Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Prosa

Spirito ribelle

IV

«»

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IV

 

Giunta a questo punto l’agitazione e portata per ogni dove, necessariamente non poteva più tenersi nascosta, onde gli interessati incominciavano ad impensierirsi e a temere. Veramente nessuno dei proprietari era al villaggio e le notizie scritte fanno meno impressione delle orali: pure, come in generale la massa della campagna è conservatrice e ad ogni minimo accenno di novità s’impaurisce, da tutti si osservava quel lento esplicarsi delle idee sociali, quasi un avviso a prossime conturbazioni ed a peggiori cose. E fu pure una domenica che il parroco, atteggiandosi ad ispirazione e ad organo dei sentimenti, come diceva lui, dei ben pensanti, alludendo predicò dal pergamo:

«Fu già, o dilettissimi compagni nella fede di Cristo, che in un villaggio si aveva abbandonato il culto pel giusto Iddio. Degli sconsigliati e dei perversi affocavano l’ire ed attizzavan gli sdegni; sconsigliati e perversi, dico, poiché nulla vi è di più dolce che il soffrire al posto in cui Dio ci ha messi, per poi godere della felicità celeste ch’egli tributa ai suoi eletti. Eppure la plebe, quella stessa turba che grida crucifige al Galileo e che poi si piega alla sua dottrina di pace e d’amore, venerandolo vero Dio e vero uomo, vana e cattiva come turpe cosa terrena, questa turba seguiva le idee della setta distruggitrice ed empia. Ma venne il dies irae, il dies illa tremenda, e coloro che si erano ribellati alle leggi celesti ed umane, quali nuovi giganti minacciosi al firmamento, furono prostesi al suolo dai fulmini dell’Eccellentissimo, e delle case abitate non rimase più alcuna vestigia sulla faccia della terra. E così sia.»

Le parole del prete, che tuonavano dall’alto, si diffondevano per le navate alte della chiesa, ma non ritrovavano l’eco consueta nel pensiero degli ascoltanti e parve quasi che un mormorio di disapprovazione si elevasse, mentre, sceso all’altar maggiore, il sacerdote intonava il Credo e lo scaccino andava di panca in panca, scotendo la borsa rossa della questua:

«Per la chiesa, per le povere anime purganti

Gian Pietro, vicino a Carlo, disse:

«Hai capito? Questa è la morale; danari, sempre danari

Rispose l’altro:

«Bah!... Se loro bevono di quello buono, qualcuno deve pagarlo

«È vero

Ed il Prospero Coli scriveva in città, colla sua calligrafia grossa e pesante, che aveva perfezionata negli anni di milizia: «Doveva sapere il signor padrone che quest’anno i contadini si facevano insopportabili, specie uno che stava alla cascina della Noce e che era venuto da poco al paese, terminato il servizio al governo. Si andavano spargendo dovunque delle idee di insubordinazione e di discordia, si parlava di non lavorare più, di assaltare, di rubare, una casa del diavolo. Si volgeva dunque al signor padrone, perché gli indicasse come dovesse regolarsi con siffatta gente, ché v’era da perderne la testa

Il marchese a cui scriveva, giovane ed orfano, elegante ed ozioso, non se ne dava pensiero; veramente era venuto solo due volte al suo palazzo di *..., né poteva affatto conoscere l’umore dei contadini; onde, rimettendosi al tutto all’agente suo rispondeva: «Fate voi come credete meglio. Del resto sapeva benissimo come questi non fossero altro che fuochi di paglia, che necessariamente dovevano spegnersi subito: della fermezza e non cedere di un punto. Anzi a lui sembrava che sarebbe opportuno mettersi d’accordo colle autorità, specialmente colla benemerita, poiché il cappello piumato di costoro aveva sempre fatto e farebbe anche nel futuro un certo quale effetto sulla canaglia scamiciata. Questo era il suo consiglio; del resto guardasse e si regolasse, ma credeva non c’era di che temere». Rassicurato il nobile signore dalla idea di votarsi alla forza pubblica, scendeva in iscuderia a vedere i suoi cavalli, parlava col capo di stalla su di un certa saura che voleva comperare, lasciava detto di attaccare per le due la pariglia grigio-ferro e che lo portassero da Fanny, dopo un giro sui bastioni. Risaliva, fumava delle sigarette sdraiato ed annoiandosi con qualche libro in mano che cercava di leggere; aspettava così l’ora stabilita. Rientrava alla mattina, sazio di cibi, di vini e di baci... e così sia, avrebbe detto il buon curato di*…, e così sia!

«Allora» pensò Prospero Coli nel ricevere l’epistola padronale «se il signor marchese vuole così, si faccia

E poiché si era a domenica e certo il maresciallo dei carabinieri sarebbe in sull’imbrunire all’osteria a passare qualche oretta e a tener l’ordine, giudicò che sarebbe ben fatto andarlo a ritrovare e mettersi d’accordo con lui.

E vi andò.

Come era l’aprile, fuori un crepuscolo verdastro cadeva sulla pianura che si vedeva da un lato per le finestre aperte stendersi interminata nei prati verdi e nei campi germoglianti del tenero frumento: onde gli scarsi lumi appesi alla volta rischiaravano malamente la sala ampia e bassa, popolata alle tavole, quali imbandite e quali coperte da tappeti verdi e sucidi. V’era un fracassìo di voci rudi e chiamanti, un gridarsi fra i giocatori e dal fondo veniva di tanto in tanto lo schiamazzo della comitiva dei giovanotti, fra cui Carlo, Angelo Lanzuni ed un altro, mingherlino e pallido, con due baffetti neri, detto Michele. E s’erano raccolti per un grande affare; pochi giorni prima avevano ammazzato il gatto del pizzicagnolo, una bestia superba, grassa, dal pelo lucido, e la trovata si doveva a quel capo scarico del Lanzoni; ed ora, se lo venivano a mangiare in santa pace, cucinato in quella squisita maniera dall’oste Pasquale, quant’altri mai famoso in quel ramo d’arte culinaria. In un angolo due cacciatori bevevano ed i cani seduti, levando gli occhi ai padroni ogni tanto, parevano li interrogassero con una dolce curiosità di animali affezionati.

Disse il maresciallo, come vide entrare Prospero Coli:

«Che vi si vede alfine

«Perché no? Ogni tanto sta bene

«Sedetevi allora.»

Si sedettero alla tavola dove c’era il maestro del villaggio, un giovinetto stentato, con due occhi grandi e neri ed una barba rada e lucente, discorrendo coll’oste.

«Bravo, bravo, avete fatto bene a venirci» dissero i due, «ci trovavamo impicciati per il quarto; ci state, eh?»

«Sicuro

«Ma voi siete famoso a tresette; fortunato chi vi avrà per compagno

L’oste Pasquale, tondo e sbarbato di fresco, lo complimentava colla sua bonarietà grossolana, percuotendolo della palma aperta sulla coscia.

Ora il giorno era calato. Sull’orizzonte correva una tenue striscia aranciato-pallida, su cui i gelsi allineati spiccavano nettamente, e, poiché si faceva sempre più buio, delle candele si erano accese sulle tavole occupate.

I quattro uomini si mettevano a giocare.

«Dite, maresciallo» mormorò, chinandosi all’orecchio dell’interrogato, il fattore «avrei qualche cosa a dirvi

«Sì? Già me lo figuro. E come va con questi ragazzi

«Eh! chi lo sa

«Giocate picche, va bene così.»

Prospero pareva più assorto alla sua idea che al giuoco: gettando distrattamente le carte sul tavolo, incominciava a diffondersi intorno alla questione dei contadini, a questi rumori di ribellione, sulla cattiva voglia di lavorare che loro era entrata in corpo, Dio sa per qual diavolo.

«Ecco una cosa che non si poteva più continuare. Bisognava vedere che petulanza e che risposte e nessuna paura e nessuna obbedienza, tanto da far scappare la pazienza ad un santo. Voi non ne sapete nulla, converrebbe che aveste a prendere il mio posto per parecchi giorni, allora potreste provarla la vita maledetta che duro... E lo so che mi vogliono male, ma duro fino all’ultimo

Il maestro, accompagnando la parola con un sorriso sbiadito, gli faceva osservare:

«Con moderazione però, non è vero

«Fin che si può. Ma poi, vedete (ed accennava al maresciallo), quando non basto io mi metto dietro a costoro. Se ne avrebbero a vedere delle belle allora. In fin dei conti il signor marchese mi ha dato la custodia di tutta quanta la possessione e, come l’ho ricevuta, tale la devo rendere. Anche noi siamo come soldati, avanti tutto il dovere, del resto avvenga che può.»

Per questo il giuoco illanguidiva; la conversazione, più interessante, li faceva avvicinare colle teste, quasi a toccarsi ed alzando le voci, che andavano a confondersi col brusìo generale, facevan dei gran gesti, proponendo grandi cose.

La sera era calata. Le candele, sotto il vento che veniva dalla finestra, tremolavano e si struggevano, mentre dei moscerini notturni volitavano intorno alle fiamme: nell’aria si spandeva a poco a poco un odor forte di vini e di vivande ed un caldo malsano, che ad ogni tratto veniva traversato da soffi gelati e bruschi.

«Sicuro; se ne era andato per sempre quel bel tempo in cui tutti stavano in pace e non si movevano. Frutti della nuova e cattiva generazione, del credersi da più di quello che si è, della smania di possedere ciò che non è suo e di mettersi al posto occupato a buon diritto dagli altri, forzandoli ad uscire colla malizia o colla violenza

Così spiegava il giovane insegnante. La sua mente piccina e ristretta s’era accontentata del misero stato di maestro rurale e, poiché era uscito da una famiglia di contadini e collo studio assiduo e laborioso, non con una vera capacità, era arrivato dove forse non credeva mai di giungere, egli si riteneva pago di quell’innalzamento conquistato a poco a poco, quasi avesse attinto alla desiderata perfezione umana ed insuperbiva di quello che aveva fatto, tributandolo tutto al suo ingegno ed alla sua istruzione.

«È così appunto

Dalla tavola dei giovanotti, Carlo Anzoni gridò:

«Ohè, zio Pasquale! Che ci volete far morire dalla sete? Vino, vinooo

Come l’oste, attento ai discorsi, non lo udiva, gli venne presso e gli batte sulla spalla.

«Laggiù si vede che non basta il pozzo di san Patrizio

E poiché lo vide occupato cogli altri:

«Scusate, io non sapeva che si parlava coi signori. Già, quando si hanno di queste conoscenze si trascurano i poveri diavoli

Il padrone lo rassicurava.

«Ma no, anzi...; per me tutti gli avventori sono uguali, tanto più voi.»

«Via, non facciamoci dei complimenti, Come va col famoso lepre? A quest’ora sarà rosolato a puntino. Dico, guardate bene la misura del litro... Poca acqua, neh? Del resto ci siamo assuefatti. Loro, sì, se lo possono pigliare e pretenderne di quello genuino: pagano come noi, è vero, ma tanto fa, vestono di panno... All’aria gli stracci, sempre così.»

Il giovane strizzava l’occhio, malignando verso i convenuti e sorridendo, quasi desse loro la baia, e quando fu partito insieme all’oste il Coli, toccando col gomito il maresciallo, sclamò:

«Avete udito? Una supponenza che non si può immaginare la maggiore! Perfino all’osteria non la smette questa canaglia

«Lasciate correre, è il vino

«Tutt’altro. Certe cose mi fanno peso allo stomaco e non le posso mandar giù

Ora d’in fondo veniva un gran fracasso di voci, di applausi, un tintinnio di bicchieri urtantisi in un brindisi rude e generale.

«Evviva Carlo!» Si schermiva costui. «Tutt’altro, evviva il gatto del pizzicagnolo. Ma è una meraviglia; addosso, addosso al gatto

La vivanda fumava in mezzo alla tavola con un forte odore di droghe e di vin bianco bollito, mentre il caldo cresceva sempre e le candele si struggevano e colavano sulla tovaglia macchiata di vino. — Una espansione gioiosa ravvicinava i commensali fra i godimenti del cibo e della bevanda, una armonia di spirito nuova e strana in quegli uomini li spingeva a ricercarsi contenti, felici, per discorrersi colla bocca piena e le labbra imbrattate dallo intingolo; camerati buoni ed allegri si trovavano nel fracassìo generale e pareva volessero protrarre a lungo quell’ora di delizia e di quiete umana, stanchi del passato cattivo ed impauriti di un futuro minaccioso e forse più triste del tempo trascorso.

Fra l’allegria sorse Michele, pallido e cogli occhi animati dalla piacevolezza che stava per dire:

«Che non si debbono fare i funerali alla povera bestia? Questo no! Se un cristiano muore, si pagano i preti per portarlo al camposanto; ora qui nessuno pretende davvero d’essere pagato, ma gli ultimi onori sono in questo caso necessarii

Poi intonò una canzone bacchica in un ritmo pesante e come di canto fermo; le note si alzavano armoniose e cupe per la sala dell’osteria, vincendo tutto il rumore:

 

Si ghera un gato bianco,

che si gratava il fianco;

coi quater marmagnao

e gnao e gnao e fôr,

e fôr de tutt i ôr,

si ghera un gato bianco, sapeva un bon sapôr!

 

Il coro rispondeva:

 

Si ghera un gato bianco, sapeva un bon sapôr!

 

La cantilena sacerdotale accompagnata alla strofa grottesca, echeggiata in un’osteria, accennava a quel canto bizzarro e medioevale della festa dell’Asino a Reims, quando nella cattedrale, dopo i versetti latini della liturgia, incominciati coll’

 

Orientis partibus

adventavit asinus,

 

la folla in coro, nello stesso ritmo, esclamava:

 

Hez, sire asne, ça chantez,

belle bouche reschignez,

vous aurez du foin assez

et de l’avoine à planter.

 

Il maestro era partito e, poiché rimasero il fattore ed il maresciallo si fecero vicino e, come avessero a raccontarsi un gran secreto, bisbigliavano sotto voce:

«Maresciallo, io vi pregherei d’un favore

«Ma subito, il mio caro Coli, purché ciò che mi domandate si possa effettuare

Il vino bevuto li aveva messi in buonissima armonia, onde risolutamente Prospero attaccò l’argomento.

«È venuto in paese dallo scorso anno un certo cattivo soggetto, il Gian Pietro della cascina della Noce. Il suo arrivo ed il sommoversi di tutta questa gente alle pensate diavolerie fu un punto solo. Alla mietitura ci siamo bisticciati e le ho toccate, poi seguitò nella sua propaganda tutt’altro che religiosa. Lo si sa da tutti oramai: se non v’era costui si rimaneva quieti

«Di quel giovanotto alto e bruno, voi parlate? che la domenica si mette i pantaloni di prescrizione

«Appunto. Sentite; questa volta mi farete proprio un gran piacere. Aspettatelo un bel giorno, ditegliene quattro; voi, col posto che occupate in paese...»

La canzone, da prima lenta, ora si faceva animata, acquistando il canto fermo una leggerezza spigliata, delle note acute, dei trilli forti e sonori:

 

Si ghera un gato griso,

che si gratava il viso

..............

 

«...che occupate in paese, colla vostra divisa, col prestigio del corpo a cui appartenete, potete far molto di più che un altro; se gli parlassi io certo mi riderebbe sul muso, come due e due fanno quattro.»

Il maresciallo rifletteva sulla proposta, alzando il bicchiere all’altezza dell’occhio e godendo dello scintillare del liquore sotto la luce; l’altro lo pressava, lo stringeva con argomenti importanti, gli mostrava il bene che avrebbe fatto a tutti, se alla fine costui si chetasse.

«E se non istà fermo

«Allora addio. Però me lo promettete

Certamente era cosa indelicata il non acconsentire ad una persona che fu compagna tutta la sera, che bevve dello stesso vino, che a poco a poco, all’influsso del liquore cordiale, s’era animata con lui, infine che si mostrava tanto amica e gentile. In coscienza non poteva rifiutare; poi dei dubbi venivano al militare, ma una sorsata li scacciava e della palma aperta percuotendo sulla tavola, risolvette:

«Perché no? L’idea mi piace

«Bravo; ed ora non se ne parli più.»

In fondo il frastuono aveva toccato il suo punto culminante. In tutta l’osteria non si sentivano che loro ed ora poi che la canzone era terminata e che tutti parlavano a voce alta, i discorsi si confondevano alle bestemmie, ed i progetti per l’affare in macchina, come si diceva, cominciavano ad esplicarsi. Il maresciallo ed il fattore si erano rimessi a bere, la memoria dei fatti passati riveniva colle tazze tracannate, si ritornava indietro molti anni. Coli rammentava di quando era sergente e vi si distendeva a lungo, l’altro ritrovava in lui un camerata e battendogli amichevolmente sulla spalla lo complimentava.

«Voi avete dovuto essere uno di quelli con cui si stava bene in compagnia

«Sicuro. Così si ingannavano gli ozi della guarnigione. Non faceva per vantarsi, ma di queste fortune gliene erano toccate parecchie, ed una sera che sarebbero soli lo avrebbe divertito raccontandogliele. V’era poi vicina al quartiere una servotta bruna e bella tanto da far peccare un santo ed egli s’era messo d’attorno a lei con un tale ardore giovanile, con un tal fuoco che brava sarebbe stata a non concedersi... Ma questo baccano è insopportabile

«Non ci si può sentir nulla.»

Il maresciallo alzossi a stento ed andava accostandosi alla tavola dei banchettanti.

«Ohè, dite, ragazzi. Che ci volete assordare? Statevene cheti un poco.»

Costoro prima tacquero, poi fu un mormorìo.

L’aria s’era fatta soffocante e quel soffio gelato, che di tanto in tanto faceva tremolare la fiamma delle candele, più non bastava a mitigarla. I fumi del vino, le parole alte, i gridi, la stessa obesità pei cibi mangiati, s’erano fusi in una gagliarda ebrietà che saliva alla testa dei rustici ed essi si trovavano appunto in quello stato in cui ogni cosa rude impressiona sgradevolmente, ogni nonnulla incita all’ira ed ogni parola non bene diretta o mal compresa fa bollire il sangue, rende ciechi... e ciò che accade dopo non è sempre troppo bello e desiderabile.

Angelo Lanzoni lo interruppe:

«Che! ci volete anche impedire di stare allegri? Avete forse pagato voi il vino? Sissignori, che vogliamo gridare fin che ci accomoda, che non facciamo male a nessuno.»

Ripeteva il maresciallo, imporporandosi in viso: «Calma, ragazzi, calma

«Ed ha ragione l’Angelo», dissero gli altri.

«Che ne volete bere un poco?» interruppe Carlo, avanzandosi col bicchiere colmo fino all’orlo. La bocca ampia si chiudeva in un sorriso sciocco e maligno, come che cominciava a tremolare sulle gambe ed egli stesso si scusasse, compassionandosi di quella sua debolezza, e poiché fu vicino al maresciallo ebbe un leggero barcollo, sicché il vino uscendo dal bicchiere gli spruzzò la giubba.

«Mi venite anche fra i piedi? Sudicioni

La destra lentamente si alzò e con uno schiaffo repentino e ben applicato alla mano dell’offerente fece volare la tazza lontano: nel silenzio fattosi la si udì infrangersi sonoramente sul muro ed i cocci cadere a terra con una vibrazione prolungata e squillante, mentre il vino colava lungo la muraglia in vene lunghe e rosse.

«Ohè, ohè, si fa così?»

I convenuti si fecero minacciosi vicino al maresciallo. L’osteria era sossopra; Pasquale accorreva a calmarli, il Coli acquetava il soldato, gli dimostrava come nulla ci fosse di male, che lasciasse andar tutto per la sua strada, che un moto di furia si poteva ben scusare.

Fu allora che dei miagolii lamentosi si intesero e dei latrati: i cani dei cacciatori, rincorrendo il gatto dell’oste in mezzo alla sala libera allora, facevano una casa del diavolo gettando a terra le sedie, inciampando nelle tavole, ruzzolando, sbrigliandosi a tutti i giuochi possibili in quella caccia ridicola ed affannosa, mentre i padroni li chiamavano ridendo:

«Qui Tom, qui Brick, abbasso

Come la scena era comicissima, Carlo, che dopo l’urto, seduto, l’aveva osservata nella sua pienezza, scoppiò dalle risa tanto forte che piegato in due si teneva il ventre colle mani: gli altri della comitiva, vicini a lui, lo imitarono e, poiché si acquetarono gli abbaiamenti e l’ira in quei capi ebbri cedeva al buono influsso dell’allegria, il coro grande della ilarità, squillò audacemente per la volta dell’osteria.

Alle nove entrava Gian Pietro, mentre il Coli stava spiegando colla lingua un po’ grossa, come avesse notato alla domenica in chiesa una bella ragazza vestita cittadinescamente, che gli andava tanto a genio e che un bacio di lei non era da gettare.

Gli amici accolsero l’entrata con liete grida, colle mani impacciate dai bicchieri volte verso di lui, come un invito al brindisi. Gli si fecero d’attorno raccontandogli la scena di poco prima e come era terminata lepidamente, mentre che lui, scrollando la testa, mormorava:

«Sciocchi, sciocchi; non ne sapete niente».

Carlo lo spingeva, ebbro del tutto, ad unirsi alla comune allegria.

«Ma oggi è giorno di cuccagna, tu ci hai sempre per il capo queste benedette idee...»

«Ed è perché voi non le avete mai avute, che siete rimasti dove non dovreste essere. Del resto voi avete ragione; quest’oggi siete felici. Avete del vino e del cibo in pancia. Evviva voi!»

Alzò un bicchiere colmo e lo bevette fino al fondo.

«Sicuro, evviva a noi tutti.»

Poi la festività di tutta la compagnia, quell’ambiente che risentiva per se stesso i fumi dell’ebbrezza, le risa, le scene salaci, gli atti grotteschi dei bevitori, tutto quel complesso di piccole cause che schiacciano la malinconia, e più di tutto l’influenza di una comunità che in quel momento è contenta e si tributa con una specie di smania al suo piacere, lo avevano eccitato, lo avevano spinto a portare il suo organismo a quell’altezza di soddisfazione morale e psichica che gli altri godevano. Né mai fu, come allora, degno della sua fama di gioviale camerata.

Poco dopo, mentre il fattore usciva, s’incontrava sulla porta con Giovanna, che veniva a ricercare suo padre: eccitato dal vino e dal discorso che prima aveva tenuto se l’abbracciò stretta, cercandole colle labbra la bocca e ridendo esclamò:

«Cara, cara

Il grido femminile, sollevato dal repentino assalto e dall’amplesso brutale, s’alzò vincendo i discorsi, mentre ch’egli usciva forbendosi la bocca colla mano.

«Che peccato! è un po’ selvaggia, non di quelle gentili del nostro quartiere. Che peccato

Fuori gli sembrò che la strada gli ballasse attorno e gli alberi camminassero come umani, erti sul cielo stellato.

 


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