potuto attingervi, ed un odio nell’uomo per tutto quello spreco orgoglioso che non poteva schiacciare.
«Ed ora, qui in una stalla la notte per stare al caldo, fra tanti ignoranti, fra tanti vigliacchi; che ne dite, Giovanna, non è vero?»
«La doveva dunque comprendere la sua smania di rialzare tutta questa gente, che non sa dove sia la felicità, che sono i più forti, ma che si lasciano bastonare. I padroni ci trattano come bestie, ma, perdio, che dovrebbero pentirsi!»
«A chi lo diceva? I padroni? Convien sapere tutte le impertinenze e le umiliazioni che ci fanno soffrire, perché ci pagano! Ci fanno tacer sempre con questa parola ingrata, come se il danaro ci portasse via anche il cuore e la testa e non si fosse che dei pezzi di legno animati. N’aveva mandate giù d’ogni sorta e per questo non si stancava di dirne male, felice, ora, che aveva trovato qualcuno che la potesse comprendere.»
Fra i due la conversazione si animava; parlavano forte; la fanciulla indugiava al lavoro, abbandonando una mano in quella del dicitore, che seguendo l’idea fissa acquistava una eloquenza rozza, ma plastica, s’animava dimenticandosi dov’era e s’ergeva a tribuno della classe calpestata. L’attenzione a poco a poco diveniva generale, tutti si volgevano a lui ed egli, smettendo di parlare a Giovanna, predicava a tutti; la propaganda che aveva incominciata in mezzo ai campi, alla seminagione, continuava insistente e rapida nel presepio, fra gli animali che dormivano e i fanciulli che strillavano e ruzzavano giocando.
«È che voi non avete mai voluto comprenderla; vi siete dati tutti alla terra, che vi ruba la forza, la gioventù prima del tempo, vi lasciate andare all’ignoranza inconsciamente, senza sapere dove arriverete colla vostra stupida paura dei padroni e dei preti; siete ben degni d’essere loro schiavi. Ma, perdio, lavorate come buoi e vi si paga come cani a cui si fa sentire la frusta. Né perciò vi commovete; sempre e sempre ritornate ai campi, seminate, raccogliete, e per chi? Che cosa vi rimane della vostra fatica? Nulla. Voi vedete il grano rimpinzare le case dei signori, i bachi filare pei signori, tutto insomma per essi: ai poveri affaticati il pane giallo e duro di più settimane, la polenta che vi intristisce l’acqua spesso sucida delle fonti. A loro le tavole imbandite degli arrosti fumanti ed il vino generoso.»
«Se mi potessi ficcare una sera nella cantina del palazzo, che scorpacciata ne farei! Dio mio, tramortisco al solo pensarvi. Ha ragione Gian Pietro; il vino!... Ah... buono!»
«Silenzio» esclamavano gli altri.
La parola acre e battagliera li incorava, sentivano che essa scendeva giù nel loro cuore a ridestare tutto quanto non avevano la forza di effondere alla luce del giorno; sommoveva gli odii ereditati da quegli ultimi contadini, e tutti si movevano a plaudirlo, ora che avevano trovato il loro capo e che egli stesso s’era mostrato loro, prima che essi si fossero scoperti.
«La vostra condizione è sempre rimasta eguale, voi sieti passati per tutti i padroni delle vostre terre, legati a loro come cose, avete sempre servito, dai nobili ai preti, ed ora dai borghesi agli operai.»
La madre l’interrompeva:
«Lascia stare, figlio, i preti, che sono uomini del Signore!»
Giovanna allora, sorridendo, accennava:
«Ma lasciatemi dire. Sì, anche i preti e sopratutto loro. Quello che vi lasciano i padroni, ed è ben poco, vi portano via costoro colle decime e colla paura di tutto il resto. E pagate, pagate, pagate.»
Le donne si scandolezzavano.
«Ma essi dicono la messa, essi pregano per noi e pei nostri poveri morti.»
«Fandonie, fandonie. Ma lasciatemi dire; tutte le altre classi si sono sollevate, si sono imposte alla società, voi no. Ora l’operaio ha una diretta influenza sul principale; essi fanno le paghe, ricusano di lavorare se non li si rimunerano secondo il giusto, eppure sono più deboli di voi. Ma se un bel giorno voi vi adunaste davanti alla casa del padrone e diceste: ‘Per quest’anno non lavoriamo più se non ci date quello di diritto’ credete voi che vorrà crepare di fame? Avete il mezzo di produrre e di non produrre il pane, il pane, capite? e non ne usate. Sciocchi, del coraggio, della violenza!»
Egli si era alzato. D’intorno gli altri lo seguivano a dire con ansia, la scossa era fortissima e riscaldava ed eccitava la lotta; gli apatici contadini credevano di attingere ad una nuova podestà umana e si rialzavano a guardare in faccia il nemico, che prima avevano appena sbirciato di sotterfugio, consci delle loro miserie.
Poi Gian Pietro si sedeva. «Ma voi non farete mai nulla, starete sempre così.»
Si faceva silenzio: allora incominciavano i pensieri, le critiche degli altri, volevano farsi vedere anche loro, poiché tutto quello che si era detto era giusto e la vita odierna non si poteva più sopportare.
«Perché non farebbero mai nulla? Si vedrebbe; infine erano uomini anche loro e, una volta stuzzicati, li guardasse Iddio!»
Ma, come era tardi, uscivano. I fanciulli andavano avanti mezzo assonnati, poi le donne a discorrere, poi gli uomini a discutere: agli usci si lasciavano salutandosi, mentre il vento fischiava fra i rami nudi e le stelle in alto brillavano fulgentissime, come carbonchi nella nera castonatura del domo celeste.
Così il quieto presepio si mutava in una scuola di ribellione. Non più il lento lavoro delle donne ed il mormorìo del rosario, non i bassi parlari delle fanciulle, le proposte di amore e le risate, né i giuochi dei fanciulli e gli strilli. Le vacche maravigliate rivolgevano la testa pesante ed i pazienti occhi in giro a mirare quegli uomini che discutevano, proponevano, ed i progetti della nuova rivoluzione s’alzavano cogli odori del fimo, ribelli, sfidando ed empiendo tutta la bassa stalla, mentre nell’aria fremeva come un soffio caldo di rabbia e d’odii divampanti. Le femmine anch’esse a poco a poco venivano conquistate dalla invadente agitazione: Giovanna le spingeva. Quella popolarità, che prima aveva acquistata e poi perduta sotto la distruzione dell’invidia, le ritornava e quell’orgasmo battagliero che aveva pervaso tutto l’essere di Gian Pietro, veniva a sommuoverle il sangue, onde nella foga della esposizione, dimenticando i lezi del parlare cittadino, pareva scendesse dal suo piedestallo, dove credeva d’essersi posta, per risentirsi umana, a spingere e ad affocare. I fanciulli venivano presso al gruppo e guardavano gli uomini cogli occhi sbarrati ed intenti; le parole alte, le nuove frasi sociali, che si corrompevano nelle bocche rusticane, li impressionavano, sicché di giorno, quando splendeva il sole e faceva tiepido, raccogliendosi sull’aia, ripensavano automaticamente a quanto avevano udito, si mettevano in crocchio, poi si dividevano in due schiere che di fronte venivano ad assalirsi a percosse e a ruzzoloni, terminando la lotta con gridi fanciulleschi e ritornando amici come prima: e questo chiamavano giuocare alla rivoluzione; davvero che quei rozzi fanciulli erano filosofi.
Per tutte queste idee, per tutte queste speranze che si risvegliavano negli animi dei contadini, risorgeva quasi inconsciamente quel sentirsi disprezzati a lungo, quel tedio della loro vita faticosa, considerata un’inezia, quel disgusto di tutte le privazioni e di tutte le ingiurie che per loro sembravano un retaggio dovuto e naturale. Quindi i lavori campestri male proseguivano, la zappa si faceva pesante ai novelli uomini che incominciavano a pensare, la vanga s’irrugginiva, e spesso conducendo per le strette vie i buoi aggiogati al carro, vibravano più fortemente il pungolo sulle terga dei mugghianti, tediati dal lento cammino, e cogli occhi fissi al cielo e minacciosi sembravano che mentalmente giurassero un augurio fatale e pronto a compirsi. I discorsi delle veglie portavano nei campi; una volontà naturale e grande li spingeva a ricercarsi in mezzo ai lavori, come loro paresse un bene la reciproca compagnia e le animate effusioni, mentre prima duravano delle lunghe ore a fatiche solitarie, curvi sopra lo strumento, vuota la testa ed il cuore.
Si fermavano appoggiati alle aste degli attrezzi, e l’aria che a poco andava letificandosi all’urgere della buona stagione, e le piante che si risolvevano dal gelo ed in cui la nuova linfa intumidiva le rame, parevano maravigliate d’udire i propositi e le sentenze non prima d’allora squillate nei silenzi campestri. Il sole lumeggiava il gruppo di toni caldi, come a sgranchir loro le membra dal passato gelo, ora che l’anima s’era risentita al soffio animato della predicata redenzione.
La dottrina universale, che poco avevano compreso, andava specificandosi a prendere il suo punto d’applicazione virtuale e deciso: non si parlava più del debole complesso dei padroni e della schiera fitta dei servi, ma del proprio padrone e del fattore che li aveva trattati così e così. Le molte sgarbatezze, i lievi soprusi, l’alterigia ed il piglio di comando, che poco prima non avevano rivelato, ora commentavano; si veniva a ricordare questa e quest’altra cosa passata già da anni e che pareva dimenticata del tutto e la si faceva risorgere nuovamente con maggior astio e sdegno come una questione del giorno e di grandissima importanza. La casa guasta che dovevano riattare e non veniva racconciata, le ore aumentate di lavoro per la giornata padronale, il centesimo di meno, il sacco di frumento preteso in più, il terreno ristretto alla coltivazione del granoturco, quei pochi incerti che poteva godere la vita di un contadino racchiusi e costretti dentro le dighe di un ordine esplicito ed imperativo, si venivano enumerando, si pretendevano ingiusti, se ne voleva un’adeguata rimunerazione.
«Ed avevano fatto tutto questo ed essi avevano sempre chinato la testa: non era dunque un loro diritto intangibile il farsi risentire? La cuccagna aveva durato anche troppo. Ora toccava a loro; chi va su e chi va giù. Credevano che la moderazione non li avrebbe mai spinti agli estremi; ma quando poi fossero stuzzicati, non era un affare da lasciar correr liscio. In tutti i casi l’avrebbero voluto loro, non essi. Se fossero stati quieti, santo Dio...»
Così dicevano e ripetevano con una logica stringentissima. Poi i convenuti si lasciavano con delle forti strette di mano, con dei segni fieri di capo, quasi confermassero anche nel partire la costanza invincibile nel loro proposito e la fede sicura e mistica nella loro buona riuscita a venire.
Fu allora che Gian Pietro credé fermamente d’essere un uomo avventurato, poiché egli aveva raggiunta la sua meta. La parola sua non era caduta infeconda, né sopra un terreno isterilito; gli esseri a lui simili, che egli aveva giudicati indegni o vigliacchi, si riscuotevano; ecco, lo applaudivano, si univano a lui, ed egli non avrebbe mai sfuggito quella comunità di ribelli, non si lascerebbe più trascinare da quella malinconia e da quello sprezzo per loro che prima lo assalivano, quando li vedeva lieti della indegna ed infruttuosa loro vita. La sua missione si compiva prestamente, la speranza di grandi cose lo commoveva; egli andava incontro all’avvenire coraggioso e buono, quasi trasumanato, e non avrebbe mai ceduto. Fortunato, diceva, il suo ritorno alla casa paterna; e si mostrava amoroso verso i parenti, riaveva l’ilarità di quelle risate echeggianti del passato, cantava ancor cogli occhi scintillanti e la gioia nel cuore, e la sera mangiava con buon appetito, come un animale che abbia compiuto la sua missione durante il giorno e si trovi soddisfatto. Sentivasi compreso moralmente ed inorgogliva, aveva la coscienza della propria superiorità su tutti i compagni, che al momento decisivo gli ubbidirebbero, guidati dalle stesse sentite dottrine. La fisima diventava realtà ed il sogno un fatto compiuto.
E Giovanna? La sua affezione per lei s’era aumentata; per quella fanciulla che lo aiutava come un uomo e lo sentiva come una donna aveva abbandonato la rozzezza, s’era ringentilito, come se il successo insperato gli avesse fatto risorgere nell’animo tutti i più nobili sentimenti, e vicino a lei diventava il giovinotto spensierato di campagna, con una leggiera tinta d’umanità cittadina. Aveva tenerezza nella voce, sguardi penetranti, espansioni cordiali e finiva col rispettarla. La fanciulla, usata agli omaggi triviali, all’annuncio di quella delicatezza che prima non aveva provata, si risolveva, abbandonava il fare sdegnoso, l’ironia grassa ed abituale, si faceva umile e buona come lui e come lui lo amava.
Il primo sentimento che l’aveva mossa a cercare la compagnia di quel gagliardo e focoso giovane, come un bisogno, ora le diveniva una necessità; nessuna retorica nella sua passione, nessuna cosa studiata, si abbandonavano i ricordi della città, si rammentavano quando s’erano visti prima di partire, in campagna, in che luogo, come s’erano parlato, se si volevano bene anche allora. Certo che sì, si dovevano amare fino d’allora. Non se ne ricordava? E diceva di quella volta che l’aveva incontrata sulla strada, di quando la salutava uscendo la domenica dalla chiesa e di tante mille inezie.
In villaggio si domandavano:
«A quando le nozze?»
Essi non si davano pensiero di nulla, di nulla affatto, non eccitati dal desiderio della persona, ma solo compresi di loro stessi e della loro reciproca superiorità; erano dunque felici e non cercavano altro.
Per questo ogni sera Gian Pietro la visitava alla sua casa. E quando usciva fuori, correva fischiando per la strada dritta e bianca dalla luna montante, fra le due fila degli alberi che s’intenerivano alla cima, e spesso in fondo Gian Pietro vedeva sorgere due figure umanate e vaporose che attingevano al cielo, due giganti abbracciati: lui e Giovanna. D’intorno delle voci di gioia e di tripudio correvano ad espandersi per la campagna in sonno e letificata dalla veniente primavera. La allucinazione era insistente ed egli terminava col credervi, quando, presso al casolare, i cani abbaiavano e tutto spariva.
Gli abbaiamenti si rispondevano l’un l’altro per le lontananze della pianura, riscuotendo tutti i cani assopiti del paese, sì che pareva una grande sveglia animalesca nel silenzio notturno della natura.